Roma è una città che va letta strato dopo strato come un'unica storia senza interruzioni, dove ogni cosa è stata qualcos'altro, in un continuo processo di cambi di identità che neanche le spie della guerra fredda. Scavare nel proprio passato per trovare il prima, l'altro, la causa, non è psicologia d'accatto, ma è leggere Roma, ed è quello che rende questa città unica al mondo. A Roma si guarda indietro e poco avanti, sotto ma non sopra, fino al paradosso di ritrovarci con pochissime stazioni metro e un sacco di Mitrei. E il prossimo che prova a dire che a Londra e Berlino "ce stanno molte più linee della metropolitana" lo spedisco a calci in culo a Londra e Berlino, perchè alla fine tutto questo passato sotto i piedi bisogna anche un pò meritarselo.
Nel sottosuolo di Roma esistono diversi Mitrei, templi sotterranei dedicati al culto della divinità orientale Mitra, il giovane dio dal berretto frigio. Si può dire che il Mitraismo abbia preceduto e posto le basi per la diffusione del nostro attuale Cristianesimo, anche e soprattutto da un punto di vista architettonico: i Mitrei romani si trovano infatti spesso al di sotto delle chiese cristiane, soppiantati fisicamente in quell'inevitabile processo di distruzione, riappropriazione e assorbimento del paganesimo. La nostra possibile alternativa in uno "sliding doors" delle religioni, se l'imperatore Costantino o chi per lui non avesse deciso diversamente. Il mitreo di Santa Prisca è quello che meglio ci racconta questo culto attraverso gli stucchi e le tracce dei suoi affreschi, illuminando in parte una tradizione misterica che non ha lasciato nulla di scritto, e dove solo gli adepti avevano la facoltà di tramandare oralmente le complesse regole e i rituali. Il culto venne importato a Roma dall'oriente dai legionari che facevano ritorno dalle campagne nelle provincie dell'est. Si basava sul concetto di fedeltà, di patto (mitra) ed era caratterizzato da dure prove di iniziazione, per un rituale che vedeva il suo culmine in un grandioso banchetto di gruppo. L'ideale per un soldato fomentato che tra cameratismo, prove di forza per "scoattare" e una sbronza collettiva, sembrava aver trovato la strada più consona per avvicinarsi alla spiritualità. Decisamente un affare per soli uomini che, nel suo percorso iniziatico e nell'elemento di esclusività maschile, ricorda molto una sorta di massoneria ante-litteram. Il culto originale venne infine modificato e alleggerito, lasciando al centro il simbolismo di Mitra, inviato dal dio sole per creare e fecondare la terra.
Come tutti gli altri, anche il mitreo di Santa Prisca si presenta con le caratteristiche di una grotta, a rappresentare il luogo della nascita del dio (vi ricorda qualcosa? provate a dare un'occhiata al presepe in soggiorno), dove al centro dell'ambiente campeggia la scena madre, cuore dell'intera religione: la cosiddetta "tauroctonia", l'uccisione del toro con un pugnale da parte di Mitra, l'atto con il quale tutto ha inizio. A differenza degli altri mitrei in questo caso la scena è rappresentata come un bassorilievo a stucco e si caratterizza per la curiosa presenza del dio Saturno sdraiato, realizzato principalmente attraverso il riciclo di "cocci" di anfore, probabilmente da qualche scultore alternativo, antesignano moderno degli artisti radical-chic-eco-riciclatori di materiali per opere d'arte.
Mitra ci appare col suo svolazzante mantello rosso e una divertente espressione da "bambacione" (in questo caso senza il berretto frigio, che effettivamente sarebbe stato troppo). Colui che si presenta come un moderno Superman sovrappeso de Torpigna è in realtà il dio che salva il mondo, lontano anni luce dal sexy hipster suo "concorrente" che ci hanno abituato a vedere nelle fiction nostrane sotto Natale. Mitra nasce secondo la tradizione dalla nuda roccia in una grotta (ma non al freddo e al gelo come verrebbe voglia di cantare in questo periodo) nel giorno del sol invictus: quel 25 dicembre riciclato in ogni culto pagano, e successivamente cristiano, come giorno della nascita della luce, e quindi della salvezza. Egli salverà il mondo con un atto di forza: la tauroctonia, l'uccisione del toro dal cui sangue e sperma si feconderà la terra e nascerà la vita. Un orgia di sangue e animali con un preciso simbolismo, con il cane e il serpente che lambiscono il sangue e uno stronzissimo scorpione che attenta alle palle del toro per evitare che il suo seme fecondi la terra per portare la rinascita. Questa affascinante visione ritualistica dal sapore agrario, acquista in realtà una simbologia ancora più universale. Da quest'atto si crea infatti l'universo a partire dalla barbarie primordiale e scaturisce il movimento dei pianeti che danno vita al tempo, altro elemento fondamentale del culto mitraico, che eviterò di sciorinarvi, un pò per la sua complessità e un pò perchè in fondo, mancando precisi riferimenti scritti, si tratterebbe solo di ipotesi e dissertazioni prive di un'assoluta veridicità (e con questa me la so' sfangata). L'ingresso alla grotta del mitreo di santa Prisca riporta simbolicamente al concetto di tempo grazie alla presenza, a mò di guardiani, di ciò che rimane delle statue dei due giovani dadofori (portatori di fiaccole), uno con la fiaccola abbassata e l'altro con la fiaccola alzata: l'inizio del tempo e la sua fine, con il dio Mitra che ne assurge allo zenith. Una sorta di trinità temporale che si esaurisce in un ciclo, come una rappresentazione teatrale del mondo dove Cautes e Cautopates (questi i loro nomi) sono le maschere che accompagnano e congedano il pubblico per la visione del più grande spettacolo (dopo il big bang, direbbe Jovanotti).
Altra caratteristica importante del mitreo di santa Prisca è l'affresco, ormai consumatissimo, in cui viene rappresentata una curiosa processione che finalmente ci illumina su quelli che ragionevolmente potevano essere i sette gradi di iniziazione al culto mitraico. Un percorso fatto di sette livelli, ciascuno tutelato da un pianeta. Si parte dal "Corvo", il messaggero del Sole che stipula il patto con Mitra conducendolo alla tauroctonia. Seguono il "Ninfo" (stato di elevazione spirituale, tutelato da Venere), il Miles (il soldato, tutelato da Marte e al cui status corrispondeva il superamento di dure prove in stile confraternita universitaria, tipo l'immersione in una pozza d'acqua gelida), il "Leone" (protetto da Giove, incaricato di occuparsi della celebrazione del banchetto, in poche parole quello che porta le birre e passa tutto il tempo davanti alla brace durante i barbecue) e infine il "Persiano" (chiaro riferimento all'origine orientale del culto, protetto dalla Luna) e l'"Eliodromo", il grado più alto e più vicino alla divinità, secondo solo all'ultimo, sommo livello: quello del Pater, l'identificazione stessa del dio in terra. Per tornare al simpatico Leone, l'affresco sulla parete sinistra rappresentava la processione dei Leoni nell'atto di portare le libagioni (con tori, galli e maiali), mentre alla fine scorgiamo il Sole e Mitra che banchettano insieme (notate nella foto uno splendido sole dotato del familiarissimo simbolo dell'aureola). Un ultima curiosità sul mitreo di S. Prisca è la presenza di un ulteriore ambiente sulla sinistra, ritenuto essere una sorta di spogliatoio per la preparazione della celebrazione, dove evidentemente anche l'estetica dei costumi era necessaria per fare la propria porca figura.
Esistono numerosissimi punti di contatto tra Mitraismo e Cristianesimo (la nascita del dio in una grotta il 25 dicembre, la presenza dei pastori, il concetto di trinità, l'elevazione spirituale verso un regno dei cieli in una concezione salvifica e catartica), per quanto l'estetica della ritualità si discosti notevolmente, e il banchetto pane e vino della liturgia cristiana risulti infinitamente più sobrio. Sta di fatto che fu proprio il Cristianesimo a soppiantare questo culto, enormemente diffuso fino al terzo secolo dopo Cristo, forse a causa dei suoi limiti riscontrabili in una partecipazione di base troppo elitaria e misterica, che escludeva le donne, o forse semplicemente per una scelta politica, quando Costantino decise di convogliare tutte le esigenze di spiritualità del popolo romano verso un'unica religione, che possibilmente presentasse tutti i vantaggi di un controllo politico: monoteista, universale e soprattutto controllabile, ovvero, per tornare a Mitra, "alla luce del sole". Quello stesso sole che vi invito riscoprire nei nostri sotterranei, in quelle grotte artificiali dove ancora oggi è possibile respirare il fascino del mistero e tutta la suggestione di un culto arcano e ancora sconosciuto. E se a Berlino c'hanno la metro, bhe...noi c'avemo Mitra. E scusate se è poco.
Il mitreo di S.Prisca si trova in via di S.Prisca all'Aventino (nei sotterranei dell'omonima chiesa) ed è visitabile solo su prenotazione chiamando al numero 06 399 67 700.
giovedì 26 dicembre 2013
lunedì 14 ottobre 2013
Dice che da vicino nessuno è normale
"Visto da vicino nessuno è normale". Lo scopriremo durante questa difficile visita al complesso di S.Maria della Pietà, l'ex manicomio di Roma definitivamente chiuso nel troppo recente 1999 in seguito alla definitiva applicazione della legge Basaglia del 1978. Tra i viali alberati del parco, riconvertito in area verde oggi frequentata da joggers e famigliole, si impone la presenza di quei 34 decadenti padiglioni, e sembra impossibile non percepire il dolore di chi ha vissuto questi luoghi sulla propria pelle. Riportare la normalità lì dove la normalità non c'è mai stata, una contraddizione che stride e affascina allo stesso tempo. E' ora di abbandonare il maledettissimo politically correct e parlare di pazzi e di follia, perchè chi pazzo non ci è entrato, lo è certamente diventato una volta varcata questa soglia. E questo a causa di una legge sopravvissuta troppo a lungo ( legge Giolitti del 1904) che obbligava all'internamento persone ritenute "socialmente pericolose o di pubblico scandalo" (e quindi anche orfani, omosessuali o ragazze madri), un'aberrazione che poneva l'accento sul "comportamento" e la conseguente separazione dal corpo sociale, ma non sulla cura del disagio. Una legge volta a segregare, eliminare, annullare l'essere umano, portarlo al di fuori della società affinché venisse definitivamente rimosso (come quei bambini di strada rastrellati e rinchiusi in occasione delle pulizie generali per il santo giubileo del 1950).
Mi è stato fatto notare tra amici che sarebbe più corretto da parte mia parlare di "persone con disagi psichici", ma in certi casi di terminologicamente corretto non c'è assolutamente un cazzo, e solo il termine pazzia può definire a 360 gradi chi ha subito questo inferno, chi ha concepito certi meccanismi, chi è riuscito a mantenere la lucidità e un sentimentio umano nonostante tutto (penso al grande Adriano Pallotta, ex infermiere del S.Maria della Pietà e memoria storica di questi luoghi). Pazzia come violenza, a volte come genialità di un'espressione artistica, e fortunatamente pazzia di chi in tempi insospettabili ha avuto il coraggio di mettere ogni cosa in discussione contro tutto e tutti. A partire dallo psichiatra Franco Basaglia, che con le sue idee rivoluzionarie e incentrate sulla storia e l'individualità del singolo, ha portato a quello sconvolgimento finalmente confluito in una legge che porta il suo nome, per la chiusura dei manicomi e per un approccio volto al reinserimento e non all'esclusione sociale. Ma oltre e insieme a lui c'era anche chi portando avanti le stesse idee aveva molto più da perdere e da rischiare. Come l'infermiere Adriano Pallotta, fautore del cosiddetto blitz al padiglione 16, quando, in anticipo sulla legge e con un vero e proprio atto rivoluzionario scaturito da riunioni segrete e violente discussioni interne, vennero ufficialmente richieste e fatte approvare poche fondamentali regole per cominciare a rendere più umani e sopportabili quei luoghi senza vita: dalla conquista di una maniglia per aprire la porta, al sollievo di un attività ricreativa, per uomini ormai ridotti a zombi come semplici occupanti di uno spazio chiuso. Verso di lui c'è l'ammirazione per il coraggio, ma soprattutto per l'intelligenza e la lucidità di un uomo che, parte integrante di quel mondo chiuso all'esterno, è riuscito nonostante tutto a concepire che le cose sarebbero potute essere anche diverse da quello che erano.
