sabato 30 aprile 2011

Dice che al vino e "al resto" ci pensa la garbata ostella (I parte)

C'era una volta una bellissima ostessa. Nella sua locanda, adagiata sulla cima di uno sperone roccioso a sovrastare la basilica di S.Paolo, la fascinosa donna soleva accogliere con premura e dedizione i numerosi pellegrini che durante il celebre pellegrinaggio delle "sette chiese", decidevano di concedersi una sosta profana inebriandosi del vino e delle grazie dell'ostessa per riprendersi dalle loro sante fatiche. Si dice che la donna fosse a tal punto gentile e cortese che venne in breve soprannominata la "garbata ostella", ed è proprio a memoria delle sue garbate gesta (nel servire alla tavola come a letto) che la zona dove un tempo sorgeva l'osteria prese il nome di Garbatella.

E' un posto strano la Garbatella: la Roma e la romanità più autentica in un luogo che architettonicamente è quanto di più lontano ci sia dalla città che siamo abituati a conoscere. Passeggiare per il quartiere è una piacevolissima esperienza fatta di scoperte e familiarità. Ci si imbatte ancora nei veri Romani, con le trattorie veraci, i panni stesi, i bambini che giocano a pallone nei cortili, le signore affacciate alla finestra, e una genuina sinfonia di "aò" e "mortacci tua" come nostalgica colonna sonora di una Roma altrove sparita.
Il cuore del quartiere, la sua prima pietra e la genesi di uno stile architettonico soprannominato barocchetto Romano si ritrovano nell'incantevole piazzetta Brin. E' proprio qui che nacque la Garbatella, per ospitare operai e futuri lavoratori portuali in vista del grandioso progetto (mai realizzato) di costruzione di un canale navigabile parallelo al Tevere, che avrebbe dato vita a un importante porto commerciale alle porte della città (nell'attuale zona del Gazometro).

L'idea era quello di creare una sorta di città giardino fatta di villini, orti e cortili, dove gli abitanti potessero rivivere in perfetto equilibrio con gli spazi e le proprie dinamiche sociali, a metà strada tra il modello delle nuove periferie inglesi e la vita nelle campagne da cui i nuovi lavoratori sarebbero venuti.
Lo stile iniziale di questo quartiere, inizialmente concepito come un piccolo borgo marinaro,  risulta sorprendentemente ricercato, con elementi decorativi di gusto medievale che si fondono a richiami barocchi, vestendosi di povero solamente nella scelta e nell'utilizzo di stucchi e materiali economici.
Questa volta ho deciso di condurvi passo passo lungo un vero e proprio itinerario. Il consiglio è di seguirlo in un tardo pomeriggio estivo, così che possa interrompersi con un aperitivo all'aperto che faccia da apripista ad una smodata indigestione di trippa alla Romana Garbatella-style..

Propongo di partire proprio da Piazza Brin, dove tutto è iniziato il 18 febbraio del 1920 e dove il re Vittorio Emanuele III pose la prima pietra del quartiere, così come recita la targa posta sulla facciata del bellissimo palazzetto ocra, archetipo del già citato barocchetto romano  «Per la mano augusta di S.M. il Re Vittorio Emanuele III l'Ente autonomo per lo sviluppo marittimo e industriale e l'Istituto delle case popolari di Roma con la collaborazione delle cooperative di lavoro ad offrire quieta e sana stanza agli artefici del rinascimento economico della capitale. Questo aprico quartiere fondano oggi. XVIII Febbraio MCMXX.». Dalla piazza iniziate il percorso verso sinistra costeggiando i giardini con la pista di pattinaggio fino all'incrocio con via delle Sette Chiese. Dopo aver cambiato idea circa una quindicina di volte su quale villino vorreste possedere, arrivati all'incrocio avviatevi in discesa lungo questo piacevole tratto pedonale. La strada costeggia un parchetto che, dietro il suo anonimo aspetto di giardinetto di periferia concepito al solo scopo di sollazzare cani e cannaroli, nasconde all'interno di un'insospettabile casupola dal tetto rosso erroneamente identificabile come cesso pubblico, l'ingresso ad un vero e proprio tesoro sotterraneo: le catacombe di Commodilla. Il sito archeologico è normalmente visitabile su appuntamento, ma considerato che il nostro itinerario di oggi nasce con l'unico intento di una disimpegnata passeggiata tra i cortili e l'obiettivo di un'abbuffata in trattoria, rimando a futuri post di più elevato livello culturale-storico la descrizione di questo sorprendente monumento sotterraneo.
Girate di nuovo a sinistra per via della Garbatella (all'angolo c'è la mia personalissima scelta di villino dei sogni) e poi subito a destra discendendo per via Luigi Orlando, percorrendo la quale, mentre curioserete tra giardini e cortili evitando possibilmente di collezionare il numero massimo consentito di  "che cazzo te guardi?," raggiungerete in breve piazza Bartolomeo Romano al cospetto del celebre teatro Palladium.

