Come tutti gli anni all'arrivo della bella stagione inizia l'acceso dibattito con tanto di risse sulla proclamazione del gelato più bono di Roma. E mentre persino le maledizioni del "bio", del "chilometro zero" e del "vegan" si abbattono sul caro vecchio cono, glorificato dalla pretenziosa origine delle materie prime, (perchè se il pistacchio non è di Bronte e la nocciola non è del Piemonte allora so' cazzi amari) fortunatamente esiste ancora una tradizione che sopravvive ferma e imperturbabile all'interno dell'austero "palazzo del freddo" di via Principe Eugenio. L'antica gelateria Fassi: un'isola temporale dove la qualità e il rincorrersi delle mode e delle patologie moderne che mettono alla gogna glutine e lattosio, passa in secondo piano rispetto all'esperienza di gustare un gelato che rappresenta un pezzo di storia della nostra città.
Siamo nel cuore del quartiere Esquilino, Chinatown capitolina ricca di contrasti dove la Roma popolare convive con le nuove ondate migratorie sullo sfondo di portici Ottocenteschi e severe architetture Umbertine. E mentre il commercio cinese si allarga alla conquista del quartiere con la moltiplicazione di anonime vetrine che affacciano su un vuoto espositivo riempito da sospetti, congetture e leggende metropolitane, la famiglia Fassi cosa fa? "Asserragliata" nel proprio quartier generale del palazzo del freddo, (e con questo nome quasi fiabesco come non pensare alla fabbrica di cioccolato di Willie Wonka?) lancia il contrattacco e inaugura un punto vendita proprio a Shangay (tiè). Perché alla fine un equilibrio si trova sempre e, dopo una prima inevitabile fase caratterizzata da accuse e sospetti, le nuove generazioni di cinesi iniziano finalmente ad integrarsi nel rione masticando romanaccio e leccando gelato; e non parliamo di quella maledettissima palla fritta del ristorante cinese che ha spaccato i denti a generazioni di italiani nel suo implacabile contrasto caldo-freddo, ma proprio del gelato di Fassi, tornato ad essere punto di riferimento del quartiere dopo un breve periodo di crisi e una successiva fase di assestamento che lo ha riportato ai suoi antichi splendori.
Il capostipite Giacomo e la moglie Giuseppina arrivano dal Piemonte all'indomani dell'unità di Italia. Perché prima ancora dei cinesi, l'Esquilino l'hanno colonizzato i piemontesi, quando Roma, proclamata nel 1870 capitale del regno, si è preparata ad accogliere quell'esercito borghese di burocrati e ministeriali che dalla precedente capitale Torino (passando per Firenze) si sono riversati in massa verso la nuova sede di un governo finalmente laico, in questa "metropoli" di fine Ottocento pronta al salto verso la modernità dopo secoli di immobilismo clericale. Ed è così che l'intero quartiere viene riprogettato su misura, con quell'enorme piazza dedicata a Vittorio Emanuele circondata da portici per far sentire i piemontesi un po' più a casa. I Fassi danno il via alla loro epopea con una rivendita di ghiaccio e birra in via delle Quattro Fontane e, se la scelta di commercializzare la bevanda luppolata rappresenta decisamente un primo punto a loro favore, la definitiva consacrazione del mito avviene con la ferma decisione del figlio Giovanni, pasticcere ufficiale della casa reale, di abbandonare la privilegiata posizione lavorativa a causa del suo categorico rifiuto di tagliarsi i baffi, così come previsto dal codice interno a seguito di un'ordinanza speciale del re (ma questa dell'orgoglio baffuto è una valutazione personale molto di parte).
La scelta di mettersi in proprio non tarda a produrre i suoi frutti, e dopo alcuni anni la famiglia è in grado di acquistare un nuovo palazzo proprio nel cuore borghese della capitale, dove in 700 metri quadrati tra laboratorio e saloni liberty inizia a prendere piede il mito del gelato artigianale in grande scala. E in virtù di una cinica legge del commercio che non guarda in faccia a nessuno, tra gli estimatori dei gelati Fassi nel corso del tristemente celebre ventennio, ritroviamo anche Mussolini, Italo Balbo e lo stesso Adolf Hitler in visita a Roma, da cui vennero commissionate delle torte gelato con tanto di svastica la cui vista potrebbe addirittura farmi rivalutare le stucchevoli evoluzioni dell'odierno ed irritante cake design. Per permettere a Balbo di portare le sue scorte fino in Libia venne persino brevettato il sistema del telegelato Giuseppina (in onore della moglie del capostipite), con l'impiego sperimentale di ghiaccio secco per la spedizione e la conservazione dell'ambito prodotto oltre i confini del regno.
La grande storia del Novecento e delle grandi guerre, oltre che sui campi di battaglia, segue il suo corso parallelamente anche nella celebre gelateria, come quando nel 1945 la Croce Rossa americana decise di requisire il locale per produrre il gelato per le truppe Statunitensi di stanza a Roma. Tra l'altro fu proprio in questa occasione che un tale Alfred Wisner, l'ingegnere della Croce Rossa che aveva coordinato le operazioni di occupazione dello stabile, propose a Giovanni Fassi di creare un'azienda a vocazione industriale, utilizzando la tecnologia di un nuovo impastatore che avrebbe permesso la produzione di gelato in grandissime quantità. Giovanni rifiutò di abbandonare i suoi ideali di artigianalità, e il sig. Wisner seguì da solo il suo progetto fondando nientedimeno che la Algida. Oggi i macchinari originali di inizio secolo scorso sono esposti nelle vetrine e all'interno del salone, dove ancora si respira un'aria retrò solo in parte intaccata dalle folle di turisti e romani che si affollano al bancone. E tra vecchie locandine, tavolini in marmo e una nostalgica fontanella interna (perché il bicchiere d'acqua è un complemento d'obbligo al gelato, così come dovrebbe esserlo al caffè in ogni bar che si rispetti), alzando lo sguardo verso gli alti soffitti potremmo quasi percepire l'atmosfera di una sala da ballo di inizio Novecento.
Dopo essermi perso tra articoli, fotografie e vecchi cartelloni pubblicitari degli anni trenta e quaranta, esco dal palazzo con una confessione da fare: "alla fine nun me so magnato manco un gelato"! Forse avrei dovuto provare almeno il "sanpietrino": un quadrato di semifreddo ricoperto di glassa al cioccolato ispirato alla forma di quei famosi serci romani che lastricano le nostre strade attentando alla vita dei centauri motorizzati e delle impavide camminatrici su tacco dodici. E quindi lascio a voi il compito di andare e riferirmi, perché alla fine anche io, da bravo romanaccio campanilista di quartiere, valore storico a parte, rimango fedele alla gelateria dietro casa: nel mio caso la mitica "Gelatomania" della Portuense, a cui posso comunque affettuosamente rimproverare che sì, magari non avranno prodotto torte gelato con la svastica, ma sull'orrido gusto "puffo" anni Ottanta dalla tonalità bluastra ce so cascati pure loro! (e i puffi non erano comunisti poi?)