venerdì 24 febbraio 2012

Dice che a messa se canta e se balla

Quante volte siamo rimasti sorpresi e delusi di fronte alla scoperta dell'improvviso "cambio di gestione" del nostro locale, ristorante o negozio preferito (senza contare le derive estremistiche di chi ha osato convertire una vecchia trattoria romanesca in un un disco-risto-pub-pizzeria-kebabbaro con karaoke)? Qualcosa di simile è avvenuto anche per la Chiesa della Natività di Gesù a Piazza Pasquino, per quanto almeno in questo caso possiamo sentirci di riconoscere con convinzione gli effetti positivi di un cambiamento, foriero di un'animazione decisamente più allegra. E in effetti il passaggio "di gestione" dalla Confraternita degli Agonizzanti alla comunità Congolese di Roma, già nel nome suggerisce un'evoluzione più ottimistica, soprattutto se consideriamo l'agonia come punto di partenza. Ai tempi in cui il buon vecchio Mastro Titta, celebre boia Romano, faceva perdere la testa a uomini e donne con un secco colpo d'ascia, la chiesa si trovava esattamente lungo quel percorso obbligato che portava i condannati a morte verso Castel Sant'Angelo, storico luogo di punizione e spettacolo collettivo, antesignano dei morbosi programmi di intrattenimento odierni sul genere "la vita (!?) in diretta". La Confraternita degli Agonizzanti si occupava quindi per l'occasione dell'esposizione del Santissimo Sacramento all'interno della chiesa, come personalissimo in bocca al lupo al "morituro", mentre sulla porta veniva affissa una tavolozza con il nome del condannato.

Da alcuni anni questa stessa chiesa è passata alla comunità Congolese di Roma, che si riunisce ogni domenica mattina alle 11 per celebrare la propria liturgia settimanale.
Se avete intenzione di assistere alle loro gioiose celebrazioni, prendete queste indicazioni con una certa libertà: per quella legge universale secondo cui la precisione negli orari è indirettamente proporzionale allo spostamento geografico verso sud, recandovi alle undici davanti alla chiesa rischiereste infatti di dovervi intrattenere in veste di parcheggiatori abusivi in attesa del comodo arrivo scaglionato di preti, musicisti, coriste e partecipanti. Con moltissima calma tra le undici e mezza e mezzogiorno avrà dunque inizio la messa, con la musica e il ritmo dei bonghi a diffondere nell'aria spensierate melodie, stimolando immediatamente quel classico buonumore da domenica mattina precorritore di una devastante fame chimica.
Per chi non fosse propriamente un fan della messa in genere, il fatto che il sermone venga ripetuto per ben tre volte in tre lingue diverse (Italiano, Francese e Lingala, idioma locale della Repubblica del Congo),  potrebbe rappresentare un elemento deterrente, e se finora avevate considerato imbattibile la vostra capacità di assentarvi mentalmente durante una predica domenicale, avrete modo di scoprire le nuove frontiere di un viaggio anarchico della mente durante il sermone in lingua Lingala. La liturgia è quella romana-latina...con l'aggiunta di quello che potremmo definire in tipico dialetto Lingala "una botta de vita". Canti e balli si alternano a momenti rituali dove il sottofondo di austera solennità lascia il passo a ritmi decisamente più "vacanzieri" (definizione del tutto impropria dettata dall'inconscio), in cui tutti collaborano battendo le mani e tenendo il tempo.

Il momento dell'offertorio si distingue per la concretezza di un'offerta fatta di veri e propri frutti della terra (frutta, verdure e pane), che vengono portati dai bambini a passo di danza verso l'altare: in realtà più che di una danza si tratta di movimenti rituali, parte integrante di una liturgia che la maggior parte di noi imbucati riduce semplicemente all'inflazionatissimo stereotipo dei neri che "hanno il ritmo nel sangue". Coloro che penseranno di assistere ad una specie di Sister Act, dovranno infatti accontentarsi di un momento di gioia ritmata e di semplice, rincuorante intimità. Di tanto in tanto si affacciano turisti incuriositi che si trattengono per alcuni minuti, il più delle volte rimanendo ai margini, confinati nelle retrovie come imbucati ad una festa in cui non si conoscono le regole di comportamento. Persino i gesti e le parole sembrano ritmati, e la sensazione è che nessuno sembri avere fretta di concludere in vista dei suoi impegni domenicali, soprattutto in considerazione del fatto che la messa della domenica E' l'impegno domenicale! E l'estrema cura ed eleganza nell'abbigliamento tradiscono l'importanza di questo appuntamento molto atteso.