A questo punto un breve salto temporale ci trasporterà dall'amena concezione di città giardino del 1920, alle incombenti necessità abitative in pieno periodo fascista, quando lo sventramento del centro storico e il conseguente dislocamento di parte della popolazione in zone periferiche, assecondò una diversa funzionalità architettonica nello sviluppo di palazzine più grandi, in grado di accogliere un maggior numero di famiglie e dove il verde degli orti individuali venne sostituito da cortili comuni, stenditoi e asili nidi. L'esasperazione di questo processo lo ritroviamo nella costruzione dei famosi alberghi di piazza Michele da Carbonara, di cui parleremo nella seconda parte di questo lungo itinerario.

Il Palladium nacque come cinema rionale di quartiere nel momento in cui la Garbatella, sempre più meta di sfollati trapiantati dal centro storico, cominciò a sentire l'esigenza di sviluppare servizi pubblici e luoghi di intrattenimento sociale. Da cinema di quartiere è stato riconvertito nel tempo in sala concerti, discoteca rock e oggi teatro. Potrei vantarmi di avervi assisitito a un fantastica esibizione live dei Muse, ma a quel punto per onestà intellettuale sarei anche costretto ad ammettere di aver presenziato in tempi non sospetti ad uno dei primissimi concerti degli articolo 31. Erano ancora agli inizi, avevo solo 17 anni, J Ax non era ancora lobotomizzato..e per evitare di continuare a lungo, sull'eco delle mie inutili e balbettate giustificazioni vi invito a proseguire in salita per via Francesco Passino fino all'incrocio con via Vittorio Cuniberti.

Prendendo via Cuniberti entrerete ufficialmente nella zona delle cosiddette "case rapide", altro esempio di sperimentazione architettonica che prevedeva la costruzione in tempi brevissimi di abitazioni dallo stile molto più sobrio e realizzate con materiali più economici rispetto al lotto originario di Piazza Brin. Questa è a mio parere la zona più affascinante del quartiere: l'atmosfera è quella di un piccolo borghetto fuori città, con le sue casette basse, i soliti cortili e il rumore della televisione e delle stoviglie riposte dopo il pranzo a rivelare una rassicurante quotidianità oltre le finestre aperte. E come in una antica Pompei potrete divertirvi a scovare tracce di "affreschi" giallorossi, testimonianze indelebili dell'ultimo scudetto della Roma, quando Garbatella e Testaccio si trasformarono in un vero e proprio monumento celebrativo a due colori.

Percorrete tutta la strada attraversando la silenziosa e suggestiva piazzetta Giovanni Masdea, e all'incrocio con Via Magnaghi, vi suggerisco una breve deviazione a destra verso Piazza Sauli. Una volta attraversati gli archi potrete infatti ammirare un interessantissimo esempio di architettura razionalista "di stato" nell'affascinante edificio che ospita la scuola "Cesare Battisti", con la sua bella torre traforata  (che fa molto New York anni '30) e le quattro aquile littorie, superstiti sentinelle di un tempo fortunatamente andato, rimaste a sorvegliare quello che è oggi uno dei quartieri storicamente più "rossi" della nostra città.
Tornando indietro per via Magnaghi, ripassando nuovamente sotto gli archi, continuate il precedente percorso girando a destra su via Giovanni da Montecorvino, da dove proseguirete fino a scendere i pochi gradini con vista che vi condurranno in Piazza Giovanni da Triora. Per dovere di cronaca, e in pieno tradimento di me stesso e della mia ripromessa di non nominare la sciagurata famiglia televisiva, mi trovo costretto ad informarvi che il Roma club Garbatella in fondo alle scale è conosciuto (e riconvertito) ahimè come bar dei Cesaroni, simpatici a me personalmente quanto un gatto attaccato ai coglioni (licenza poetica in rima ispirata dall'atmosfera goliardica del quartiere), e questo per via del suo utilizzo come location per l'omonima serie televisiva. Dimenticate in fretta questo scomodo dettaglio e proseguite per via Giustino de Jacobis fino a piazza Sant'Eurosia.

