mercoledì 17 ottobre 2012

Dice che le scale le devi fà in ginocchio

La tanto decantata "eternità" di Roma si manifesta continuamente nei suoi più molteplici aspetti: dalle infinite, eterne attese alle fermate d'autobus, alla persistenza di antiche tradizioni, giunte sorprendentemente immutate fino ai giorni nostri, dopo un tempo quasi eterno. E quando capita di assistere al lento incedere di fedeli che risalgono i gradini della Scala Santa in ginocchio, esattamente come accadeva cinque secoli fa, non possiamo che rimanere affascinati dalla potenza simbolica di una tradizione sopravvissuta persino all'uscita del fottutissimo I-phone 5. Alla base del "percorso" un cartello multilingue fornisce ai visitatori casuali le istruzioni per l'uso, mentre alcuni tra i "volontari" si concedono, in linea con la modernità di una società ormai decisamente welness oriented, la rinuncia a sofferenza e sacrificio grazie all'utilizzo di pratici cuscini salvaginocchia. Come agognato premio li aspetta l'indulgenza da tutti i peccati, ma solo a tempo determinato. Lo status di santità applicato a semplici gradini di marmo deriva nientedimeno che dalla leggenda della loro appartenenza alla scala originale del palazzo di Ponzio Pilato, teatro dello storico processo a Gesù Cristo, fatta recapitare da S.Elena, madre dell'imperatore Costantino, come ingombrante souvenir del suo lungo viaggio in terra santa. Utilizzata in principio come scalone di ingresso dell'antico palazzo Lateranense, venne successivamente ricollocata all'interno dell'attuale edificio cinquecentesco ricostruito ad hoc, opera dell'architetto Domenico Fontana, realizzato nell'ottica del rivoluzionario rinnovamente edilizio dell'intera piazza S.Giovanni commissionato da Papa Sisto V.

La scala venne dunque rismontata, trasferita e ricostruita gradino per gradino nel giro di una sola notte (praticamente la metà del tempo che impiegherebbe un essere umano normodotato a montare una stupidissima libreria Billy di Ikea), e venne dunque riciclata come accesso privilegiato all'antica cappella privata dei pontefici, unico elemento originale risparmiato dalla demolizione dell'intero complesso Lateranense. La scala è rivestita da una protezione in legno di noce, al fine di evitare la consunzione del sacro marmo ad opera delle spigolose ginocchia dei fedeli, e rimane visibile solo parzialmente attraverso alcune apposite fessure: lo stesso meccanismo di protezione del divano buono in salotto con copridivano tattico, e stesso deludente effetto. Il punto di arrivo della scomoda ascesa è rappresentato da un finestrone con grata, di fronte al quale i fedeli sostano a fine percorso in adorazione dell'immagine del cosiddetto Salvatore Acheropita, custodito all'interno della suddetta cappella privata.

La cappella dei pontefici (in realtà cappella di S.Lorenzo) è conosciuta inoltre come Sancta Sanctorum (santa tra le sante, o come si dice a Roma santa 'na cifra) per via della preziosissima e cospicua raccolta di reliquie di quelli che possono considerarsi i veri e propri big della santità: dalle teste di Pietro e Paolo, in seguito ritrasferite nella basilica, alla testa di S.Agnese, fino ad arrivare al sacro prepuzio di Cristo, la cui travagliatissima vicenda meriterebbe un post a parte. Impunemente sottratto da un Lanzichenecco durante il sacco di Roma, fu ritrovato a Calcata in seguito alla cattura sul posto dello sventurato ladro di prepuzi, dove venne infine custodito nella chiesetta del paese fino all'ultimo clamoroso furto del 1983. Il fatto che l'ultimo atto si sia svolto proprio nel borgo colonizzato dagli ex hippies, in un contesto fricchettone di peace and love in cui era lecito fumarsi di tutto, rende l'intera faccenda persino più inquietante. Tornando alla cappella privata dei pontefici, per noi che alle ginocchia ci teniamo (e presuntuosamente riteniamo di non avere peccati da assolvere) ci è concesso raggiungere più comodamente questo autentico gioiello medioevale percorrendo la scala parallela, che passando attraverso l'adiacente oratorio di S.Silvestro, permetterà di accedere direttamente all'interno del Sancta Sanctorum.