A prescindere dal significato religioso, questa circostanza diventa soprattutto un momento importante di confronto e di sostenimento reciproco all'interno di una comunità straniera, in cui non mancano occasioni di coinvolgimento all'esterno nei momenti in cui si vuole porre all'attenzione pubblica i serissimi problemi di instabilità politica di un paese, spesso passati inosservati per la "colpevolezza" di una nazione poco strategica in quanto a fornitura di petrolio. Per quanto ci riguarda, complice la ripetitività dei vari passaggi nelle diverse lingue, l'apparente voglia dei presenti di godersi senza fretta l'occasione di incontro per un tempo estremamente dilatato, e una nostra compassata rigidità nel lasciarsi coinvolgere dal ritmo di gruppo, passato il primo momento di entusiasmo sarà difficile arrivare indenni fino alla fine. E così, possibilmente senza sbattere la porta, ci ritroveremo all'esterno prima del tempo, magari ripromettendoci che la prossima volta rimarremo più a lungo per vedere "come va a finire", e, cosa più importante, con il sorriso sulle labbra e un piacevole ritmo di bonghi nella testa ( anche se quello ce lo avremmo avuto in ogni caso dopo il consueto sabato sera...).

sabato 4 febbraio 2012

Dice che a Pulcinella "nun se tirano li sassi"

Con i film di animazione e i videogiochi ormai sul punto di oltrepassare i confini della terza dimensione, potremmo legittimamente chiederci a chi mai verrebbe in mente di portare i propri figli ad assistere allo spettacolo di un teatrino di burattini. E se persino i trentenni della mia generazione avrebbero a suo tempo incassato l'onta del marchio di sfigato per essersi ritrovati nei panni di  Arlecchino a Carnevale, oggi che per essere all'altezza della situazione bisogna come minimo assumere le sembianze di Jack Sparrow, Gormiti e Winx (queste ultime spodestatrici delle care vecchie fatine a colpi di trucco pesante e sex appeal), quale bambino potrebbe ancora subire il fascino di una vecchia  maschera dell'antica commedia dell'arte come Pulcinella? Per trovare una risposta a tali inquietanti interrogativi non dovrete fare altro che recarvi sulla terrazza del Gianicolo un sabato o domenica mattina e attendere che il miracolo abbia inizio. E' infatti proprio sull'ottavo colle di Roma (qualcuno cerca sempre di infilarlo insieme a Cucciolo o Eolo nell'elenco dei celebri sette colli, quando non direttamente in quello dei sette nani) che a distanza di cinquantanni si rinnova ogni fine settimana la magia dello spettacolo dei burattini. Il tutto grazie all’opera e alla dedizione dell’esimio Cavaliere della Repubblica Carlo Piantadosi che, nascosto all’interno del proprio “castello”, riporta in vita le avventure della maschera di Pulcinella, le cui origini sembrano addirittura perdersi nel passato dell’antica Roma e delle sue farse popolari.