Tutto questo ci viene raccontato all'interno del padiglione 6 nel nuovo "museo laboratorio della mente". Il museo è un piccolo gioiello per innovazione e metodologia, grazie anche alle sorprendenti installazioni realizzate dallo studio Azzurro. Devo ammettere che solitamente divento allergico al solo sentire parlare di "installazioni", termine che mi riporta alla mente sedicenti artisti fancazzisti e figli di papà che il più delle volte concettualizzano il nulla assoluto mettendo insieme rifiuti urbani, tracce audiovisive distorte e oggetti esposti nella solitudine di uno spazio che potrebbe essere occupato molto più funzionalmente da qualche cassa di birra. E mentre il pubblico si atteggia ad esperto, i veri grandi artisti del passato si rigirano nella tomba. Ebbene al museo della mente ho deciso di ricredermi completamente abbandonando ogni mio pregiudizio con tanto di mea culpa, di fronte alla rara eccezione di "installazioni" (mi costa dirlo) non solo dotate di un significato profondo e perfettamente condivisibile, ma dove la funzionalità della sperimentazione si accompagna ad una cura estetica di grande impatto.
Ed è attraverso di esse che si svolge la prima parte del percorso, dove prima ancora di "assistere" come spettatori morbosi e commossi alle storie tragiche di chi ha vissuto in questi padiglioni, saremo costretti a concentrarci su noi stessi e sui meccanismi della nostra mente, in un costante parallelismo fra le nostre percezioni e quelle di chi ha davvero varcato questa soglia, fisica e mentale. Si parte con la cosiddetta "camera di Ames" e le sue alterazioni percettive, per stabilire quel principio che dovrà accompagnarci durante tutta la nostra esperienza: la mente lavora in modo assolutamente pregiudiziale. Assistendo ad un effetto ottico di tipo spaziale, capiremo che è più semplice distorcere la realtà piuttosto che mettere in discussione i modelli così come abbiamo imparato a percepirli sin dall'infanzia. Lo stereotipo e il pregiudizio come pericolosa autodifesa. E così si procede in una reintepretazione delle patologie psichiche (l'illogico assedio di voci e parole, lo sdoppiamento della propria immagine riflessa, il dissociamento espressivo di chi parla senza riuscire ad ascoltare e viceversa) con pezzi di noi che ritornano nelle stanze successive, sotto forma di parole o immagini precedentemente registrate.
A questo punto saremo sufficientemente pronti ( e scossi psichicamente) per varcare la soglia della follia, una follia più subdola di quella sfoggiata in macchina o al telefono poco prima di entrare. Ci prestiamo quindi alla foto segnaletica per un ingresso simbolico tra le figure di questo passato, per poi successivamente ritrovare il nostro volto confuso tra quelli degli ex pazienti su uno schermo che controlleremo da seduti dondolandoci avanti e indietro, affinchè persino la fisicità gestuale della follia entri a far parte di noi. E se vorrete sperimentare le famose "voci nella testa", basterà accomodarsi con i gomiti appoggiati su un tavolo (ben posizionati sul punto di emissione) e le mani a coprire le orecchie, per lasciarvi deliziare da un'inquietante sequela di "nonsense" sparata direttamente nel vostro canale uditivo, dalla lista delle spesa alla quintessenza dei deliri paranoici. L'effetto acquista un senso anche visto dall'esterno: gli osservatori potranno sperimentare la vostra figura con la testa stretta fra la mani come quella di un paziente che voglia fermare questa oppressione interna, con voi stessi che diventerete parte attiva dell'installazione mentre interpretate la (vostra?) pazzia.
Le installazioni, i documenti, i filmati, gli oggetti personali accatastati nella ricostruzione di quella che veniva definita "la fagotteria", ovvero il luogo dove i pazienti venivano spogliati di ogni effetto personale (che banalità sarebbe dire "e anche della loro dignità") per mettersi nella mani di un folle esperimento collettivo, tutto contribuisce a sorprenderci, emozionarci, farci sorridere (perchè no?) e prenderci a pugni. Ma forse l'effetto non sarebbe stato la stesso senza la preziosa presenza di Adriano Pallotta, il rivoluzionario infermiere di cui vi ho parlato. Lo rivediamo alternativamente tra i filmati e poi in carne ossa davanti a noi, a raccontarci le stesse storie e a trasmetterci la stessa emozione. Sembra quasi che sia un effetto voluto, in continuità con quel gioco di voci, immagini e parole che ritornano e rimbalzano da una stanza all'altra con risultati percettivi differenti. Adriano è sullo schermo, nella stanza, nel filmato multimediale, e di nuovo fuori a fumarsi una sigaretta e a scherzare con noi. Sto impazzendo davvero? Mi sono venuti gli occhi lucidi e questo in un museo non succede.
Mi è stato fatto notare tra amici che sarebbe più corretto da parte mia parlare di "persone con disagi psichici", ma in certi casi di terminologicamente corretto non c'è assolutamente un cazzo, e solo il termine pazzia può definire a 360 gradi chi ha subito questo inferno, chi ha concepito certi meccanismi, chi è riuscito a mantenere la lucidità e un sentimentio umano nonostante tutto (penso al grande Adriano Pallotta, ex infermiere del S.Maria della Pietà e memoria storica di questi luoghi). Pazzia come violenza, a volte come genialità di un'espressione artistica, e fortunatamente pazzia di chi in tempi insospettabili ha avuto il coraggio di mettere ogni cosa in discussione contro tutto e tutti. A partire dallo psichiatra Franco Basaglia, che con le sue idee rivoluzionarie e incentrate sulla storia e l'individualità del singolo, ha portato a quello sconvolgimento finalmente confluito in una legge che porta il suo nome, per la chiusura dei manicomi e per un approccio volto al reinserimento e non all'esclusione sociale. Ma oltre e insieme a lui c'era anche chi portando avanti le stesse idee aveva molto più da perdere e da rischiare. Come l'infermiere Adriano Pallotta, fautore del cosiddetto blitz al padiglione 16, quando, in anticipo sulla legge e con un vero e proprio atto rivoluzionario scaturito da riunioni segrete e violente discussioni interne, vennero ufficialmente richieste e fatte approvare poche fondamentali regole per cominciare a rendere più umani e sopportabili quei luoghi senza vita: dalla conquista di una maniglia per aprire la porta, al sollievo di un attività ricreativa, per uomini ormai ridotti a zombi come semplici occupanti di uno spazio chiuso. Verso di lui c'è l'ammirazione per il coraggio, ma soprattutto per l'intelligenza e la lucidità di un uomo che, parte integrante di quel mondo chiuso all'esterno, è riuscito nonostante tutto a concepire che le cose sarebbero potute essere anche diverse da quello che erano.
Tutto questo ci viene raccontato all'interno del padiglione 6 nel nuovo "museo laboratorio della mente". Il museo è un piccolo gioiello per innovazione e metodologia, grazie anche alle sorprendenti installazioni realizzate dallo studio Azzurro. Devo ammettere che solitamente divento allergico al solo sentire parlare di "installazioni", termine che mi riporta alla mente sedicenti artisti fancazzisti e figli di papà che il più delle volte concettualizzano il nulla assoluto mettendo insieme rifiuti urbani, tracce audiovisive distorte e oggetti esposti nella solitudine di uno spazio che potrebbe essere occupato molto più funzionalmente da qualche cassa di birra. E mentre il pubblico si atteggia ad esperto, i veri grandi artisti del passato si rigirano nella tomba. Ebbene al museo della mente ho deciso di ricredermi completamente abbandonando ogni mio pregiudizio con tanto di mea culpa, di fronte alla rara eccezione di "installazioni" (mi costa dirlo) non solo dotate di un significato profondo e perfettamente condivisibile, ma dove la funzionalità della sperimentazione si accompagna ad una cura estetica di grande impatto.
Ed è attraverso di esse che si svolge la prima parte del percorso, dove prima ancora di "assistere" come spettatori morbosi e commossi alle storie tragiche di chi ha vissuto in questi padiglioni, saremo costretti a concentrarci su noi stessi e sui meccanismi della nostra mente, in un costante parallelismo fra le nostre percezioni e quelle di chi ha davvero varcato questa soglia, fisica e mentale. Si parte con la cosiddetta "camera di Ames" e le sue alterazioni percettive, per stabilire quel principio che dovrà accompagnarci durante tutta la nostra esperienza: la mente lavora in modo assolutamente pregiudiziale. Assistendo ad un effetto ottico di tipo spaziale, capiremo che è più semplice distorcere la realtà piuttosto che mettere in discussione i modelli così come abbiamo imparato a percepirli sin dall'infanzia. Lo stereotipo e il pregiudizio come pericolosa autodifesa. E così si procede in una reintepretazione delle patologie psichiche (l'illogico assedio di voci e parole, lo sdoppiamento della propria immagine riflessa, il dissociamento espressivo di chi parla senza riuscire ad ascoltare e viceversa) con pezzi di noi che ritornano nelle stanze successive, sotto forma di parole o immagini precedentemente registrate.
A questo punto saremo sufficientemente pronti ( e scossi psichicamente) per varcare la soglia della follia, una follia più subdola di quella sfoggiata in macchina o al telefono poco prima di entrare. Ci prestiamo quindi alla foto segnaletica per un ingresso simbolico tra le figure di questo passato, per poi successivamente ritrovare il nostro volto confuso tra quelli degli ex pazienti su uno schermo che controlleremo da seduti dondolandoci avanti e indietro, affinchè persino la fisicità gestuale della follia entri a far parte di noi. E se vorrete sperimentare le famose "voci nella testa", basterà accomodarsi con i gomiti appoggiati su un tavolo (ben posizionati sul punto di emissione) e le mani a coprire le orecchie, per lasciarvi deliziare da un'inquietante sequela di "nonsense" sparata direttamente nel vostro canale uditivo, dalla lista delle spesa alla quintessenza dei deliri paranoici. L'effetto acquista un senso anche visto dall'esterno: gli osservatori potranno sperimentare la vostra figura con la testa stretta fra la mani come quella di un paziente che voglia fermare questa oppressione interna, con voi stessi che diventerete parte attiva dell'installazione mentre interpretate la (vostra?) pazzia.
La seconda parte della visita riproporrà la ricostruzione (e la conservazione) di alcuni ambienti originari, dallo studio medico, luogo di speranza e umiliazione, alla farmacia, alla cosiddetta camera di contenzione, la stanza dove il paziente veniva legato al letto con delle fasce per un tempo variabile tra poche ore a qualche anno (sì, addirittura anni), il tutto per comportamenti arbitrariamente non graditi. E se la vista della camera di contenzione non fosse di per sé abbastanza forte, il fatto di spiarla in solitudine attraverso un foro sulla porta vi regalerà l'effetto speciale aggiuntivo di farvi sentire degli stronzi morbosi. Infine il refettorio, luogo di comunione e di consumo dei pasti, rivive in una raffinata trovata multimediale come archivio documentaristico. Ed è così che toccando alcuni documenti apparentemente dimenticati su un tavolaccio di legno, si apriranno le storie, le interviste e le testimonianze di chi questo mondo, da vittima o carnefice senza alcuna distinzione di ruoli, l'ha vissuto durante tutti questi anni. Si ricostruisce così il mosaico di una vera a propria città autosufficiente dove gli attori si muovono in gruppi: i medici intoccabili e distanti, gli infermieri divisi tra umani e aguzzini, i pazienti scrupolosamente classificati per genere e caratteristiche comportamentali, e infine le suore gendarmi. Grazie a queste testimonianze si cerca di restituire l'unicità e l'individualità ad ogni singola persona. Si restituisce all'uomo la sua storia, quello che veramente conta nell'approcciarsi con il diverso da noi, a tutti i livelli. Fa quasi sorridere che proprio durante una visita che vuole sconfiggere ogni stereotipo, ritorna nelle frasi, nei racconti, nelle testimonianze, forte e tragicomico, lo stereotipo delle suore implacabili e crudeli, quelle che ordinavano l'elettroshock, che punivano i pazienti, che vessavano gli infermieri. L'unico gruppo dei quattro tra i quali sembra non emergere nessuna individualità positiva, uno stereotipo che nemmeno il mito di miss Pony in Candy Candy è riuscito a scalfire dai lontani giorni dell'asilo, e che in questo caso sembra trovare la sua rassicurante conferma.
Le installazioni, i documenti, i filmati, gli oggetti personali accatastati nella ricostruzione di quella che veniva definita "la fagotteria", ovvero il luogo dove i pazienti venivano spogliati di ogni effetto personale (che banalità sarebbe dire "e anche della loro dignità") per mettersi nella mani di un folle esperimento collettivo, tutto contribuisce a sorprenderci, emozionarci, farci sorridere (perchè no?) e prenderci a pugni. Ma forse l'effetto non sarebbe stato la stesso senza la preziosa presenza di Adriano Pallotta, il rivoluzionario infermiere di cui vi ho parlato. Lo rivediamo alternativamente tra i filmati e poi in carne ossa davanti a noi, a raccontarci le stesse storie e a trasmetterci la stessa emozione. Sembra quasi che sia un effetto voluto, in continuità con quel gioco di voci, immagini e parole che ritornano e rimbalzano da una stanza all'altra con risultati percettivi differenti. Adriano è sullo schermo, nella stanza, nel filmato multimediale, e di nuovo fuori a fumarsi una sigaretta e a scherzare con noi. Sto impazzendo davvero? Mi sono venuti gli occhi lucidi e questo in un museo non succede.