A questo punto è arrivato il momento di fermarsi per un aperitivo all'aperto nel wine-bar della piazza (l'Acino Brillo), magari contemplando il suggestivo arco di ingresso di via Rubino, in attesa che da un momento all'altro spunti Nanni Moretti in sella alla sua vespa (lo so è un clichè, ma glielo dovevo come par condicio per aver nominato i Cesaroni). Siamo giunti a metà del nostro percorso e non abbiamo ancora messo niente sullo stomaco.

Il tempo di qualche campari e un paio di prosecchi, e quando la fame si farà sentire, tornerò con la seconda parte di questo itinerario.

La visita alle Catacombe di Commodilla, situate in Via delle Sette Chiese 42, è possibile previo appuntamento con permesso della Pontificia Commissione di Archeologia sacra ( mei cojoni ci sta tutto) al numero di tel. 06/735824

Sempre in via delle Sette Chiese, al numero 68,  vi consiglio la pizzeria "i tre gatti". Aprendo il menù potreste sperimentare l'impulso di produrvi in una vile fuga accompagnata da imprecazioni varie alla vista dei prezzi delle pizze. In realtà scoprirete trattarsi di maxi pizze (tra l'altro molto buone) bi o più gusti per 2/3  persone. Se poi aggiungete la cortesia della proprietaria, degli ottimi antipasti misti (scordatevi i fritti, qui parliamo di cose serie tipo ricotta fresca e trippa al sugo) e un conto più che onesto allora mi ringrazierete per la dritta.

martedì 19 aprile 2011

Dice che a via Giulia vi aspettano i "fratelli della morte"

Se avete molto tempo libero e state pensando di impiegarlo iscrivendovi a un circolo o a un'associazione qualsiasi, ma il burraco e la cucina macrobiotica non fanno per voi, vi consiglio allora di tentare con qualcosa di più originale e vagamente più lugubre, come per esempio entrare a far parte dell'arciconfraternita di S.Maria dell'Orazione e Morte.

Nella centralissima Via Giulia, di fronte a palazzo Farnese, l'omonima chiesa di S.Maria dell'Orazione e Morte nasconde al suo interno un piccolo quanto singolare cimitero che, nel tramandarci la storia di questa antica confraternita, ci svela al tempo stesso una parte importante del patrimonio storico e culturale della nostra città. Ai lati del portale di ingresso, sulla cui sommità una clessidra e due teschi alati ci danno il loro non richiesto benvenuto, due bizzarre cassette per le elemosine ci offrono subito un indizio sugli scopi e le origini di questa associazione di fedeli. La cassetta sulla destra ci saluta con un "hodie mihi cras tibi", che sta per "oggi a me e domani a te" (la chiosa del "tiè" ce la metto io), mentre quella sulla sinistra ci invita ad elargire una donazione per i morti "che si pigliano in campagna". E non ci si riferisce a quei "morti" che,  invocati a gran voce, "piglierete" in campagna in questo prossimo lunedì di Pasquetta dopo aver colpito l'incazzoso gitante di turno con una pallonata in testa, ma di veri e propri cadaveri che rimanevano abbandonati nelle campagne, quando, fino al'inizio del secolo scorso, era troppo oneroso per le famiglie che abitavano fuori città provvedere ad una degna sepoltura per i propri congiunti.