In realtà la maschera di Pulcinella fece la sua prima comparsa nella Napoli della seconda metà del cinquecento ad opera dell'attore Silvio Fiorillo, che diede così vita alla “macchietta” del servo irriverente pronto a sfidare sciocchi e potenti in equilibrio tra spavalderia, malafede e una buona dose di scaltra idiozia. Dalla commedia dell'arte al teatro dei burattini il passo fu breve, e Pulcinella si trasformò ben presto  nell’antieroe dalla vocina stridula che, dall’alto del suo piccolo palco, tra i più assurdi e improbabili antagonisti, prendeva allegramente a bastonate la personificazione delle nostre paure più ataviche (il diavolo, la morte e..il brigadiere), con quella leggerezza e l’atteggiamento sornione tipico del Napoletano che comunque alla fine "se ne fotte". Dialoghi e scenette rivelano un umorismo e un ritmo di altri tempi, con l’unica morale di un divertimento fine a se stesso e la solennità dei grandi temi come “amore e morte”  ridotti ad una burla incomprensibile e allo stesso tempo affascinante, in cui solo il classico finale a suon di catartiche mazzate diventa recepibile per un pubblico di bambini che finalmente ride e batte le mani divertito.
la storia di Carlo Piantadosi è la storia di una passione e di una tradizione familiare che parte dal padre e coinvolge la moglie, sempre presente al suo fianco e non di rado occasione per un metateatro parallelo di battibecchi di coppia, con la possibilità di un epilogo che degeneri nella piena letteralità dell'espressione "chiudere baracca e burattini" alla faccia dei bimbi in attesa, così come solo ai veri artisti è permesso di fare. E il Cavalier Piantadosi un vero artista lo è sicuramente.

L’unica concessione alla modernità è la presenza delle nuove celebrità nel banchetto allestito per la vendita dei burattini, dove tra un Bart Simpson e un’onnipresente Hello Kitty (alla quale manca ormai solo la sponsorship per le armi di distruzione di massa), i vecchi volti della commedia dell’arte rimangono decisamente in netta minoranza. Ai nuovi intrusi non è comunque concesso il privilegio di partecipare allo spettacolo, che rimane per consuetudine appannaggio degli “attori” più tradizionali (per quanto un paio di bastonate ben assestate ad Hello Kitty mi vedrebbero d'accordo nel fare una piccola eccezione al rispetto della tradizione). Anche le teste dei burattini in vendita non sono più di legno come un tempo, ma in questo caso il ricordo dell’abitudine in voga tra i bambini di utilizzarle come oggetto contundente e quello del rumore del legno al contatto con la mia testa prevalgono sulla nostalgia, facendo apparire il cambiamento come una rassicurante evoluzione. Nel castello di Pulcinella si alternano diversi siparietti tra Pulcinella stesso e i più stravaganti personaggi: il brigadiere, il diavolo, il professore e l’amata Gabriella, che doppiata dalla stessa voce maschile degli altri, sortisce l’imbarazzante effetto di un risultato piuttosto ambiguo. Denominatore comune di ogni duetto è il più volte menzionato finale “a mazzate”, mentre uno storico cartello affisso sul baracchino invita i bambini a non tirare i sassi, nel caso venissero anche loro fomentati dall’esplosione di violenza Pulcinellesca.

Alla fine dello spettacolo Pulcinella cala la cesta sulle note di un inquietante canzoncina (“almeno un euro” recita il cartello), i bambini si avvicinano intimoriti a lasciare l’obolo e la magia finisce. Evito di impelagarmi in riflessioni filosofiche sullo spazio-tempo suggerite dall’esperienza di aver assistito nello stesso luogo all’identica rappresentazione di trentanni prima e, con un misto di nostalgia e riconoscenza, vi suggerisco a questo punto di godere dell’impareggiabile spettacolo offerto dalla vista delle terrazze del Gianicolo, ancora più bella nelle mattine di sole invernali, quando si scorgono nitidi i profili delle montagne e persino il carcere di Regina Coeli sembra bearsi del suo contesto.  E proprio in questo splendido scenario, bizzarro e tragicomico, dove da oltre un secolo lo sparo di un cannone esplode puntuale a mezzogiorno, e i messaggi d'amore delle fidanzate dei detenuti riecheggiano ancora dalle terrazze di un Gianicolo trasformatosi nel parlatorio più romantico del mondo, viene naturale pensare che non ci sarebbe potuto essere a Roma un luogo migliore per far rivivere la malinconica allegria del surreale teatrino di Pulcinella.