E' difficile rimanere lucidi e corretti parlando di una visita così emozionante. Chi si aspettava (chi mi ha chiesto) che aiutassi a far conoscere questo luogo straordinario raccontandolo con distacco e la giusta dose di politically correct rimarrà deluso. Sono certo che tornerò nuovamente, ancora e ancora, morbosamente attratto dal mistero della psiche, dalla percezione forte di un dolore vissuto (perchè siamo così?) e più semplicemente dalla normale attrattiva di un museo così ben organizzato e all'avanguardia, incredibilmente ancora troppo nascosto e sconosciuto. Come disse Basaglia ispirato dalle parole di un uomo che dopo anni di segregazione dal mondo era terrorizzato all'idea di "entrare fuori", è ora di far cadere le barriere mentali e fisiche per poter infine "entrare fuori e uscire dentro".
Se vi perdete questa visita siete dei pazzi, e affanculo il politically correct.
Ringrazio Antonella per avermi fatto conoscere questo posto, Alessandro Rubinetti per avermici portato fisicamente in una delle sue passeggiate teatrali e Adriano Pallotta (chiedete di lui) per i suoi racconti e la sua grande umanità.
Il museo laboratorio della mente è situato nel padiglione 6 del comprensorio di S.Maria della Pietà, in Piazza S.Maria della Pietà 5, ed è visitabile dal lunedì al venerdì tra le 9:00 e le 17:00 e il sabato tra le 9:00 e le 13:00. Ingresso 5 euro, tel.0668352927.
Ringrazio Antonella per avermi fatto conoscere questo posto, Alessandro Rubinetti per avermici portato fisicamente in una delle sue passeggiate teatrali e Adriano Pallotta (chiedete di lui) per i suoi racconti e la sua grande umanità.
sabato 21 settembre 2013
Dice che Poussin si è portato il segreto nella tomba. Letteralmente.
In una Roma che può essere a ragione considerata anche capitale dei misteri, persino un semplice monumento funerario custodito all'interno di una chiesa, così come ce ne sono a centinaia, può trasformarsi in una meta affascinante alla fine di un percorso lungo secoli. Percorso intriso al tempo stesso di arte, umanesimo e improbabili congetture fantastoriche. La nostra tappa sarà la chiesa di San Lorenzo in Lucina, dove in questo caso saremo costretti a distogliere lo sguardo da tutte le sue bellezze artistiche, per concentrarci sul misteriosissimo sepolcro posto sulla destra della navata principale. Trattasi della tomba del grande artista Francese Nicolas Poussin, la cui visione potrebbe procurare un improvviso deja-vu agli appassionati di arte del Seicento, o molto più realisticamente e terra terra a tutti quegli indomiti e impenitenti spettatori del programma televisivo "Voyager". Di fronte a noi un sepolcro, un'iscrizione e un bassorilievo a rappresentare l'opera piu' celebre del nostro pittore: ET IN ARCADIA EGO! Ma da dove parte questa storia?
Nel 1625 giunge a Roma la regina Cristina di Svezia, in seguito alla sua decisione di abdicare al trono come conseguenza della sua conversione al cristianesimo. Nonostante il suo apparente fervore religioso racchiuso in questa scelta, Cristina di Svezia si rivela in breve un personaggio ambiguo e allo stesso tempo "illuminato", e ben presto il suo salotto della residenza romana di palazzo Riario inizia ad essere frequentato dal fior fiore della cultura del tempo, cultura intrisa di esoterismo ed interessi alchemici, dove l'arte e la letteratura si mescolano a dissertazioni che in tempi neanche troppo lontani erano già stati causa della combustione di più di qualcuno (vedi Giordano Bruno). Ed è proprio all'interno di questo circolo culturale che successivamente, nel 1690, viene formandosi l'idea di costituire una vera e propria accademia artistico-letteraria in onore della defunta regina: l'Accademia dell'Arcadia. Il nome Arcadia è un tributo alla regione agreste del Peloponneso in Grecia che, ispirandosi al poeta Teocrito e alle bucoliche di Virgilio, diventa scenario ideale per una poesia classicheggiante, con per protagonisti pastori lamentosi che declamano idilli d'amore sprofondati nell'incanto di un'amena campagna. Una replica a sfregio al gusto barocco dell'epoca, considerato volgare e chiassoso, ma anche un ritorno alle origini di un paganesimo imbevuto di ermetismo e filosofie esoteriche. Ed ecco allora che tra pecore e sbadigli comincia a farsi strada un elemento sotterraneo, elemento legato all'Arcadia che fa la sua prima comparsa nel celebre quadro di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, in largo anticipo sulla costituzione dell'accademia (potete ammirarlo a Roma nella galleria Barberini).
Il soggetto rappresenta due pastori che, apparentemente smarriti in una selva oscura (beccateve la citazione), si imbattono in un sepolcro dove campeggia la scritta "Et in Arcadia ego". Un teschio in primo piano e varie bestie notturne fanno da corollario al concetto mortuario che, con la violenza di uno schiaffo, si inserisce a tradimento nell'atmosfera bucolica della campagna. A lungo i "complottisti" si sono interrogati sul significato simbolico del dipinto e di questa scritta, e taluni hanno maldestramente tentato la strada di un riferimento al misterioso sepolcro della Maddalena, secondo alcune mirabolanti teorie approdata in Europa e divenuta capostipite della stirpe dei re Merovingi in Francia (per chi avesse letto il codice Da Vinci sa di cosa parlo). A convalidare la delirante teoria il presunto foro sul teschio, praticato secondo la ritualità dei Merovingi come uscita di sicurezza dell'anima in punto di morte. Ebbene il foro si rivela ad un analisi neanche troppo accurata essere niente altro che una maledettissima mosca, tra l'altro magistralmente dipinta. Una versione più accreditata traduce la scritta con "E anche io (sono) in Arcadia" o meglio, "anche io, (la morte), sono in Arcadia", ovvero "anche in questo bel posticino prima o poi stirerete le zampe", quindi godetevela o comunque non illudetevi. Insomma il classico memento mori che rovina la festa. A questo punto vi starete chiedendo cosa c'entra Poussin e il suo sepolcro. Ebbene anche Nicolas Poussin, artista francese giunto a Roma, annovera nel suo curriculum artistico ben due versioni di "et in arcadia ego", sulla stessa linea del Guercino.
Anche sul presunto significato simbolico di queste opere si e' scatenato un vero e proprio marasma di congetture che rimandano nuovamente al tema dell'esistenza di una presunta tomba di Cristo e della Maddalena in quel di Provenza, in particolare nel piccolo e inquietante villaggio di Rennes Le Château (la Twin Peaks dei Pirenei), il cui paesaggio in molti hanno voluto riconoscere sullo sfondo della seconda versione del quadro. Secondo queste ipotesi "et in Arcadia ego" sarebbe un'anagramma di " I! Tego arcana dei!", ovvero "Te ne devi annà (vabbè concedetemi una nota romanesca)! Io celo i misteri di dio". Aldila' di tutto questo circo, dal quale Dan Brown ha attinto a piene mani per il suo "codice Da Vinci", e' comunque indiscutibile la presenza di una simbologia appartenente alla tradizione esoterica. Mettendo a confronto le due versioni, noterete come nella seconda i pastori appaiano meno sgomenti, la donna, ora in abiti classicheggianti, sembra quasi rassicurare i suoi compagni, ma soprattutto la fonte di Alfeo (il personaggio di spalle in basso a destra nella prima versione, che rovescia acqua da un vaso), fonte che secondo la tradizione esoterica molto in voga nel Seicento sta a rappresentare il fiume della conoscenza segreta, risulta essere ormai esaurita! (si nota comunque la frattura del terreno dove precedentemente si nascondeva). Significa forse che il segreto e' stato ormai rivelato? E chi era il custode di questo segreto? Il fatto piu' strano e recente intorno a tutta questa storia riguarda un certo Bérenger Saunière, abate del borgo di Rennes Le Château dal 1885 e secondo una certa letteratura fantastorica presunto scopritore del mistero del Graal. Questo ambiguo personaggio manifestò un interesse ossessivo per questo dipinto, tanto da volersene procurare ad ogni costo una copia in una specie di "caccia al tesoro" che gli fruttò una ricchezza improvvisa e mai spiegata. Ad oggi possiamo ancora notare gli sconvolgenti ed inquietanti cambiamenti effettuati proprio nel suo piccolo villaggio in seguito alla presunta scoperta di tale rivelazione.
Tornando al periodo di Poussin, ecco che ad infittire il mistero entra in scena un nuovo personaggio, Nicolas Fouquet, intendente alle finanze alla corte del Re Sole in Francia. Grazie alla presenza di un suo fratello abate a Roma, tale Louis Fouquet, Nicolas si occupava tra l'altro di reperire in Italia opere d'arte destinate alla corte di Francia. Ecco il testo di una misteriosa lettera che l'abate Louis gli inviò da Roma:
Roma, 17 aprile 1656
"Ho reso al signor Poussin la lettera che voi gli avete fatto l’onore di scrivergli… lui ed io abbiamo progettato certe cose delle quali potremmo intrattenervi a fondo tra poco e che vi doneranno, tramite il signor Poussin, dei vantaggi (se voi non vorrete disprezzarli) che i re durerebbero grande fatica ad ottenere da lui e che, dopo di lui, nessuno al mondo scoprirà nei secoli futuri; e quello che più conta, ciò sarebbe senza molte spese e potrebbe perfino tornare a profitto, e si tratta di cose da ricercare così fortemente che nulla di quanto esiste sulla terra potrà avere migliore fortuna od esservi uguale".
Lo sventurato Nicolas fece in seguito una brutta fine, incarcerato a vita dallo stesso re Luigi XIV per presunti scandali finanziari (che coincidenza, vero?), mentre il re riusci' comunque ad entrare in possesso del quadro di Poussin, che venne conservato negli appartamenti privati di Versailles fino alla fatidica rivoluzione francese (oggi e' esposto al Louvre).
Quale segreto a conoscenza di Poussin avrebbe potuto procurare questi enormi vantaggi? E soprattutto, si faceva riferimento a vantaggi materiali, o all'acquisizione di conoscenze? (non dimentichiamoci il clima culturale dell'epoca, gli interessi esoterici e soprattutto alchemici). Di sicuro Poussin era consapevole di essere il custode di una qualche conoscenza, e ce lo dichiara apertamente in un suo celebre autoritratto, dove compare sullo sfondo l'immagine di una donna che indossa un copricapo sul quale campeggia il famigerato terzo occhio, simbolo della "conoscenza esoterica". Un sapere di tipo alchemico, o un segreto ancora piu rivoluzionario, che secondo le teorie che ruotano intorno al mistero di Rennes Le Château, avrebbe potuto scardinare gli equilibri della religione occidentale?
Ebbene proprio in questa chiesa, lungo quella stessa linea d'ombra attraverso la quale l'antica meridiana dell'imperatore Augusto indicava l'ora nona, a distanza di un secolo dalla sua morte e' stato eretto il monumento funebre in onore di Poussin. Il committente fu l'allora ambasciatore di Francia a Roma, Francois Rene' de Chateaubriand, Cavaliere dell'ordine del Santo Sepolcro (e te pareva che non uscivano fuori i Templari). La traduzione dell'epitaffio latino, attribuito a Pietro Bellori, bibliotecario di Cristina di Svezia, non potrebbe essere piu' eloquente: "Trattieni il pianto sincero, in questa tomba vive Poussin, che aveva dato la vita ignorando egli stesso di morire. Qui egli tace eppure, se vuoi sentirlo parlare, è sorprendente (come) VIVE E PARLA NEI (suoi) QUADRI".
Ed ecco ancora una volta "et in Arcadia ego" e i suoi pastori, stavolta in versione di bassorilievo, a trasformare il sepolcro di Poussin in quello stesso sepolcro scovato nei boschi dell'Arcadia, probabilmente custode di quegli stessi segreti. Il mistero è ancora aperto!
