Aldilà dei parchi e delle ville, è anche nel verde di sorprendenti "schegge" di campagna incontaminata che possiamo leggere la struggente bellezza di Roma: aggredite ai margini da antiestetici rigurgiti edilizi opera di palazzinari senza scrupoli, resistono nel tempo regalandoci l'illusione di un agro romano superstite, incastonato tra i confini della metropoli come prezioso monito per le generazioni future.
E' il miracolo della via Appia e in questo caso della via Latina, che per pochissime centinaia di metri spunta fuori tra le colate di cemento incorniciata da quei celeberrimi pini di Roma che, come canta il sor Venditti, "la vita non li spezza" (mentre Alemanno li piegherebbe volentieri). La sopravvivenza di queste zone mai edificate è fonte inesauribile di tesori inaspettati che in altri casi, e per ovvie necessità abitative, rimangono sepolti per sempre sotto dieci piani di terrazzatissimi "palazzi in cortina adiacenze metro e zona commerciale". Il sepolcro dei Pancrazi, sconosciuta meraviglia del parco delle tombe di Via Latina, rappresenta una piacevole eccezione, giunta fino a noi per una serie di fortuite coincidenze e il contributo di singolari personaggi. Tra questi emerge la figura di un simpatico Indiana Jones de' noantri, tale Lorenzo Fortunati, che proprio come il mitico avventuriero ideato da George Lucas, era un professore con il pallino dell'archeologia, il cui interesse per le scoperte oscillava tra la passione per la storia e la speranza di ricavare "un onesto lucro" dalla commercializzazione dei reperti (il ricavato veniva a quel tempo diviso tra il proprietario del terreno e lo scopritore): in poche parole un tombarolo laureato. E fu proprio il nostro Lorenzo che, all'inizio della seconda metà dell'Ottocento, si calò dal lucernario del sepolcro affiorante in superficie, dando il via a questa avventura e alla sua opera di scavo. Più che uno scavo uno sterramento selvaggio, che alla faccia delle attuali tecniche di indagine stratigrafica che permettono di ricostruire gli eventi cronologici fornendoci preziose informazioni sull'antropologizzazione dell'area (maddechè, direbbe il Fortunati) mirava esclusivamente al rinvenimento di opere d'arte e reperti di valore.
E proprio come in ogni episodio della celebre saga, anche in questo caso comparve sulla scena l'antagonista a mettere i bastoni fra le ruote, nello specifico la Chiesa (mossa alla Dan Brown) che con la scusa del ritrovamento di ulteriori resti di matrice cristiana attribuibili ad una basilica intitolata a S.Stefano, decise di esautorare il giovane professore arrogandosi il diritto di proseguire gli scavi per mezzo della commissione di archeologia sacra. Tra sacro e profano prevalse alla fine il laico istituzionale, e intervenne dunque il recentemente costituito Stato Italiano che, in un suo fulgido inizio pieno di buoni propositi, acquisì l'intera area procedendo al restauro dei monumenti (e aggiungendo tra l'altro arbitrariamente e con molta fantasia alcuni elementi architettonici ormai perduti, come ad esempio l'intero alzato della tomba dei Valeri). Il sigillo finale lo pose l'allora ministro Baccelli con la saggia decisione di adibire l'area a parco archeologico, preservandola in questo modo dalle future grinfie degli speculatori. Tra le tombe da cui il parco prende il nome, il sepolcro dei Pancrazi è senz'altro la più spettacolare. Si accede tramite quello che sembrerebbe un anonimo capanno per gli attrezzi: una costruzione in cemento destinata a preservare dai fenomeni atmosferici la zona ipogea, unico ambiente superstite dell'intera costruzione oggetto delle disordinate scoperte del Fortunati. Una volta scesi lungo la scala originaria ci ritroveremo al cospetto di due ambienti distinti in successione. Nel primo ci soffermeremo solamente per onorare l'origine etimologica del sito, in quanto sede di un sarcofago "matrimoniale" a due piazze (riservato ai coniugi Demetrius e Vivia Severa) riportante l'iscrizione che fa riferimento al collegio dei Pancrazi, ultimi proprietari del sepolcro e responsabili dell'attuale appellativo. Parliamo di collegio in quanto al tempo era consuetudine che le tombe venissero acquistate da una specie di cooperative, dette appunto collegi, i cui membri, cittadini della classe media che evidentemente non potevano permettersi una tomba personale, versavano una quota annuale per la manutenzione del "sepolcro sociale", garantendosi in questo modo una dignitosa collocazione al momento della dipartita.