" nell’anno del Signore 1538 alcuni devoti cristiani, vedendo che molti poveri, li quali o per la loro povertà, overo per la lontananza del luogo dove morivano, il più delle volte non erano sepolti in luogo sacro, overo restavano senza sepoltura, e forse cibo di animali, mossi da zelo di carità e pietà instituirono in Roma una compagnia sotto il titolo della Morte, la quale per particolare instituto facesse quest’ opera di misericordia ".
Dall'istituzionalizzazione della confraternita, approvata nel 1552 da Giulio III, si approdò nel 1576 alla consacrazione di una chiesa propria, in seguito ricostruita e rimaneggiata fino ad assumere l'aspetto attuale.
A partire da allora e fino agli inizi di questo secolo, si svolge la vera e propria epopea di questi "zelanti fratelli della morte", che sfidando la fatica e i chilometri sotto piogge torrenziali e attraverso le campagne arse dal sole, raggiungevano ogni angolo più remoto dell'agro romano a recuperare corpi spesso senza nome, per poi ritrascinarli sulle spalle o distesi su una lettiga di fortuna, verso una più dignitosa sepoltura in uno dei tanti cimiteri della città.
Tra questi esisteva anche un cimitero proprio della confraternita, allestito nei sotterranei della chiesa e meta della nostra visita di oggi. Per questo motivo, non avendo il tempo di approfondire il pur interessante interno a pianta ovale della chiesa, dove fa bella mostra di se una copia del San Michele Arcangelo di Guido Reni, procederemo direttamente oltre il pesante portone situato nel corridoio esterno sulla sinistra, recante la scritta decisamente poco equivocabile di "cementerium", per discendere i gradini verso il cuore (e le ossa) di questo luogo.

L'ambiente è altamente suggestivo, e sebbene alcuni fregi parietali e gli stessi lampadari assemblati con ossa umane, possano ricordarci la ben più conosciuta e sfarzosa cripta del cimitero dei cappuccini di Via Veneto (vedete il mio precedente post di Novembre 2010), il silenzio del luogo e l'essenzialità delle pur macabre decorazioni , regalano a questo ambiente un' atmosfera più autentica e sacrale che quasi intimorisce e conforta allo stesso tempo.
Oltre ai già citati lampadari, possiamo osservare una serie di teschi ordinatamente disposti su degli scaffali di legno, una croce latina formata da (indovinate un pò?) altri teschi e una lettiga di ferro, probabilmente utilizzata al tempo per il trasporto dei futuri lampadari dalle campagne ai loro luoghi di sepoltura cristiana.

Una curiosità è che nel cosiddetto ottavario dei morti (il periodo di otto giorni successivo al 1 Novembre), tale cimitero, che prima della costruzione degli argini del Tevere trovava la sua estensione fino al fiume, diventava palcoscenico e scenografia di oratori musicali e rappresentazioni sacre, celebri nell'Ottocento per la ricchezza delle scenografie, delle decorazioni e dei costumi, con artisti e statue di cera a grandezza naturale che si esibivano in una sorta di burlesque dell'oltretomba.
La Confraternita, che ancora oggi conta una ventina di membri, è tuttora esistente, e venuto meno il suo compito originario di recupero e assistenza dei morti, continua ad accompagnare i fedeli defunti con la pratica delle preghiere di suffragio, la gestione della chiesa e della cappella cimiteriale al Verano e, cosa di indubbio valore storico culturale, con il tramandare la storia e le tradizioni dell'associazione stessa.

Gli archivi della compagnia contengono preziosissimi documenti che in oltre 4 secoli, grazie alla minuziosa annotazione di ogni singola tumulazione dal 1552 al 1896, ci offrono uno spaccato dettagliato sulle condizioni di vita, le cause di morte e gli insediamenti geografici delle zone "periferiche" della nostra città. Scoprire questo ennesimo angolo nascosto di Roma, significa quindi riscoprire anche una parte della storia e delle caratteristiche del nostro territorio. Una volta riemersi su Via Giulia, dopo una sguardo all'ansiogena clessidra e a quell' "oggi a me, domani a te", sarà impellente la voglia di andare a bivaccare in uno dei tanti bar che si affacciano nella vicina piazza di Campo de Fiori, fumandoci un intero pacchetto di sigarette accompagnati da un numero indefinito di bicchieri di vino. In fondo se la vita è così breve è meglio godersela, e poi, se vogliamo dirla tutta, come lampadario ancora non mi ci vedo.