Nel 1625 giunge a Roma la regina Cristina di Svezia, in seguito alla sua decisione di abdicare al trono come conseguenza della sua conversione al cristianesimo. Nonostante il suo apparente fervore religioso racchiuso in questa scelta, Cristina di Svezia si rivela in breve un personaggio ambiguo e allo stesso tempo "illuminato", e ben presto il suo salotto della residenza romana di palazzo Riario inizia ad essere frequentato dal fior fiore della cultura del tempo, cultura intrisa di esoterismo ed interessi alchemici, dove l'arte e la letteratura si mescolano a dissertazioni che in tempi neanche troppo lontani erano già stati causa della combustione di più di qualcuno (vedi Giordano Bruno). Ed è proprio all'interno di questo circolo culturale che successivamente, nel 1690, viene formandosi l'idea di costituire una vera e propria accademia artistico-letteraria in onore della defunta regina: l'Accademia dell'Arcadia. Il nome Arcadia è un tributo alla regione agreste del Peloponneso in Grecia che, ispirandosi al poeta Teocrito e alle bucoliche di Virgilio, diventa scenario ideale per una poesia classicheggiante, con per protagonisti pastori lamentosi che declamano idilli d'amore sprofondati nell'incanto di un'amena campagna. Una replica a sfregio al gusto barocco dell'epoca, considerato volgare e chiassoso, ma anche un ritorno alle origini di un paganesimo imbevuto di ermetismo e filosofie esoteriche. Ed ecco allora che tra pecore e sbadigli comincia a farsi strada un elemento sotterraneo, elemento legato all'Arcadia che fa la sua prima comparsa nel celebre quadro di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, in largo anticipo sulla costituzione dell'accademia (potete ammirarlo a Roma nella galleria Barberini).
Il soggetto rappresenta due pastori che, apparentemente smarriti in una selva oscura (beccateve la citazione), si imbattono in un sepolcro dove campeggia la scritta "Et in Arcadia ego". Un teschio in primo piano e varie bestie notturne fanno da corollario al concetto mortuario che, con la violenza di uno schiaffo, si inserisce a tradimento nell'atmosfera bucolica della campagna. A lungo i "complottisti" si sono interrogati sul significato simbolico del dipinto e di questa scritta, e taluni hanno maldestramente tentato la strada di un riferimento al misterioso sepolcro della Maddalena, secondo alcune mirabolanti teorie approdata in Europa e divenuta capostipite della stirpe dei re Merovingi in Francia (per chi avesse letto il codice Da Vinci sa di cosa parlo). A convalidare la delirante teoria il presunto foro sul teschio, praticato secondo la ritualità dei Merovingi come uscita di sicurezza dell'anima in punto di morte. Ebbene il foro si rivela ad un analisi neanche troppo accurata essere niente altro che una maledettissima mosca, tra l'altro magistralmente dipinta. Una versione più accreditata traduce la scritta con "E anche io (sono) in Arcadia" o meglio, "anche io, (la morte), sono in Arcadia", ovvero "anche in questo bel posticino prima o poi stirerete le zampe", quindi godetevela o comunque non illudetevi. Insomma il classico memento mori che rovina la festa. A questo punto vi starete chiedendo cosa c'entra Poussin e il suo sepolcro. Ebbene anche Nicolas Poussin, artista francese giunto a Roma, annovera nel suo curriculum artistico ben due versioni di "et in arcadia ego", sulla stessa linea del Guercino.
Anche sul presunto significato simbolico di queste opere si e' scatenato un vero e proprio marasma di congetture che rimandano nuovamente al tema dell'esistenza di una presunta tomba di Cristo e della Maddalena in quel di Provenza, in particolare nel piccolo e inquietante villaggio di Rennes Le Château (la Twin Peaks dei Pirenei), il cui paesaggio in molti hanno voluto riconoscere sullo sfondo della seconda versione del quadro. Secondo queste ipotesi "et in Arcadia ego" sarebbe un'anagramma di " I! Tego arcana dei!", ovvero "Te ne devi annà (vabbè concedetemi una nota romanesca)! Io celo i misteri di dio". Aldila' di tutto questo circo, dal quale Dan Brown ha attinto a piene mani per il suo "codice Da Vinci", e' comunque indiscutibile la presenza di una simbologia appartenente alla tradizione esoterica. Mettendo a confronto le due versioni, noterete come nella seconda i pastori appaiano meno sgomenti, la donna, ora in abiti classicheggianti, sembra quasi rassicurare i suoi compagni, ma soprattutto la fonte di Alfeo (il personaggio di spalle in basso a destra nella prima versione, che rovescia acqua da un vaso), fonte che secondo la tradizione esoterica molto in voga nel Seicento sta a rappresentare il fiume della conoscenza segreta, risulta essere ormai esaurita! (si nota comunque la frattura del terreno dove precedentemente si nascondeva). Significa forse che il segreto e' stato ormai rivelato? E chi era il custode di questo segreto? Il fatto piu' strano e recente intorno a tutta questa storia riguarda un certo Bérenger Saunière, abate del borgo di Rennes Le Château dal 1885 e secondo una certa letteratura fantastorica presunto scopritore del mistero del Graal. Questo ambiguo personaggio manifestò un interesse ossessivo per questo dipinto, tanto da volersene procurare ad ogni costo una copia in una specie di "caccia al tesoro" che gli fruttò una ricchezza improvvisa e mai spiegata. Ad oggi possiamo ancora notare gli sconvolgenti ed inquietanti cambiamenti effettuati proprio nel suo piccolo villaggio in seguito alla presunta scoperta di tale rivelazione.
Tornando al periodo di Poussin, ecco che ad infittire il mistero entra in scena un nuovo personaggio, Nicolas Fouquet, intendente alle finanze alla corte del Re Sole in Francia. Grazie alla presenza di un suo fratello abate a Roma, tale Louis Fouquet, Nicolas si occupava tra l'altro di reperire in Italia opere d'arte destinate alla corte di Francia. Ecco il testo di una misteriosa lettera che l'abate Louis gli inviò da Roma:
Roma, 17 aprile 1656
"Ho reso al signor Poussin la lettera che voi gli avete fatto l’onore di scrivergli… lui ed io abbiamo progettato certe cose delle quali potremmo intrattenervi a fondo tra poco e che vi doneranno, tramite il signor Poussin, dei vantaggi (se voi non vorrete disprezzarli) che i re durerebbero grande fatica ad ottenere da lui e che, dopo di lui, nessuno al mondo scoprirà nei secoli futuri; e quello che più conta, ciò sarebbe senza molte spese e potrebbe perfino tornare a profitto, e si tratta di cose da ricercare così fortemente che nulla di quanto esiste sulla terra potrà avere migliore fortuna od esservi uguale".
Lo sventurato Nicolas fece in seguito una brutta fine, incarcerato a vita dallo stesso re Luigi XIV per presunti scandali finanziari (che coincidenza, vero?), mentre il re riusci' comunque ad entrare in possesso del quadro di Poussin, che venne conservato negli appartamenti privati di Versailles fino alla fatidica rivoluzione francese (oggi e' esposto al Louvre).
Quale segreto a conoscenza di Poussin avrebbe potuto procurare questi enormi vantaggi? E soprattutto, si faceva riferimento a vantaggi materiali, o all'acquisizione di conoscenze? (non dimentichiamoci il clima culturale dell'epoca, gli interessi esoterici e soprattutto alchemici). Di sicuro Poussin era consapevole di essere il custode di una qualche conoscenza, e ce lo dichiara apertamente in un suo celebre autoritratto, dove compare sullo sfondo l'immagine di una donna che indossa un copricapo sul quale campeggia il famigerato terzo occhio, simbolo della "conoscenza esoterica". Un sapere di tipo alchemico, o un segreto ancora piu rivoluzionario, che secondo le teorie che ruotano intorno al mistero di Rennes Le Château, avrebbe potuto scardinare gli equilibri della religione occidentale?
Ebbene proprio in questa chiesa, lungo quella stessa linea d'ombra attraverso la quale l'antica meridiana dell'imperatore Augusto indicava l'ora nona, a distanza di un secolo dalla sua morte e' stato eretto il monumento funebre in onore di Poussin. Il committente fu l'allora ambasciatore di Francia a Roma, Francois Rene' de Chateaubriand, Cavaliere dell'ordine del Santo Sepolcro (e te pareva che non uscivano fuori i Templari). La traduzione dell'epitaffio latino, attribuito a Pietro Bellori, bibliotecario di Cristina di Svezia, non potrebbe essere piu' eloquente: "Trattieni il pianto sincero, in questa tomba vive Poussin, che aveva dato la vita ignorando egli stesso di morire. Qui egli tace eppure, se vuoi sentirlo parlare, è sorprendente (come) VIVE E PARLA NEI (suoi) QUADRI".
Ed ecco ancora una volta "et in Arcadia ego" e i suoi pastori, stavolta in versione di bassorilievo, a trasformare il sepolcro di Poussin in quello stesso sepolcro scovato nei boschi dell'Arcadia, probabilmente custode di quegli stessi segreti. Il mistero è ancora aperto!
Per ripercorrere i passi di questa storia potete visitare:
Palazzo Riario, con gli appartamenti della regina Cristina di Svezia
La galleria nazionale di arte antica a Palazzo Barberini, con la tela del Guercino "et in Arcadia ego"
e chiaramente la chiesa di S.Lorenzo in Lucina con il sepolcro di Poussin.
Palazzo Riario, con gli appartamenti della regina Cristina di Svezia
La galleria nazionale di arte antica a Palazzo Barberini, con la tela del Guercino "et in Arcadia ego"
e chiaramente la chiesa di S.Lorenzo in Lucina con il sepolcro di Poussin.
martedì 9 luglio 2013
Dice che a S.Pietro assisteremo a un parto
"Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini" ovvero "quello che non fecero i Barbari, lo fecero i Barberini", e che si parli di devastazione risulta abbastanza evidente dalla natura del primo soggetto.
Con questa celebre "Pasquinata" si andava a colpire lo scellerato modus operandi della famiglia Barberini, consistente nello spoliare i più celebri monumenti dell'antichità, riutilizzandone i materiali per la costruzione di chiese e palazzi cardinalizi. In poche parole una trasformazione in sacro dell'elemento pagano, il tutto con una semplice operazione di riciclo palazzinaro (a loro discolpa si può dire che non furono i primi né gli ultimi).
L'attacco si rivolgeva in particolare a papa Urbano VIII, per gli amici Maffeo Barberini, il quale commissionò al suo artista di fiducia Gianlorenzo Bernini la fusione degli antichi bronzi che rivestivano la struttura del pronao del Pantheon, per farne un monumentale baldacchino da schiaffare nel cuore della nuova basilica Vaticana, proprio all'altezza del sepolcro dell'apostolo Pietro. Potremmo a questo punto giurare che il materiale bronzeo rappresenti l'unica componente di origine pagana dell'insigne opera d'arte? Per scoprirlo vi invito a (ri)visitare uno dei luoghi più conosciuti al mondo (confessate che non mettevate piede a S.Pietro più o meno dalla quinta elementare), questa volta con il proposito di provare a "Guardare" veramente, per riuscire infine a scovare il lato "insolito" di un celebre monumento, celato nel pieno di un flusso turistico ai limiti del sopportabile. E se ritenete che la scena di un parto rappresentata nel cuore della basilica della cristianità universale sia una cosa sufficientemente insolita, allora avrete fatto bene a fidarvi.
Allontanando lo sguardo dall'architettura centrale del baldacchino e scorrendo la decorazione dei quattro piedistalli alla base delle colonne, ci accorgeremo infatti di come gli scudi con lo stemma del pontefice, esattamente come in una sequenza cinematografica, rivelino la sorprendente cronaca per immagini di un vero e proprio parto nelle sue diverse fasi. La lettura ha inizio dalla colonna frontale di sinistra e, seguendo il senso orario, si conclude sulla colonna frontale di destra. Un volto di donna, nascosto tra lo stemma e le chiavi di San Pietro, racconta di scena in scena il proprio travaglio attraverso le sue realistiche espressioni: dal volto contratto, alla sofferenza, al grido di dolore (con le probabili smadonne che le lettrici in particolare non faranno fatica ad immaginare), fino al sollievo post faticata con tanto di capelli appiccicati sulla fronte, mentre sull'ultimo bassorilievo troveremo al suo posto il volto paffuto di un cherubino, il bambino appena nato. Lo stesso scudo, stemma del pontefice Barberini guarnito con le sue immancabili api, diventa metafora di un ventre femminile, che coerentemente con l'espulsione sembra "sgonfiarsi" nel corso della sequenza (guardate l'ultimo e il primo in prospettiva tra loro). E non finisce qui! Un grottesco mascherone alla base nasconde la rappresentazione anatomicamente accurata degli stessi organi di riproduzione femminili.