Questo primo ambiente doveva probabilmente risultare aperto in origine (il pavimento in pendenza e la presenza di un pozzo di scolo ce lo confermano) come fosse una sorta di cortile di accesso al sepolcro vero e proprio, ed è in effetti solo attraversando la porta di collegamento tra i due vani che scopriremo il cuore della tomba e l'oggetto di tutta la nostra meraviglia. L'impressione è quella di entrare nel salotto di un appartamento reale, dove solo la presenza di un enorme sarcofago dalle linee orientaleggianti ci riporta alla realtà di una meravigliosa camera sepolcrale, sovrastata da una volta a crociera decorata con stucchi policromi e pitture dallo straordinario stato di conservazione. Il tema delle stupefacenti decorazioni ruota tutto intorno alla mitologia greco-romana, con la narrazione di celebri miti che si alternano alla raffigurazione di eroi classici secondo un'iconografica esaltazione del defunto, convergendo idealmente verso il tondo centrale della volta dove Giove-Zeus troneggia rappresentato con le fattezze del titolare.
Esattamente di fronte all'ingresso, si distingue tra i miti l'episodio del "giudizio di Paride", dove Paride è chiamato a scegliere la dea più bella tra le tre candidate al titolo Era, Atena e Afrodite, in una sorta di concorso di bellezza ante-litteram. La storia la conosciamo non fosse altro che per la puntata di Pollon intitolata "i fanghi di Afrodite", nella quale le tre dee entrano in accanita competizione come trashissime concorrenti di un reality show di Mediaset, contendendosi la celebre mela con su scritto "alla più bella" (e perdonate se le fonti non sono propriamente le più illustri). Il mito di Alcesti, sul lato opposto, venne invece probabilmente scelto allo scopo di esaltare il tema della fedeltà e della dedizione coniugale: la protagonista sceglie infatti di sacrificarsi per il proprio uomo, Admeto re di Tessaglia, il quale venne insignito dall'amico/protettore Apollo di un bonus "evita-morte" nel caso in cui qualcuno avesse deciso di prendere il suo posto nel momento fatidico. Dopo il comprensibile rifiuto di parenti e amici, i quali si espressero con molta probabilità nel corrispettivo in Greco antico del nostro efficacissimo "machittesencula", fu proprio la fedele sposa a morire per lui. Sul finale interviene comunque Ercole, che in barba all'egoismo di Admeto, regala a tutti il lieto fine riportando in vita l'ingenua fanciulla. Tra un mito e l'altro colpiscono infine le straordinarie pitture che, tra maschere, cesti di frutta e uccelli esotici, ci regalano sorprendenti rappresentazioni di paesaggi idillici, che quasi sembrano essere stati dipinti dalla mano di un pittore impressionista dell'Ottocento. Fa riflettere come l'arte si sia involuta nuovamente nei secoli successivi verso quella rappresentazione piatta e bidimensionale tipica del periodo alto-medievale, per ritornare infine a quella profondità e potenza espressiva solamente moltissimi secoli dopo.
Una volta usciti dal sepolcro guarderemo infine i resti del tracciato della via Latina con occhi diversi e come in una ricostruzione in 3D alla SuperQuark quasi riusciremo ad immaginarla come era un tempo, tra quello stesso azzurro del cielo e il verde di una campagna che miracolosamente è arrivata intatta fino a noi. Un privilegio di cui dobbiamo essere grati anche e soprattutto al nostro Indiana Jones, alias Lorenzo Fortunati.
Il parco delle tombe di via Latina è aperto tutti i giorni con accesso libero fra le 9:30 e le 18:00 mentre
l'ingresso al sepolcro è possibile solo tramite visita guidata e su prenotazione (o in occasione di aperture speciali). Per informazioni rivolgersi allo 06.39967700 (cooperativa Pierreci).