La Chiesa arciconfraterniale di S.Maria dell'Orazione e Morte si trova in Via Giulia 262 ed è visitabile il mattino (escluso sabato e domenica) dalle 7:30 alle 11:00 e il pomeriggio (week end compresi) dalle 16:00 alle 18:30. Per accedere alla cripta è sempre meglio chiedere.

giovedì 14 aprile 2011

Dice che al cimitero è più romantico

Una volta che avrete esaurito tutte le cartucce di un tramonto sul lungotevere, uno scorcio panoramico dal Gianicolo e un panino con la salsiccia dallo zozzone, una delle esperienze più romantiche che ancora vi resta da offrire nella nostra città è senza dubbio una passeggiata nel suggestivo cimitero acattolico di Testaccio. E se la proposta suonerà troppo macabra, vi consiglio allora di presentarlo sotto l'altro nome, decisamente più convincente ed evocativo, di "cimitero degli artisti e dei poeti".

La storia di questo luogo è legata in realtà proprio al termine acattolico, in quanto in passato non era permesso dare sepoltura in chiesa o comunque in terra benedetta ai non cattolici (protestanti, ortodossi, suicidi o semplici artisti stranieri di passaggio in Italia). Per questo motivo i corpi dovevano essere seppelliti fuori dalle mura della città e le inumazioni avvenivano soprattutto di notte per evitare incidenti e spiacevoli intromissioni di fanatici religiosi o semplici ubriachi molesti di passaggio. Tra la fine del settecento e gli inizi dell'ottocento, questa parte della campagna Romana a ridosso della mura Aureliane e della piramide di Caio Cestio, venne mano a mano riconosciuta come zona di sepoltura e quindi recintata, in parte a spese delle autorità pontificie e in parte e soprattutto grazie all'intervento di ambasciate e rappresentanze diplomatiche straniere. Il cimitero ospita infatti per la maggioranza cittadini stranieri e cominciò ad accogliere dalla seconda metà del '700 le spoglie di artisti, scrittori o semplici studenti Nordeuropei, che al tempo del cosiddetto Neoclassicismo, affascinati dalle vestigia del nostro passato classico, si recavano numerosi in Italia  per quel famoso viaggio di scoperta che spesse volte, proprio tra tali e tanto agognate bellezze, trovava la sua fine con la morte.
Una delle storie più significative è senza dubbio quella dello scultore Statunitense William Wetmore Story, la cui tomba è ormai divenuta icona dello spirito romantico del luogo, nonchè meta di pellegrinaggio di adolescenti emo-gothic e giovani fotografi tormentati, a cavallo tra le sonorità oscure e malinconiche del gothic rock e i versi inquieti di poeti neoromantici anglosassoni.

La scultura dell'angelo piangente sulla tomba è stata più volte  ripresa sulle copertine di album metal (dai finlandesi Nightwish ai più conosciuti Evanescence) e così come riportato in epigrafe, rappresenta l'ultimo lavoro di William Story prima della sua morte, scolpito come opera celebrativa per la sepoltura della defunta moglie. L' "Angelo del Dolore" (Angel of Grief) è una vera e propria evocazione della sofferenza per la perdita di una persona amata, e se il nome è già di per se sufficiente a far colare fiumi di eyeliner dagli occhi di giovani metallari romantici, ciò che realmente colpisce e commuove è l'immediata percezione di un "dinamico immobilismo" dello sconforto, grazie alla capacità dello scultore di  trasmettere a questo corpo fatto di pietra quel molle abbandono nel dolore, in cui sembra solo mancare il sussulto di un singhiozzo a scuoterne il corpo e le ali. L'artista morì poco dopo l'ultimazione dell'opera e venne sepolto in quella stessa tomba da lui plasmata ,insieme alle spoglie della compianta moglie. Ormai perfettamente in sintonia con lo spirito del luogo, sarete pronti a conoscere e immaginare le decine e decine di altre storie, circondati da artisti, pittori, scultori, poeti, filosofi e attori che a cavallo di due secoli, e provenienti da ogni parte del mondo, decisero un giorno di incrociare il proprio destino con Roma, che ancora oggi li  accoglie in questo piccolo giardino botanico tra cipressi e rose selvatiche, in un tempo sospeso tra l' ombra della piramide e il traffico della via Ostiense.