In particolare faccio riferimento ad una precisa simbologia di stampo medievale, parte integrante del complesso rituale di insediamento del neoeletto pontefice in vigore fino agli inizi del Secolo XVI, in funzione della quale venivano utilizzati tre distinti sedili di epoca imperiale. Tra questi una sedia da parto (quindi forata al centro), sulla quale si dice che il papa dovesse accomodarsi assumendo la posizione da partoriente, al fine di simboleggiare il concetto di Mater Ecclesia (Madre Chiesa). Tutta questa pantomima, che ci appare indubbiamente grottesca e ridicola, va ricollegata in realtà a quell'universo simbolico tipicamente Medievale che oggi potremmo tranquillamente definire "terra terra". Le "raffinate" tecniche di comunicazione di massa utilizzate oggi (l'uso del "raffinato" è volutamente ironico), in assenza dei più efficaci mass media, avevano infatti al tempo la necessità di essere sostituite da ridondanti cerimoniali di grande gestualità, che potessero essere decodificati con estrema facilità dal popolo. Successivamente tale consuetudine iniziò ad essere ridicolizzata, in particolare negli ambienti più critici di provenienza Luterana, tanto che i suddetti sedili di epoca imperiale finirono per essere tramandati come "sedie col buco" atte a verificare la presenza degli "attributi" papali. Il tutto in conseguenza dell'episodio della celebre papessa Giovanna: il primo papa travestito (al contrario) che ebbe la sfortuna di farsi beccare, partorendo un bambino durante un corteo. Una leggenda che ebbe enorme risonanza nel corso di tutto il medioevo, e che nasconde un chiaro intento di propaganda anticlericale. Ad ogni modo, secondo questa degenerazione della leggenda, si asseriva che le sedie da parto avrebbero avuto la funzione di permettere a un giovane diacono di infilare la mano attraverso il buco fin sotto i paramenti del papa, ivi accomodato al momento dell'elezione, per verificare che fosse effettivamente un papa con le palle e non un'ennesima Giovanna (vi avevo avvertito che il Medioevo è terra terra).
Ritornando al nostro baldacchino è dunque possibile che, decaduta questa tradizione dell'uso simbolico del sedile, il Bernini, ma più probabilmente lo stesso papa Urbano VIII, uomo colto e amante della simbologia e dell'estetica, abbia voluto celebrare in maniera un tantino più raffinata rispetto allo svaccamento sulla sedia da parto il concetto di Mater Ecclesia. Ma non essendoci nessuna certezza tra le ipotesi, possiamo a questo punto permetterci di formularne qualcuna più personale. E' possibile che il Bernini abbia voluto fare riferimento a un concetto ben più potente e rischioso? Un elemento pagano di antichissima origine: il culto primordiale che ricorre nel passato comune di tutte le religioni conosciute. Sto parlando del culto della Madre Terra, il femminino sacro che ci riconduce alla Dea Madre. Un elemento femminile che proprio lì, nel cuore della cristianità universale, nel tempio di una religione dalla struttura profondamente maschilista, sarebbe apparso e ci appare tuttora come un azzardo, soprattutto in questa rappresentazione dai tratti così realistici. Ma in fondo siamo nel Seicento, secolo in cui si riscopre la centralità dell'uomo e i culti esoterici del passato, mentre l'arte e la letteratura si arricchiscono di antiche simbologie e codici nascosti. E il Bernini non era certamente estraneo a questo mondo. E se tutto questo è possibile, allora non dovrete certo stupirvi del fatto che, anche tra migliaia di turisti in sandali e bermuda, si possa ancora svelare un pezzo di quella Roma nascosta e misteriosa che così tanto ci affascina.
p.s
La ricerca di questo dettaglio è stata l'oggetto di una divertente caccia al tesoro per indizi alla quale avete partecipato in molti. La vincitrice Rosangela (sua è l'ultima foto), si è aggiudicata una copia di "Roma Fuoripista" (gli altri lo possono acquistare su www.romafuoripista.com o nelle librerie indicate sul sito). Per le prossime cacce al tesoro continuate a seguirmi sulla pagina facebook di Dice che a Roma.
Con questa celebre "Pasquinata" si andava a colpire lo scellerato modus operandi della famiglia Barberini, consistente nello spoliare i più celebri monumenti dell'antichità, riutilizzandone i materiali per la costruzione di chiese e palazzi cardinalizi. In poche parole una trasformazione in sacro dell'elemento pagano, il tutto con una semplice operazione di riciclo palazzinaro (a loro discolpa si può dire che non furono i primi né gli ultimi).
L'attacco si rivolgeva in particolare a papa Urbano VIII, per gli amici Maffeo Barberini, il quale commissionò al suo artista di fiducia Gianlorenzo Bernini la fusione degli antichi bronzi che rivestivano la struttura del pronao del Pantheon, per farne un monumentale baldacchino da schiaffare nel cuore della nuova basilica Vaticana, proprio all'altezza del sepolcro dell'apostolo Pietro. Potremmo a questo punto giurare che il materiale bronzeo rappresenti l'unica componente di origine pagana dell'insigne opera d'arte? Per scoprirlo vi invito a (ri)visitare uno dei luoghi più conosciuti al mondo (confessate che non mettevate piede a S.Pietro più o meno dalla quinta elementare), questa volta con il proposito di provare a "Guardare" veramente, per riuscire infine a scovare il lato "insolito" di un celebre monumento, celato nel pieno di un flusso turistico ai limiti del sopportabile. E se ritenete che la scena di un parto rappresentata nel cuore della basilica della cristianità universale sia una cosa sufficientemente insolita, allora avrete fatto bene a fidarvi.
Allontanando lo sguardo dall'architettura centrale del baldacchino e scorrendo la decorazione dei quattro piedistalli alla base delle colonne, ci accorgeremo infatti di come gli scudi con lo stemma del pontefice, esattamente come in una sequenza cinematografica, rivelino la sorprendente cronaca per immagini di un vero e proprio parto nelle sue diverse fasi. La lettura ha inizio dalla colonna frontale di sinistra e, seguendo il senso orario, si conclude sulla colonna frontale di destra. Un volto di donna, nascosto tra lo stemma e le chiavi di San Pietro, racconta di scena in scena il proprio travaglio attraverso le sue realistiche espressioni: dal volto contratto, alla sofferenza, al grido di dolore (con le probabili smadonne che le lettrici in particolare non faranno fatica ad immaginare), fino al sollievo post faticata con tanto di capelli appiccicati sulla fronte, mentre sull'ultimo bassorilievo troveremo al suo posto il volto paffuto di un cherubino, il bambino appena nato. Lo stesso scudo, stemma del pontefice Barberini guarnito con le sue immancabili api, diventa metafora di un ventre femminile, che coerentemente con l'espulsione sembra "sgonfiarsi" nel corso della sequenza (guardate l'ultimo e il primo in prospettiva tra loro). E non finisce qui! Un grottesco mascherone alla base nasconde la rappresentazione anatomicamente accurata degli stessi organi di riproduzione femminili.
Per secoli l'intera sequenza è stata snobbata, tanto che le prime osservazioni su questa presenza anomala si riscontrano solo a partire dal diciannovesimo secolo. Ma quale potrebbe essere il significato di questo racconto all'apparenza molto poco consono con il luogo? In soccorso arriva immancabilmente una certa aneddotica di stampo popolare, secondo cui il Bernini avrebbe messo incinta una nipote del Papa (nipote a quei tempi uguale figlia illegittima), il quale a sua volta si rifiutò di benedire l'unione provocando nello scultore il desiderio di questa piccola vendetta a sfregio. Alla versione "radio serva" si affianca l'ipotesi lacrimevole di un poco credibile Urbano VIII, che volle celebrare la felice riuscita del parto, considerato a rischio, di una sua stretta parente. C'è infine la versione più tecnica, che fa riferimento a un parallelismo con i nove mesi di tempo occorsi al Bernini per realizzare lo splendido monumento. Ma era necessario tutto questo sfoggio di arte solo per dire" 'sto baldacchino è stato un parto"? In conclusione le storielle appaiono molto poco convincenti, mentre piuttosto risulterebbe sensato riportare il tutto ad una lettura più profonda.
Ritornando al nostro baldacchino è dunque possibile che, decaduta questa tradizione dell'uso simbolico del sedile, il Bernini, ma più probabilmente lo stesso papa Urbano VIII, uomo colto e amante della simbologia e dell'estetica, abbia voluto celebrare in maniera un tantino più raffinata rispetto allo svaccamento sulla sedia da parto il concetto di Mater Ecclesia. Ma non essendoci nessuna certezza tra le ipotesi, possiamo a questo punto permetterci di formularne qualcuna più personale. E' possibile che il Bernini abbia voluto fare riferimento a un concetto ben più potente e rischioso? Un elemento pagano di antichissima origine: il culto primordiale che ricorre nel passato comune di tutte le religioni conosciute. Sto parlando del culto della Madre Terra, il femminino sacro che ci riconduce alla Dea Madre. Un elemento femminile che proprio lì, nel cuore della cristianità universale, nel tempio di una religione dalla struttura profondamente maschilista, sarebbe apparso e ci appare tuttora come un azzardo, soprattutto in questa rappresentazione dai tratti così realistici. Ma in fondo siamo nel Seicento, secolo in cui si riscopre la centralità dell'uomo e i culti esoterici del passato, mentre l'arte e la letteratura si arricchiscono di antiche simbologie e codici nascosti. E il Bernini non era certamente estraneo a questo mondo. E se tutto questo è possibile, allora non dovrete certo stupirvi del fatto che, anche tra migliaia di turisti in sandali e bermuda, si possa ancora svelare un pezzo di quella Roma nascosta e misteriosa che così tanto ci affascina.
p.s
La ricerca di questo dettaglio è stata l'oggetto di una divertente caccia al tesoro per indizi alla quale avete partecipato in molti. La vincitrice Rosangela (sua è l'ultima foto), si è aggiudicata una copia di "Roma Fuoripista" (gli altri lo possono acquistare su www.romafuoripista.com o nelle librerie indicate sul sito). Per le prossime cacce al tesoro continuate a seguirmi sulla pagina facebook di Dice che a Roma.
martedì 4 giugno 2013
Dice che il grande Borromini era un Proto-Massone...(proto che?)
Quanti segreti si nascondono nei palazzi romani! E con questo non mi riferisco alle migliaia di strutture abusive assolutamente mai sfiorate da condono edilizio, ma ai ben più rari tesori artistici e architettonici, gelosamente custoditi dietro gli imponenti portoni delle più belle residenze storiche del centro.
Tra questi il non sempre accessibile Palazzo Falconieri, sede della prestigiosa accademia d'Ungheria, dove mistero e bellezza si fondono in un architettura in cui ogni cosa sembra tendere verso l'alto. A partire dai due falconi in topless, volatile omaggio femminile alle rampolle della famiglia, che posti ai lati della facciata rivolta su via Giulia, fanno da sentinelle a questa antica residenza, passata di mano in mano tra le migliori casate fino a divenire nel Seicento proprietà della ricca famiglia fiorentina dei Falconieri. Famiglia che deve la sua fortuna al monopolio sul commercio del sale, una risorsa preziosa che, così come lascia intuire la tristemente celebre espressione "'sto conto è troppo salato", è sinonimo da sempre di grande ricchezza. La scalata al successo diventa quindi metafora di un'ascesa al cielo: il falco predatore dell'aria come stemma della famiglia, i misteriosi soffitti dalle simbologie massoniche che catturano lo sguardo verso l'alto, e un'altana sospesa nel vuoto da cui dominare con lo sguardo l'intera città.
E' proprio in questo palazzo che scopriamo gli aspetti più intimi e personali del grande genio del barocco Francesco Borromini. Di lui conosciamo la pittoresca rivalità col Bernini, tramandata da un'aneddotica che sconfina nel gossip tra dispetti e gelosie da primedonne, ma che li vedeva divisi soprattutto nel carattere. Il Bernini mondano e perfettamente a suo agio nella corte pontificia, tra feste, intrighi e lecchinaggi, il secondo introverso e solitario. Poco amato dai suoi allievi e probabilmente vittima di un profondo conflitto interiore che lo vedeva scisso tra una fortissima religiosità e una pari attrazione verso l'esoterismo e la simbologia occulta, molto di moda nei circoli culturali dell'epoca. Scalpellino dall'infanzia, membro attivo della corporazione dei muratori (associazione a cui si ispirò la massoneria nel secolo successivo, sia nella struttura organizzativa che nell'immagine coordinata: il simbolo della squadra e del compasso come antico logo e il mito della divinità suprema come grande architetto dell'universo), il Borromini resta ancora oggi un rompicapo intorno al quale si danno le interpretazioni più disparate sulla simbologia nascosta nei suoi capolavori.