Tra affreschi originali del 1200, splendidi mosaici e decorazioni Cosmatesche, emerge su tutto come indiscusso protagonista la meravigliosa immagine del Cristo Salvatore. Narra la leggenda che l'apostolo Luca, notevolmente apprezzato per le sue doti pittoriche, si accinse a realizzare su richiesta dei fedeli un ritratto di Gesù come celebrazione dopo la sua morte. Dopo essersi limitato a tracciare un pigro disegno di base, l'apostolo decise quindi di lasciare il lavoro incompleto pensando di proseguire il giorno successivo (mi ricorda qualcuno), ma è proprio nel corso della notte che accadde il miracolo e la tavolozza si perfezionò senza il suo intervento con una spontanea e prodigiosa apparizione di eccezionali colori. Per questa ragione l'immagine venne denominata Cristo "Acheropita", che in greco bizantino significa appunto "dipinto da mano non umana". Approfitto quindi dell'episodio per augurare lo stesso prodigio a chi dovesse accingersi a rimbiancare le pareti di casa (potremmo persino inaugurare il pantone acheropita). L'immagine è oggi quasi interamente nascosta da una ricchissima copertura argentea, decisione che risale al pontificato di Innocenzo III. In realtà persino il volto, unica porzione apparentemente visibile, è stato riprodotto su di un velo di seta successivamente applicato sull'originale (di nuovo la storia dei maledetti copridivani). Questo significa che non conosceremo mai la straordinaria bellezza di un'immagine, frutto di una tecnica talmente sorprendente da essere ritenuta soprannaturale e dovremo dunque limitarci a percepirne la potenza e l'importanza dietro un eloquente strato di superficiale ricchezza.


Esattamente di fronte troviamo l'armadietto custode delle sacre reliquie, chiaramente blindatissimo. Tra tutte rimane visibile, esposto su una delle pareti laterali, solamente una porzione del legno della tavola dell'ultima cena. Levatevi comunque dalla testa l'immagine della tavolata per tredici di leonardesca memoria e pensate piuttosto a una sorta di monovassoio da colazione in camera, vale a dire quello che un tempo era considerato tavolo. E mentre dal finestrone con grata le fedeli giunte in vetta ci scrutano come fossimo in un esperimento di osservazione comportamentale, decidiamo infine che è arrivato il momento di uscire. All'esterno ci attende nuovamente il traffico impazzito di piazza S.Giovanni, semafori, clacson e un'orda di venditori ambulanti che cerca di rifilare ogni genere di paccotiglia. E quasi viene il dubbio che alla fine la salita in ginocchio in confronto sia solo un sano esercizio di relax. Persino senza cuscino.

La Scala Santa si trova in Piazza S.Giovanni 14. Il Sancta Sanctorum è visitabile tutti i giorni (escluso la domenica e il mercoledì mattina) dalle 10:30 alle 11:30 e dalle 15:00 alle 16:00. Ad ogni modo è consigliabile prenotare o chiedere maggiori informazioni allo 06-7726641.

E visto che era un pò che non lo facevo vi ricordo ancora una volta del mio libro "Roma Fuoripista". Una selezione dei migliori itinerari nello stile "Dice che a Roma" che potete acquistare on line direttamente sul sito www.romafuoripista.com o nelle librerie romane indicate sulla medesima pagina! Daje che Natale è vicino (seeeeee)

giovedì 4 ottobre 2012

Dice che s'è fatta l'ora di pulire il bagno


Generalmente identifichiamo il passato di Roma con le vestigia della monumentalità imperiale o religiosa (che poi sempre imperiale è), ma c'è un altro passato che non dobbiamo assolutamente sottovalutare: quel passato recente in cui riecheggiano ancora le storie di generazioni appena precedenti la nostra. Storie che alcuni ricordano ancora in prima persona e che non ci vengono raccontate sulle pedanti pagine di un testo storico, ma attraverso la voce della gente comune, o come in questo eccezionale caso, grazie alla filmografia degli anni più felici del nostro cinema. Spesso i due passati si accavallano o si confrontano come se fossero uniti da una linea sottile, e accade che il meno potente dal punto di vista iconografico, per quanto prezioso, rischi di soccombere alla fine più atroce e svilente: abbandonato al degrado e all'incuria. La Casa del Passeggero, ex albergo diurno all'incrocio tra via del Viminale e via delle Terme di Diocleziano, ci appare oggi come una discarica urbana, appena ingentilita dalle forme liberty di inizio secolo scorso. Un raffinato covo di immondizia, "contessa miseria" dell'architettura romana di un tempo, inspiegabilmente avviata verso la più assurda cancellazione (e grazie a Carmen Consoli per la definizione).


Piccolo capolavoro del "barocchetto romano", realizzata nel 1920 dall'architetto Oriolo Frezzotti, si distingue immediatamente per quella sinuosa tettoia in vetro e ferro battuto, che messa a protezione dello scalone di ingresso interrato, appare come precaria cornice di una facciata composta con angeli in pietra e bassorilievi di bronzo, in un armonico insieme che invita a sognare di un passato avvolto da vapori e profumo di acqua di colonia (in realtà c'è tanfo di piscio, quindi levatevi dalla faccia l'espressione estatica). Sulla ringhiera di ingresso troneggia la sigla Caspas, esotica abbreviazione di "Casa del Passeggero", ad indicare la sua funzione di albergo diurno a due passi dalla stazione Termini, punto di arrivo prediletto per ogni viaggiatore bisognoso di un bagno o più semplicemente di qualche ora di riposo. Un moderno stabilimento termale, sorto per caso o volontà proprio nei luoghi in cui un tempo si estendeva ciò che rimane delle maestose terme di Diocleziano (la linea sottile che lega tra loro i passati di Roma).