Non meno straziante è la storia del celebre poeta inglese Shelley, morto annegato al largo della costa Toscana a bordo di un vascello (e bisogna concedergli che in quanto a morte romantica, modalità e ambientazione sembrano essere state curate nei dettagli) e cremato sulla spiaggia di Viareggio. Le ceneri vennero seppellite nella cosiddetta zona vecchia del cimitero, mentre il cuore riposa oggi in Inghilterra al fianco della moglie Mary Shelley. Il suo amico Edward Trelawny strappò infatti alle fiamme il cuore del poeta durante la cerimonia di cremazione on the beach, il quale fu successivamente custodito dalla vedova Shelley fino alla morte e con lei seppellito in terra natia in quest'ultima espressione di macabro romanticismo e amore eterno. Se in tutto questo vi manca ancora l'elemento d'atmosfera, sappiate che Mary Shelley è la celebre autrice del romanzo "Frankenstain", uno dei più grandi miti letterari gotici di tutti i tempi. A completare tanto struggimento rimane l'epigrafe che riprende tre versi del canto di Ariel dall'azzeccatissima "tempesta" di Sheakspeare:  "Nothing of him that doth fade, but doth suffer a sea change, into something rich and strange"(Niente di lui si dissolve ma subisce una metamorfosi marina per divenire qualcosa di ricco e strano).

A questo punto l'itinerario vi obbliga a scoprire le tombe di altri importanti personalità, quali il poeta inglese John Keats, seppellito nella parte antica del cimitero (forse la zona più tranquilla e che più rispecchia la serena atmosfera del luogo)  e il nostro filosofo e politico Antonio Gramsci, uno dei pochi Italiani ad aver avuto l'onore di essere sepolto in questa enclave di stranieri.
Visite obbligate a parte  il consiglio che vi do è quello di non cercare, ma di lasciarvi attrarre e richiamare dalla forza, il fascino, l'involontaria bellezza o lo studiato eccesso di queste lapidi e sculture, che vi porteranno di volta in volta  a conoscere un pittore, una scrittrice, un filosofo o un artista in una personalissima ricerca che ha inizio in questo giardino e si concluderà magari sulle pagine di un libro al vostro ritorno. Potreste ad esempio scoprire un pittore Tedesco della metà dell'ottocento a partire dalla sua tomba magnificamente rock (Freidrich Geselchap), o fare la conoscenza di un'attrice Inglese dei primi del novecento incuriositi da quella strana statua classica di donna tranciata a metà (Belinda Lee).

Sono certo che ognuno porterà impresso il ricordo di un nome, di una statua o di un epigrafe, a seconda della propria sensibilità o stato d'animo del momento. In quanto a me, portate i miei saluti al piccolo Georges Volkoff: è quel bambino vestito di tutto punto che mentre stringe il suo quaderno tra le mani, volge lo sguardo verso qualcosa che non possiamo vedere, ma che sembra non spaventarlo affatto, con una serenità dipinta sul volto che diventa quasi contagiosa e che ci porteremo dentro fino a quando, usciti nuovamente all'esterno, torneremo a riprodurci in quei versi a noi decisamente più consoni e molto meno Shaekspeariani, rivolti all'ausiliare del traffico che ci ha appena lasciato la sua personalissima epigrafe sul parabrezza della macchina.

Il Cimitero acattolico si trova in via Caio Cestio 6 ed è aperto dalle 9:00 alle 17:00 (domenica e festivi 9:00 - 13:00). Per la visita siete invitati a lasciare un'offerta di due euro, destinata al mantenimento del posto. All'interno è presente anche un piccolo centro visite dove potrete approfondire la vostra sete di conoscenza sugli illustri ospiti di questo incantevole giardino.