Ma è proprio a Palazzo Falconieri che tutto diventa ancora più evidente, in un lavoro commissionatogli alla fine della carriera e della sua vita in un ambiente più intimo e familiare, proprio dal suo amico Orazio Falconieri, con il quale condivideva gli stessi interessi nel campo della mistica esoterica. Al Borromini si deve infatti l'elaborata decorazione a stucchi dorati dei salotti del piano nobile. Salottini piccoli, appartati, intimi, poco adatti alle grandi feste e certamente più appropriati per conversazioni private, riunioni elitarie di pochi appassionati alle discussioni allora tanto in voga sui temi dell'alchimia e dell'occulto. Tre cerchi intersecati tra loro e un grande sole posto al centro dominano la scena nel soffitto della prima sala. Il tre come trinità? Come numero perfetto? Il classico trittico per tutti i gusti "corpo/anima/spirito"? Lasciate per un momento da parte i misteri alla Dan Brown e soffermatevi piuttosto sull'aspetto ludico dell'opera. E come in un quiz della settimana enigmistica di 4 secoli fa divertitevi a scovare tutti gli animali, insetti e uccelli che il genio si è dilettato a mimetizzare nella ricchissima decorazione a girali di piante. Pesci, anatre e gechi vengono fuori dagli intarsi a stucco come nei migliori trip di gioventù. L'ironia del barocco che diventa inganno e ricerca, torcicollo e vertigini.
Nella sala seguente ripiomberemo nuovamente nella simbologia più ancestrale con il grande uroboro, il serpente che si morde la coda a rappresentare un ciclo infinito dove la fine corrisponde al principio. Ai due estremi un occhio che spunta fra i raggi, un globo percorso da meridiani e paralleli e un lungo scettro che partendo dall'occhio (da Dio o dal grande architetto?) si appoggia (governa) sul mondo. Tanta carne al fuoco per una lettura dai contorni esoterici i cui temi confluiranno nella nascente massoneria, che vedrà la luce solo agli inizi del secolo successivo. E da bravi profani rimarrete affascinati dalle suggestioni di una simbologia che ci riporta al potere, al mistero, all'occulto, alla materia e al paganesimo in quell'eterno quesito che continua a tormentarci da sempre: "ma alla fine che cazzo vor dì?".
Se siete stanchi di guardare a testa in su allora è il momento di cambiare prospettiva e dall'alto volgere lo sguardo verso il basso: tre piani di scale ci portano fin sulla loggia, e ancora più su, in quell'altana sospesa su Roma. Ben più in alto dell'antistante palazzo Farnese, volutamente più in alto dei propri vicini, in un moto d'orgoglio della nuova borghesia contro la vecchia nobiltà. Trecentosessanta gradi di una Roma mozzafiato abbracciata da un terrazzino ristretto e aperto all'infinito, dove gli spazi si fondono nella continuità dello sguardo di enigmatiche erme bifronti che si rivolgono contemporaneamente all'esterno e all'interno. Mi piace immaginare un riservatissimo Borromini autocompiacersi nel vedere svettare proprio lì di fronte la sorprendente cupola a spirale di S.Ivo alla Sapienza, il suo più grande capolavoro, di cui dal basso si fatica a trovare l'ingresso, ma che caratterizza nel modo più inconfondibile e originale qualunque veduta dai tetti della città. Percorrendo la scaletta a chiocciola d'accesso, quasi vengono a mancare i punti di riferimento, e la sensazione di elevarsi nel vuoto del cielo romano metterà alla prova anche i più immuni alle vertigini.
Artista profondamente tormentato, di lì a poco Borromini avrebbe lasciato la sua città d'adozione e il mondo con una morte spettacolare ed eccessiva proprio come il suo barocco. L'ultimo inganno di un grande maestro che, anche nel gran finale, lanciandosi da solo su una spada puntata ad arte da lui stesso contro se stesso, ha giocato per l'ultima volta con un'inversione della prospettiva. Di lui ci restano le facciate più originali di Roma e un motto condiviso dalla propria corporazione muratoria: "esporre segretamente e dimostrare silenziosamente". E questa sua ultima opera, esposta segretamente nell'intimità di una dimora privata, sembra esserne la più coerente conferma.
Palazzo Falconieri ospita oggi l'accademia d'Ungheria ed è visitabile in occasione di mostre o eventi speciali. I gruppi possono prenotare una visita su appuntamento (tel 066889671). In ogni caso tenetevi pronti che a settembre sarà una delle prossime tappe dei nostri "walk&brunch" alla scoperta della "Roma Fuoripista"
Tra questi il non sempre accessibile Palazzo Falconieri, sede della prestigiosa accademia d'Ungheria, dove mistero e bellezza si fondono in un architettura in cui ogni cosa sembra tendere verso l'alto. A partire dai due falconi in topless, volatile omaggio femminile alle rampolle della famiglia, che posti ai lati della facciata rivolta su via Giulia, fanno da sentinelle a questa antica residenza, passata di mano in mano tra le migliori casate fino a divenire nel Seicento proprietà della ricca famiglia fiorentina dei Falconieri. Famiglia che deve la sua fortuna al monopolio sul commercio del sale, una risorsa preziosa che, così come lascia intuire la tristemente celebre espressione "'sto conto è troppo salato", è sinonimo da sempre di grande ricchezza. La scalata al successo diventa quindi metafora di un'ascesa al cielo: il falco predatore dell'aria come stemma della famiglia, i misteriosi soffitti dalle simbologie massoniche che catturano lo sguardo verso l'alto, e un'altana sospesa nel vuoto da cui dominare con lo sguardo l'intera città.
E' proprio in questo palazzo che scopriamo gli aspetti più intimi e personali del grande genio del barocco Francesco Borromini. Di lui conosciamo la pittoresca rivalità col Bernini, tramandata da un'aneddotica che sconfina nel gossip tra dispetti e gelosie da primedonne, ma che li vedeva divisi soprattutto nel carattere. Il Bernini mondano e perfettamente a suo agio nella corte pontificia, tra feste, intrighi e lecchinaggi, il secondo introverso e solitario. Poco amato dai suoi allievi e probabilmente vittima di un profondo conflitto interiore che lo vedeva scisso tra una fortissima religiosità e una pari attrazione verso l'esoterismo e la simbologia occulta, molto di moda nei circoli culturali dell'epoca. Scalpellino dall'infanzia, membro attivo della corporazione dei muratori (associazione a cui si ispirò la massoneria nel secolo successivo, sia nella struttura organizzativa che nell'immagine coordinata: il simbolo della squadra e del compasso come antico logo e il mito della divinità suprema come grande architetto dell'universo), il Borromini resta ancora oggi un rompicapo intorno al quale si danno le interpretazioni più disparate sulla simbologia nascosta nei suoi capolavori.
Ma è proprio a Palazzo Falconieri che tutto diventa ancora più evidente, in un lavoro commissionatogli alla fine della carriera e della sua vita in un ambiente più intimo e familiare, proprio dal suo amico Orazio Falconieri, con il quale condivideva gli stessi interessi nel campo della mistica esoterica. Al Borromini si deve infatti l'elaborata decorazione a stucchi dorati dei salotti del piano nobile. Salottini piccoli, appartati, intimi, poco adatti alle grandi feste e certamente più appropriati per conversazioni private, riunioni elitarie di pochi appassionati alle discussioni allora tanto in voga sui temi dell'alchimia e dell'occulto. Tre cerchi intersecati tra loro e un grande sole posto al centro dominano la scena nel soffitto della prima sala. Il tre come trinità? Come numero perfetto? Il classico trittico per tutti i gusti "corpo/anima/spirito"? Lasciate per un momento da parte i misteri alla Dan Brown e soffermatevi piuttosto sull'aspetto ludico dell'opera. E come in un quiz della settimana enigmistica di 4 secoli fa divertitevi a scovare tutti gli animali, insetti e uccelli che il genio si è dilettato a mimetizzare nella ricchissima decorazione a girali di piante. Pesci, anatre e gechi vengono fuori dagli intarsi a stucco come nei migliori trip di gioventù. L'ironia del barocco che diventa inganno e ricerca, torcicollo e vertigini.
Nella sala seguente ripiomberemo nuovamente nella simbologia più ancestrale con il grande uroboro, il serpente che si morde la coda a rappresentare un ciclo infinito dove la fine corrisponde al principio. Ai due estremi un occhio che spunta fra i raggi, un globo percorso da meridiani e paralleli e un lungo scettro che partendo dall'occhio (da Dio o dal grande architetto?) si appoggia (governa) sul mondo. Tanta carne al fuoco per una lettura dai contorni esoterici i cui temi confluiranno nella nascente massoneria, che vedrà la luce solo agli inizi del secolo successivo. E da bravi profani rimarrete affascinati dalle suggestioni di una simbologia che ci riporta al potere, al mistero, all'occulto, alla materia e al paganesimo in quell'eterno quesito che continua a tormentarci da sempre: "ma alla fine che cazzo vor dì?".
Se siete stanchi di guardare a testa in su allora è il momento di cambiare prospettiva e dall'alto volgere lo sguardo verso il basso: tre piani di scale ci portano fin sulla loggia, e ancora più su, in quell'altana sospesa su Roma. Ben più in alto dell'antistante palazzo Farnese, volutamente più in alto dei propri vicini, in un moto d'orgoglio della nuova borghesia contro la vecchia nobiltà. Trecentosessanta gradi di una Roma mozzafiato abbracciata da un terrazzino ristretto e aperto all'infinito, dove gli spazi si fondono nella continuità dello sguardo di enigmatiche erme bifronti che si rivolgono contemporaneamente all'esterno e all'interno. Mi piace immaginare un riservatissimo Borromini autocompiacersi nel vedere svettare proprio lì di fronte la sorprendente cupola a spirale di S.Ivo alla Sapienza, il suo più grande capolavoro, di cui dal basso si fatica a trovare l'ingresso, ma che caratterizza nel modo più inconfondibile e originale qualunque veduta dai tetti della città. Percorrendo la scaletta a chiocciola d'accesso, quasi vengono a mancare i punti di riferimento, e la sensazione di elevarsi nel vuoto del cielo romano metterà alla prova anche i più immuni alle vertigini.
Artista profondamente tormentato, di lì a poco Borromini avrebbe lasciato la sua città d'adozione e il mondo con una morte spettacolare ed eccessiva proprio come il suo barocco. L'ultimo inganno di un grande maestro che, anche nel gran finale, lanciandosi da solo su una spada puntata ad arte da lui stesso contro se stesso, ha giocato per l'ultima volta con un'inversione della prospettiva. Di lui ci restano le facciate più originali di Roma e un motto condiviso dalla propria corporazione muratoria: "esporre segretamente e dimostrare silenziosamente". E questa sua ultima opera, esposta segretamente nell'intimità di una dimora privata, sembra esserne la più coerente conferma.
Palazzo Falconieri ospita oggi l'accademia d'Ungheria ed è visitabile in occasione di mostre o eventi speciali. I gruppi possono prenotare una visita su appuntamento (tel 066889671). In ogni caso tenetevi pronti che a settembre sarà una delle prossime tappe dei nostri "walk&brunch" alla scoperta della "Roma Fuoripista"
martedì 7 maggio 2013
Vicolo scellerato. Dice che è colpa di Tullia.
Da sobborgo malfamato dell'antica Roma a rione popolare, oggi paurosamente tendente al radical chic: benvenuti nel rione Monti. Urbanisticamente isolato dagli sventramenti edilizi dell'Italia post-unitaria e successivamente dell'era fascista, irrimediabilmente sfregiato dal trionfalismo laico di via Cavour e dalla retorica celebrativa di via dei Fori Imperiali, continua nonostante tutto a sorprenderci con scorci inaspettati e atmosfere senza tempo. E persino la suggestiva salita dei Borgia, irrispettosamente tagliata in due dalla burocratica via Cavour, sembra non aver perso nulla della sua antica magia: la scalinata che si perde nel buio di una galleria, il palazzetto rinascimentale vestito d'edera e un balconcino fiabesco di foggia "raffaellita" ci regalano un angolo di assoluta poesia, che nasconde in realtà una vicenda di omicidi e intrighi familiari da far impallidire i più scaltri e psicopatici sceneggiatori di soap opera americane. Scenografia della storia è una rampa maledetta passata alla storia come vicus sceleratus (vicolo scellerato), simpatico soprannome le cui motivazioni storiche potremmo estendere oggi alla presenza del suonatore di fisarmonica che, in pianta stabile sotto l'arco, ha deciso di tormentarci quotidianamente con improbabili medley di musica napoletana e balcanica senza soluzione di continuità.
