Nell’ambito di quell’eterna competizione dove le misure contano eccome, e che vede in questo caso protagonista la cupola di San Pietro nel difendere il suo record in altezza come dominatrice assoluta dello skyline Romano, è particolarmente ovvio come l’antagonista più temuto sia stato in passato il minareto della grande moschea di Roma. L’imponente edificio vide la sua genesi nei lontani anni sessanta, quando il re Faysal dell’Arabia Saudita, desideroso di raccogliersi in preghiera nel corso di una sua visita a Roma, si rese conto di come la città non fosse attrezzata per adempiere agli obblighi di una fede non esattamente condivisa dagli inquilini del Vaticano. In conseguenza dell’episodio, dietro formale richiesta e concreto stanziamento di fondi da parte del governo dell’Arabia Saudita, si avviò dunque quel lunghissimo percorso di progettazione e realizzazione della prima moschea di Roma, che solo nel 1995 riuscì infine a vedere la luce. Unici vincoli all’accettazione del progetto un minareto non troppo alto (e assolutamente meno dotato del cuppolone) e preferibilmente silenzioso. All’ombra del monte Antenne e a poca distanza dal regno dorato del quartiere Parioli venne dunque innalzata la più grande moschea d’Europa, nonchè l’unica ad essere priva di altoparlanti per il consueto richiamo alla preghiera. La struttura esterna riesce a combinare i dettami della tradizione architettonica Italiana di Paolo Portoghesi, nel suo ostentato razionalismo ministeriale anni ottanta (non cercate la definizione nei libri di architettura, l’ho creata in questo istante), con la più classica tradizione Islamica.
Il venerdì è il giorno di preghiera in cui la moschea prende vita assalita da migliaia di fedeli Musulmani di ogni nazionalità. Per l’occasione viene allestito lungo il perimetro esterno un colorato mercato, punto di incontro della comunità nel solco della consolidata tradizione di mangiare insieme dopo la preghiera. Da alcuni anni il mercato è divenuto oggetto di polemica tra comune, municipio, vigili e abusivi in una gazzarra tutta Italiana dove la ricerca di una regolarizzazione soddisfacente per tutti, si perde nei paradossi di una burocrazia che come al solito assume le sembianze del mitologico cane che si morde la coda senza risolvere un cazzo. Nel frattempo, fra cicliche retate e regolarizzazioni a singhiozzo la festa continua, e se volete cedere alla tentazione di provare gli autentici sapori della cucina tradizionale, tra cous cous e carne d’agnello, mischiandovi alla coivolgente atmosfera di una città Mediorientale, il mercato del venerdì rimane comunque il posto giusto. Al centro del dibattito di cui sopra, il fatto che cibi cotti e serviti direttamente in strada rappresentino la violazione di ogni principio igienico, argomentazione che per noi Romani cresciuti per generazioni con i mitici panini con la salsiccia dello “zozzone” (una sorta di ufficioso franchising delle camionette notturne), si rivela decisamente poco incisiva.
Se oltre all’unto del kebab siete interessati anche agli aspetti più culturali, sappiate che la moschea si concede ai visitatori ogni mercoledì e sabato mattina fra le nove e le undici e trenta, ad esclusione del periodo del Ramadan.
Percorrendo il lungo corridoio oltre la scalinata si rimane un po’ dubbiosi e incuriositi da una scelta architettonica difficilmente classificabile, mentre attraversando una lunga serie di colonne a calice di gusto apparentemente postmoderno, solo a tratti riusciamo a riconoscere gli elementi appartenenti a quell’immaginario decorativo che possa soddisfare le nostre aspettative di esotismo orientale. Una volta giunti nel cortile ci accorgiamo di come i due stili sembrino infine convergere tra loro, e mentre ancora ci chiediamo se ci si trovi nel patio dell’Alhambra o degli uffici postali di piazza Bologna, il portale davanti a noi scioglie ogni dubbio e ci invita ad entrare. L’impatto è di quelli che lasciano a bocca aperta, e quasi ci dimentichiamo dell’obbligo di lasciare le scarpe all’ingresso. Ci si ritrova improvvisamente immersi in una soffusa luce azzurra che, con chiari rimandi alla moschea blu di Istanbul, ci avvolge in un contesto decorativo povero di immagini e ricchissimo di suggestioni. Una guida del posto è sempre disponibile ad accogliere i visitatori, per rispondere alle domande e dare qualche informazione ai più curiosi. Nel nostro caso, dopo una brevissima introduzione tecnica ricca di notizie interessanti, il nostro affabile Cicerone del Sudan si è lanciato in un monologo estremamente complesso, che passando attraverso filosofici tentativi di indottrinamento, si è infine arenato sull’annosa questione della cattiva influenza delle donne dei calciatori sulla riuscita del campionato (prendendosela misteriosamente in particolare con quelli del Napoli).
Ad arginare il fiume di parole, la rasserenante visione di una selva bianca di colonne a tre steli, raffinato richiamo ad un oasi di palme, che si slancia verso l’alto in un elegante gioco di architetture dalle linee concentriche. Ai lati della sala la nostra attenzione viene invece attirata dai matronei, veri e propri soppalchi riservati alle donne, secondo il principio islamico di separazione dagli uomini nel momento della preghiera. Il bagno con la vasca per le abluzioni, tappa necessaria prima dell’uscita, è direttamente collegato con la sala principale, ed è li che ci scopriamo infine profondamente provinciali nel nostro rimanere affascinati di fronte alla visione di un comune cesso pubblico, semplicemente adattato alle diverse esigenze di una tradizione che prevede il rituale lavaggio purificatore prima del momento della preghiera. Dettagli lontani dal nostro quotidiano che ci sorprendono nei posti (e nei momenti) più impensati. All’interno della struttura è presente anche un importante Centro culturale Islamico, dove oltre a una biblioteca e a un centro congressi, è ospitata anche una scuola di lingua araba aperta a tutti con le lezioni del sabato mattina. Le difficoltà dell’idioma rappresentate dalla celebre espressione “ma che parlo arabo?” potrebbero farci dimenticare il piacere di avvicinarci a una lingua così strettamente connessa al proprio universo culturale e il cui apprendimento, lungi dal prepararci a una conversazione nella prossima vacanza sul mar Rosso, diventa l'occasione per imparare a conoscere la ricchezza di questa affascinante cultura, celata dietro la raffinata eleganza della propria arte calligrafica. La visita è finita e mentre ci allontaniamo osservando il minareto che si staglia sull’enorme cupola di piombo, mi torna in mente la divertente risposta della guida alla nostra domanda: “ma si sente il canto del Muezzin?” “No, quello dava fastidio a Maurizio Costanzo”. Scherzosa battuta che nasconde un’inquietante verità sull’Italia di oggi.