Doccia, barbiere, manicure e pedicure erano solo alcune tra le prestazioni offerte, oltre ad un efficiente servizio di dattilografia per chiunque avesse avuto bisogno di una lettera scritta a macchina. E non erano solo i viaggiatori ad usufruirne: in un tempo piuttosto recente dove il bagno in casa era un optional (con l'unica eccezione del minimo indispensabile per le evacuzioni di base), erano in tanti gli abitanti dei quartieri limitrofi a desiderare"il lusso" di un momento di benessere tra i vapori di un bagno caldo. Lo stesso genere di  lusso che noi oggi ricerchiamo nelle Spa, dove tra sadici massaggi con pietre bollenti, bagni nella cioccolata o pediluvi nel vino (che spreco) non saprebbero più che inventare per soddisfare la richiesta di un pubblico ormai abituato alla vasca idromassaggio in casa. Come in tutti i luoghi di passaggio non mancavano ovviamente le prostitute della zona, pronte ad offrire un gradito servizio extra ai frequentatori del posto. Ed è così che in questo microcosmo intriso di talco, vapori e cipria, tra puttane e dattilografe, eleganti viaggiatori e coppie clandestine, piazzisti e residenti in cerca di relax è stato scritto un piccolo pezzo di quel racconto di un Italia fatta soprattutto di persone, con i loro sogni, i loro vizi e le loro attese. Chissà quante storie si sono intrecciate e sono nate oltre quel cancello, oggi  malamente custodito da due teste di leone in pensione che sembrano aver perso la fierezza di un tempo. Dietro di loro i magnifici ovali in bronzo ci raccontano una storia di esotica ricercatezza, dove liberty e richiami classici si fondono nell'idea di una cura del corpo che dalla Roma imperiale ad oggi (con lunghe, maleodoranti pause nell'età di mezzo e oltre) ritrova la sua collocazione nei bisogni e nelle aspirazioni della gente comune.


Accanto alla storia quotidiana c'è anche una storia di celluloide, fatta di registi e attori che immortalarono la Casa del Passeggero, affascinati da quelle forme e dalla peculiare quotidianità che rende magico ogni luogo di passaggio, punto di incontro di cittadini e viaggiatori. Nel film "il segno di Venere" del regista Dino Risi, i grandissimi Franca Valeri e Peppino de Filippo interpretano rispettivamente una dattilografa e un fotografo, impiegati medio borghesi in quello che veniva allora definito come centro multiservizi. In origine il film doveva essere incentrato sul personaggio della sola (ed evidentemente sottovalutata) Franca Valeri, ma per esigenze commerciali della casa di produzione Holliwoodiana venne richiesto di infarcire la pellicola con quanti più attoroni Italiani da blockbuster possibili come garanzia di successo. E fu così che si compì il miracolo che vide gli interni della Caspas come set di incontro dei più grandi mostri sacri del cinema italiano in un unica pellicola. E accanto a Franca Valeri, ecco incrociarsi sotto le volte affrescate della Casa del Passeggero personaggi e storie interpretati nientedimeno che da Sofia Loren, Alberto Sordi, Peppino de Filippo e Vittorio de Sica.

Anche il maestro Fellini ne rimase folgorato, e notoriamente fissato nel voler necessariamente riprodurre ogni ambiente esterno tra le mura di Cinecittà, al punto da ricostruire in studio l'intera via Veneto de "La dolce vita", fece realizzare una copia della facciata della Casa del Passeggero come set per il suo autobiografico "l'intervista" del 1987. E a questo punto potremmo azzardare la forzatura di una misteriosa leggenda o maledizione, secondo cui tali ricostruzioni tolsero l'anima ai loro originali facendoli precipitare entrambi in una decadenza che è oggi sotto gli occhi tutti (via Veneto volgare trappola per turisti, e la Casa del Passeggero discarica a cielo aperto). Ma non possiamo certo dare la colpa a Fellini e alle sue manie se oggi ci ritroviamo questo gioiello seppellito dalla monnezza.


Sarebbe facile fare del populismo e prendersela con una amministrazione troppo impegnata a gozzovigliare nascosta dietro eloquenti maschere da porco. Forse più che inveire dovremmo conoscerla, parlarne, fotografarla, scoprirla, raccontarla, e un giorno qualcuno con più possibilità di noi potrebbe infine prendersela a cuore e porre le basi per una sua rinascita. Possibilmente non come ennesima galleria d'arte radical-chic, ma come punto di incontro variegato quale era. Tra puttane, viaggiatori, commesse e perditempo, sintesi e specchio di un Italia amata e odiata e che oggi sembra solo un lontano ricordo.