Per comprendere le origini della sinistra fama di questo luogo dobbiamo in realtà tornare indietro alla Roma dei Tarquini, gli ultimi di quei sette re di Roma che solamente in pochissimi sono capaci di elencare senza confonderli con i più celebri sette nani di Biancaneve. La protagonista di questa storia scellerata è Tullia minor, l'ambiziosa figlia dello schiavo Servio Tullio, succeduto come re di Roma all'etrusco Tarquinio Prisco in virtù di un fortunato matrimonio con la diretta discendente. Coerente con una certa politica matrimoniale, e soprattutto sentendosi in dovere di porre rimedio all'imbarazzante mancanza di nobile lignaggio, Servio Tullio decide di maritare entrambe le sue due figlie Tullia minor e Tullia maior (un plauso alla fantasia onomastica) ai due rampolli della casata dei Tarquini: Arunte Tarquinio e Lucio Tarquinio. Ma il sacro principio dell'eterna insoddisfazione vuole che quando si ottiene una cosa tra due si tenda sempre a preferire l'altra, e così anche Tullia Minor, una volta sposato Arunte, si rende conto di preferire Lucio. Donna ambiziosa e senza scrupoli scorgeva infatti nel cognato quelle doti di coraggio e scaltrezza che le avrebbero permesso di farsi strada. Un'attrazione corrisposta che a questo punto necessitava di soluzione. Quale? Ce la rammenta Tito Livio con con un esempio di fine e moderna ironia da un estratto della sua opera monumentale "ab urbe condita": "Lucio Tarquinio e Tullia minore, dopo aver reso libere le loro case per nuove nozze con due funerali quasi contemporanei, si unirono in matrimonio". In poche parole un doppio omicidio incrociato con matrimonio finale, per quel genere di storia che in tempi più attuali darebbe da mangiare a Bruno Vespa e Barbara D'urso nei secoli dei secoli. L'unione non basta a placare Tullia che, con l'obiettivo di diventare regina, dà inizio a un opera di sfiancante persuasione nei confronti del proprio consorte mettendolo di fronte ai suoi doveri: come legittimo erede della famiglia dei Tarquini è ora che reclami per se stesso quel trono occupato al momento dal suocero. "Se tu sei colui che pensavo di aver sposato, ti chiamo sia marito sia re; altrimenti, la mia condizione è mutata in peggio, perchè in te alla viltà si unisce il delitto", che detto diversamente rispetto a Tito Livio: "tuo fratello era uno sfigato. Tu sei peggio perchè oltre ad essere uno sfigato mi hai fatto pure commettere un omicidio". Con tali efficaci argomentazioni Lucio Tarquinio, finalmente convinto dalla bella Tullia, si reca a palazzo per autoproclamarsi legittimo re dei romani. Ne consegue uno scontro e una colluttazione tra genero e suocero (stile feste in famiglia), dove Servio Tullio e il suo svantaggio anagrafico hanno decisamente la peggio, con la conclusione che il povero vecchio re si allontana ferito da palazzo. Due sicari inviati dai suoi stessi parenti-serpenti finiscono il lavoro uccidendolo in mezzo alla strada, proprio lungo quel clivus urbius che al tempo correva al posto di questa scalinata. La gelida Tullia è la prima a riconoscere ufficialmente come re il proprio consorte, quell'ultimo dei sette che passerà alla storia come Tarquino il superbo (Tarquino l'infame sarebbe suonato più opportuno), dopodichè riprende imperturbabile la strada di casa accompagnata dal suo fedele cocchiere. Ed è proprio percorrendo questo stesso clivus che il cocchiere si ferma inorridito di fronte al corpo senza vita del re Servio Tullio. Pensate forse che a quel punto Tullia, sua figlia, sia stata colta da rimorso? Non esattamente, ma anzi "..resa folle dalle furie incalzanti della sorella e del marito, Tullia fece passare il cocchio sul corpo e sul veicolo insanguinato, lorda e schizzata lei stessa, portò le tracce del sangue e dell'eccidio del padre fino ai suoi Penati e a suo marito". E con questa scena degna di un film di Tarantino si conclude l'episodio che ha ribattezzato questo clivus con il nome di sceleratus.
Ma le leggende di questo vicolo non finiscono qui, ed è proprio il nome di "salita dei Borgia" a suggerirci, a ben duemila anni di distanza, una continuità tra due famiglie non proprio modello. Il meraviglioso palazzetto rinascimentale è ritenuto per tradizione popolare essere appartenuto alla bella Vannozza Cattanei, prima amante di Rodrigo Borgia, passato alla storia come Papa Alessandro VI. Vannozza diede al papa 4 figli, tra i quali si distinsero i più celebri Cesare e Lucrezia. In realtà il palazzetto risulta essere appartenuto alla famiglia dei Margani, e la presenza di Vannozza e Lucrezia appare in parte anacronistica rispetto alle vicende della proprietà. Come potremmo dunque giustificare questo legame con i Borgia impresso nella toponomastica del luogo? Probabilmente la fantasia popolare creò un parallelismo tra i personaggi femminili di Tullia e Lucrezia, entrambe vittime di una certa storiografia faziosa tendente al gossip, non proprio clemente nei loro confronti. Ed è forse per questo che Lucrezia, passata alla storia come un'incestuosa avvelenatrice senza scrupoli (in realtà solo una pedina politica manovrata dal padre e dal fratello in un gioco di alleanze matrimoniali), eredita da Tullia lo scettro di "scellerata" presenza femminile del posto. O forse il parallelismo riguarda i due omicidi avvenuti all'interno di uno stesso nucleo familiare, dal patricidio di Tullia al "presunto" fratricidio commesso da Cesare contro Giovanni, il quale proprio da questo palazzo si dice sia uscito in quell'ultima notte prima che il suo corpo martoriato venisse restituito dalle acque del Tevere. Ad ogni modo l'unico a credere fermamente all'effettiva presenza dei Borgia in questa strada fu il celebre poeta romantico inglese Lord Byron che, durante il suo soggiorno romano, si recava ossessivamente ogni notte sotto quel balcone e, stringendo feticisticamente tra le mani una ciocca di capelli biondi, immaginava la bella e pericolosa Lucrezia affacciarsi pensierosa. Dopo tanto sangue, intrighi e delitti concludiamo quindi con una giusta nota di romanticismo, e quella sfumatura che ci aiuta a riconciliarci con la magia di questo angolo di Roma. Se poi Tullia volesse dare una ripassata col suo cocchio anche al suonatore di fisarmonica, direi che potremmo persino perdonarla.
lunedì 8 aprile 2013
Dice che 'sta chiesa l'hanno fatta i fruttaroli
La chiesa di S.Maria dell'Orto, nome bizzarro dal retrogusto campagnolo, nasce dalla venerazione per un'immagine sacra originariamente presente sul muro di un orto di Trastevere, ritenuta miracolosa in virtù di una "procurata guarigione" concessa su richiesta a un contadino malato. A differenza della maggior parte delle altre chiese, sfoggio artistico e celebrativo della potenza di vescovi e cardinali, possiamo considerare S.Maria dell'Orto come una vera e propria opera del "popolo". Ad occuparsi della costruzione e delle committenze artistiche furono infatti le corporazioni di arti e mestieri che, avvalendosi esclusivamente dei propri mezzi economici, fecero praticamente a gara fra loro per arricchire la chiesa di maestose opere d'arte. Al suo interno una carrellata di targhe marmoree esplicitano di volta in volta la committenza delle varie Università di fruttaroli, pollaroli, molinari, ortolani e pizzicaroli (detto proprio alla romana), dove il termine università non sta più ad indicare gli infausti luoghi dove imploravamo i nostri esaminatori per la conquista di un 18, ma riprende il suo significato originario di aggregazione, in questo caso di lavoratori. E se la denominazione pizzicaroli fa sorridere i non romani, allora date un occhiata alla "resurrezione" del transetto di destra, dove un "resurexit aleluja aleluja" scritto senza neanche una doppia, celebra la nostra parlata in tutta la sua meravigliosa strascicatezza.
Le stesse corporazioni di mestiere avevano sede nella chiesa (praticamente una confindustria) e diedero successivamente origine alla costituzione di una confraternita religiosa. Uno dei suoi compiti era quello di occuparsi della gestione dell'adiacente ospedale, i cui locali vennero successivamente chiusi e convertiti in una manifattura di tabacchi: mossa paradossale almeno quanto potrebbe esserlo trasformare un centro culturale nella casa del grande fratello. I simboli delle università sono nascosti un pò ovunque in una riuscitissima commistione tra sacro e gastronomico e si esplicitano principalmente all'interno della meravigliosa tarsia in marmo policromo nella volta centrale, circondata da un festone di frutta fresca. Ma il vero capolavoro comunicativo è il simbolo dell'Ave Maria che campeggia sulla vetrata dell'abside, dove le lettere A e M sono composte da un trionfo di pomodori e peperoni, per una sacralità che metaforicamente..se ripropone.
La confraternita è tuttora esistente e si occupa della manutenzione della chiesa e delle sue opere d'arte, ma soprattutto del recupero e della diffusione della propria tradizione storica. Ed è proprio grazie a loro se oggi possiamo ancora assistere all'anacronistica magia di un giovedì santo illuminato dalle candele di un'antica tradizione ormai perduta: la macchina delle quarantore. Espressione che non fa riferimento all'usanza odierna di sostare "quarantore" in macchina al casello della Roma-l'Aquila la domenica pomeriggio, ma alle famose quaranta ore di veglia tra il mezzogiorno del venerdì santo e l'alba della resurrezione di Cristo (evitiamo battute con alba e resurrezione e citazioni di George Romero). Le macchine in questione, scenografici catafalchi lignei destinati a sorreggere centinaia di candele, erano tradizionalmente conosciute come "opere effimere", ovvero montate solo in occasione dell'evento per pochissimi giorni l'anno e subito dopo smontate, senza per questo perdere la loro attrattiva di eccezionali opere d'arte e di ingegno. Quella di S.Maria dell'Orto, struttura Ottocentesca di legno intagliato e dorato, è l'unica del genere ad essere ancora allestita nella nostra città. Durante una suggestiva cerimonia le 213 candele vengono accese dai confratelli stessi che, vestiti delle loro tuniche azzurre, si aggirano tra i bracci di un enorme candelabro in equilibrio tra scale e insidiose propaggini lignee, ardua impresa che suscita tutta l'ammirazione di chi, come me, avrebbe bisogno di una dispensa papale ad hoc che sdogani l'improperio ecclesiastico in caso (certo) di inciampo a caduta libera sull'altare. La macchina viene poi lasciata accesa fino alla mezzanotte in una chiesa aperta fino a tardi e avvolta nel chiarore di un atmosfera di grande fascino.
Ma di ligneo e prezioso non c'è solo la macchina. Alcune guide riportano la presenza di un curioso tacchino ligneo, insensato manufatto più volte citato come bizzarra attrazione. Dopo aver fatto tre volte il giro della varie cappelle alla ricerca del pennuto simulacro, mi sono deciso a chiedere lumi al un gruppetto di confratelli addetti alla distribuzione di brochure informative a offerta libera. Prima risposta: "eh no! quello sta in restauro, l'hanno portato via". A seguire: "Sta in una stanza, però non si può entrare, dovrebbe chiedere un permesso..." (qualcuno non me la racconta giusta) si inserisce nella conversazione un terzo confratello "ma lei che cosa sta cercando scusi?" , dove l'oggetto della domanda passa in secondo piano rispetto al senso globale del "cerchi rogne?". Conclude un altro: "in realtà non c'è niente da vedere, è brutto". Insomma nell'ordine, si nicchia sulla presenza effettiva del manufatto, ci si contraddice con una presunta inaccessibilità, e si chiosa con un chiaro invito a desistere. Insomma questo fottuto tacchino sembrerebbe una sorta di misterioso Santo Graal di cui si vuole occultare l'esistenza al genere umano, il che non fa che accrescere la mia curiosità in maniera ancora più morbosa. O forse semplicemente un confratello l'ha fatto cadere spolverando le mensole in sacrestia e stanno cercando di parargli il culo (come diciamo a Roma, insieme a resurexit aleluja co 'na R sola). Chiaramente il primo sospettato è ai miei occhi colui che l'ha definito brutto, cosa che avrei fatto anch'io al suo posto. Resta il fatto che adesso in cima alla mia lista personale delle cose da fare prima di morire troneggia: vedere il tacchino ligneo. Cito dall'opuscolo ufficiale, che tra l'altro descrive l'oggetto della mia ossessione mentre "fa la ruota con un'apertura alare di circa 150 cm": "attualmente il tacchino ligneo è temporaneamente ospitato in un altro locale". Indeterminatezza di tempi e di luoghi che non fa altro che infittire il mistero.
Nella magia di questa luce anche i peperoni della vetrata acquistano un che di mistico, talmente mistico che usciti da lì a tarda ora, nel cuore di Trastevere, non possiamo fare a meno di concludere la nostra veglia in trattoria. Peccato che in seguito la digestione richiederà qualcosa in più delle canoniche quarantore.
la chiesa di S.Maria dell'Orto si trova a Trastevere in via Anicia 10 ed è aperta nei giorni feriali dalle 08:00 alle 13:00 e la domenica e festivi dalle 10:00 alle 12:00.
la chiesa di S.Maria dell'Orto si trova a Trastevere in via Anicia 10 ed è aperta nei giorni feriali dalle 08:00 alle 13:00 e la domenica e festivi dalle 10:00 alle 12:00.
sabato 23 marzo 2013
Dice che ai capelloni li chiamavano Nazareni
Il poco conosciuto Casino Massimo, palazzetto Seicentesco dal nome molto attuale, custodisce in un'anonima strada a due passi da S.Giovanni l'espressione più celebre di un'intera corrente artistica della prima metà dell'Ottocento. La villa nasce come residenza suburbana del Marchese Vincenzo Giustiniani, al tempo in cui l'Esquilino si presentava come zona verde popolata di orti, giardini e ville rinascimentali. E c'è da dire che scoprire l'origine quasi agreste di questa ex residenza di campagna, oggi minacciata dal cemento e incastonata tra i palazzoni in zona san Giovanni, è una lezione di urbanistica che colpisce come un cazzotto nello stomaco. Una volta che l'edificio venne acquistato dal marchese Massimo nel 1803, il nuovo proprietario azzardò un importante restyling commissionando la decorazione delle tre sale del pianterreno ad un insolito gruppo di artisti venuti dalla Germania, fortemente risoluti nel voler rivoluzionare l'espressione pittorica del tempo: i cosiddetti Nazareni. Un manipolo di simpatici tedeschi impregnati di valori religiosi e convinti assertori di un ritorno alla purezza artistica dei maestri del primo Rinascimento, in opposizione alla volgarità del nuovo stile neoclassico (e come dargli torto). Il gruppo si presentava con un originalissimo look consistente in un avvolgente mantello, barba e capelli rigorosamente lunghi. E così come al quindicenne capellone di oggi sarà capitato sentirsi dire dalla nonna "ma come te sei conciato? pari Gesù Cristo" (il tutto accompagnato dallo scuotimento rassegnato della testa), anche i nostri amici tedeschi subirono probabilmente la stessa sorte e vennero quindi marchiati come Nazareni per via del loro aspetto e della loro chioma, guadagnandosi di diritto un posto nella lista delle categorizzazioni di stile subito dopo gli "emo", i "metallari", i "punkabbestia" e i "pariolini".
Sotto la guida del loro leader Friedrich Overbeck, i Nazareni si unirono nella cosiddetta lega di San Luca e si trasferirono come una specie di comune hippy nel convento abbandonato di Sant'Isidoro, gentilmente concessogli dal direttore dell'accademia di Francia. Qui convissero in pieno spirito di peace and love confrontandosi, dibattendo e ritraendosi a vicenda (non chiedetemi se si facessero anche le canne perchè non lo so). Al centro della loro dottrina artistica c'era la predominanza dei temi religiosi, un ritorno alle origini della pittura Quattrocentesca, e una non meglio identificata ricerca della verità. Ai membri originari si unirono nel tempo alcuni nuovi adepti, ed è proprio a questi ultimi, insieme al capostipite Overbeck, che si deve la straordinaria decorazione del Casino Massimo su commissione dell'omonimo marchese. Tre stanze per la rappresentazione pittorica di tre grandi opere letterarie, avvolte da un cromatismo brillante fatto di pennellate uniformi come solo Beato Angelico e Filippo Lippi avrebbero saputo regalarci agli albori del Rinascimento Italiano: la Divina Commedia di Dante, la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso e l'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. E così, insieme agli appassionati d'arte, si sentiranno debitori nei confronti dei Nazareni persino quei giovani studenti fancazzisti che, non ricordando assolutamente nulla di queste opere cardine della letteratura Italiana, avranno modo di rinfrescarsi la memoria prima di un interrogazione, dando un occhiata alle pareti del Casino Massimo divenuto per l'occasione strategico Bignami. Non tutti i critici d'arte convergono sul valore estetico dell'opera, ma per chi non ama dare credito alla spocchia dei critici ed è abituato a giudicare l'arte con lo stomaco, l'impatto con queste stanze si rivelerà sicuramente notevole; sarà per la prospettiva delle porte allineate in sequenza che sembrano introdurci di volta in volta in una nuova scatola tridimensionale, sarà per un moto d'orgoglio patriottico (lo so, i pittori sono tedeschi, ma i temi sono parte del nostro patrimonio e DNA) o semplicemente perchè le scene ci appaiono luminose e pulite come per le pennellate di un Raffaello prima maniera.
In questo planetario della letteratura è bello alzare la testa perdendosi nei dettagli e ricostruire le storie che ci hanno accompagnato (o che abbiamo rifuggito) sui libri di scuola. E sicuramente non potrà che colpirci quella contrapposizione Dantesca tra inferno e paradiso, ormai perfettamente interiorizzata da ogni cittadino Italiano minimamente consapevole, con quell'apocalittica scena dell'inferno a fare da cornice ad una porta che non siamo certo tentati di voler attraversare. Il lavoro venne portato avanti, lasciato incompleto e infine concluso da diversi appartenenti alla setta pittorica: Peter Cornelius, Joseph Anton Koch, Johann Friedrich Overback, Philip Veitt, Julius Von Carolsfeld, si alternarono e sostituirono in un'opera globale che oggi ci appare quanto mai uniforme. In particolare il giovane Carolsfeld si occupò da solo della stanza di Ariosto, regalandoci momenti di puro lirismo come nella scena di Angelica e Medoro, con lei che incide sull'albero il nome dell'innamorato. Alla fine della visita ci sembrerà di essere usciti da un quadro. Ad aspettarci non ci sono più le campagne bucoliche dell'Esquilino che fu, ma il rumoroso traffico di S.Giovanni, e ripiombati nell'inferno di lamiere non potremo fare a meno di pensare che alla fine il vero "casino massimo" è tutto per strada appena fuori di lì..
Il Casino Massimo si trova in Via Matteo Boiardo 16 ed è visitabile il martedì e il giovedì dalle 9:00 alle 12:00 e dalle 16:00 alle 18:00 e la domenica dalle 10:00 alle 12:00.
martedì 19 febbraio 2013
Dice che 'sta città "non s'ha da fare"!
Esistono diversi modi per entrare a curiosare nella vita privata di un artista: attraverso l’interpretazione delle sue opere, sfogliando l’ultimo numero di Novella 2000 o molto più efficacemente introducendoci all’interno della sua abitazione. Ma non temete: ciò che può suonarvi come un’istigazione a delinquere è in realtà un semplice invito a scoprire una delle tante case museo presenti a Roma, che, complice la quasi totale assenza di visitatori, offrono l’opportunità di fare un salto nel tempo immergendosi completamente nell’atmosfera e nei segreti della vita di un artista, che il più delle volte è prima di tutto un uomo di un altro secolo. Tra queste la più sorprendente è sicuramente la casa museo di Hendrik Christian Andersen, un vero e proprio palazzetto degli inizi del Novecento immerso nella tranquillità residenziale del quartiere Flaminio. Ma chi era Hendrik Christian Andersen? Pittore e scultore, nato in Norvegia nel 1872 ed emigrato con la sua famiglia ancora bambino negli Stati Uniti, Hendrik decide di trasferirsi a Roma durante il classico viaggio di formazione in Europa, una sorta di tappa obbligata per gli artisti d'oltreoceano. Intorno a lui ruotano tutta una serie di personaggi degni di una trama da serial televisivo: il fratello pittore Andreas, morto in giovane età, la ricca cognata Olivia, vera e propria mecenate e finanziatrice dei due fratelli artisti e poveri in canna, lo scrittore Americano Henry James, il suo “maturo” amante nonchè protagonista di un appassionato scambio epistolare, l’onnipresente madre Helene (da cui il nome Villa Helene) e la giovane governante Lucia, in seguito adottata dalla madre, e ultima usufruttuaria della villa, da lei stessa magicamente trasformata in bordello per onorare la memoria artistica della propria famiglia adottiva.
All’ingresso del palazzo, come in una moderna trasposizione del caro vecchio concetto di casa-bottega, veniamo immediatamente accolti dagli ampissimi ambienti del pianoterra che ospitano lo studio di scultura e la galleria d’esposizione, scenario surreale di una collezione apparentemente interrotta. Una sorta di classicismo filtrato all’americana si fonde con i temi ridondanti e involontariamente propagandistici di inizio secolo che fanno perno sulla gagliardia fisica, la maternità e l’intelletto, consegnandoci un risultato indubbiamente monumentale, ma decisamente discutibile secondo gli snobissimi gusti dell’intellettuale europeo nel quale ci siamo momentaneamente incarnati. La visione d’insieme è grottesca e straniante, ma allo stesso tempo ipnotizzante quasi quanto un momento di brutta televisione. Questi candidi giganti abbandonati sotto il grande lucernario, preziosa fonte di luce per accompagnare i lavori in corso, sembrano avere preso forma appena ieri, e quasi ci si aspetta che da un momento all’altro entri l’autore per chiederci cosa ne pensiamo (fortunatamente non è così e non saremo costretti a mentire).
Passando dallo studio alla galleria, vera e propria sala di rappresentanza per l’esposizione delle opere finite, inizieremo finalmente a comprendere il disegno di una mente lucidamente geniale nel suo folle e megalomane progetto, a cui l’intera produzione artistica era destinata: la costruzione di un’utopica città ideale. Tutte le sue sculture vennero infatti pensate e realizzate per la decorazione degli edifici di una fantomatica città mondiale delle arti, delle scienze e del pensiero filosofico e religioso. L’idea incontrò inizialmente il favore di Mussolini, il quale successivamente troppo preso dagli improrogabili impegni bellici, perse interesse nel progetto condannandolo così all’oblio e al naufragio. L’area individuata per la realizzazione di questo centro mistico-scientifico era quella tra Maccarese e Fiumicino (lo sbocco al mare era infatti una parte integrante, allo stesso tempo simbolica e strutturale, dell’intero progetto): quella stessa zona successivamente santificata da gitanti in canotta, dove l’unico connubio tra scienza e filosofia si è risolto nella ricerca dell’ombra in pineta per la pennichella post pic-nic. Ed è lì che diventa entusiasmante scoprire i disegni, i progetti e le mappe di quello che sarebbe potuto essere e che (purtroppo o per fortuna) venne costruito solo nella mente di un’artista. Quasi ci sentiamo delle spie a sfogliare l’imponente volume illustrato “Creation of a World Center of Communication”, opera magna che ripercorre la genesi di questa città ideale a partire dalle concezioni urbanistiche delle più antiche civiltà. E guardando le sculture e i progetti non possiamo fare a meno di pensare alle scenografie del kolossal in bianco e nero "Cabiria".
Proseguendo al primo piano verremo introdotti nell’appartamento privato dell’artista ( e in seguito “pensione” a luci rosse grazie alla romanesca vena imprenditoriale della sora Lucia Andersen), oggi spesso sede di mostre temporanee. Molto più della mostra di turno a colpirci sono le atmosfere arricchite dalle autentiche decorazioni liberty, che ci riportano al tempo e ai personaggi di questa lunga storia fatta di sogni e amori impossibili, personaggi che, forse in maniera leggermente inquietante, ritroviamo scolpiti nei volti di pietra che decorano la facciata esterna dell’edificio. E così anche la stanza più spoglia, quella dove è parcheggiata la macchinetta automatica delle bevande, diventa allo stesso tempo la più intima, con una collezione originale di foto di Hendrik e della sua famiglia, dei suoi successi lavorativi, dei suoi momenti sia intimi che professionali. Alla fine del giro quasi ci sembra di conoscere tutto di lui: abbiamo ammirato le sue opere e gli strumenti di lavoro, il progetto-sogno di una vita, i suoi libri, i volti dei suoi familiari e delle persone amate, abbiamo percorso le stesse stanze, e soprattutto ci siamo illusi di vivere nel suo tempo per il breve momento di una visita. Uscendo sul terrazzo non possiamo fare a meno di riflettere: non sapevamo nemmeno chi fosse Hendrik Christian Andersen, e appena dopo meno di un'ora ci sembra di aver attraversato la sua vita come in un film. La cosa più sconvolgente? Non abbiamo nemmeno pagato il biglietto.
Il Museo Hendrik Christian Andersen su trova in via Pasquale Stanislao Mancini 20 ed è aperto dal martedì alla domenica tra le 9:30 e le 19:30. L'ingresso è gratuito!
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