martedì 24 gennaio 2012

Dice che è la moschea più grande d'Europa

Nell’ambito di quell’eterna competizione dove le misure contano eccome, e che vede in questo caso protagonista la cupola di San Pietro nel difendere il suo record in altezza come dominatrice assoluta dello skyline Romano, è particolarmente ovvio come l’antagonista più temuto sia stato in passato il minareto della grande moschea di Roma. L’imponente edificio vide la sua genesi nei lontani anni sessanta, quando il re Faysal dell’Arabia Saudita, desideroso di raccogliersi in preghiera nel corso di una sua visita a Roma, si rese conto di come la città non fosse attrezzata per adempiere agli obblighi di una fede non esattamente condivisa dagli inquilini del Vaticano. In conseguenza dell’episodio, dietro formale richiesta e concreto stanziamento di fondi da parte del governo dell’Arabia Saudita, si avviò dunque quel lunghissimo percorso di progettazione e realizzazione della prima moschea di Roma, che solo nel 1995 riuscì infine a vedere la luce. Unici vincoli all’accettazione del progetto un minareto non troppo alto (e assolutamente meno dotato del cuppolone) e preferibilmente silenzioso. All’ombra del monte Antenne e a poca distanza dal regno dorato del quartiere Parioli venne dunque innalzata la più grande moschea d’Europa, nonchè l’unica ad essere priva di altoparlanti per il consueto richiamo alla preghiera. La struttura esterna riesce a combinare i dettami della tradizione architettonica Italiana di Paolo Portoghesi, nel suo ostentato razionalismo ministeriale anni ottanta (non cercate la definizione nei libri di architettura, l’ho creata in questo istante), con la più classica tradizione Islamica.

Il venerdì è il giorno di preghiera in cui la moschea prende vita assalita da migliaia di fedeli Musulmani di ogni nazionalità. Per l’occasione viene allestito lungo il perimetro esterno un colorato mercato, punto di incontro della comunità nel solco della consolidata tradizione di mangiare insieme dopo la preghiera. Da alcuni anni il mercato è divenuto oggetto di polemica tra comune, municipio, vigili e abusivi in una gazzarra tutta Italiana dove la ricerca di una regolarizzazione soddisfacente per tutti, si perde nei paradossi di una burocrazia che come al solito assume le sembianze del mitologico cane che si morde la coda senza risolvere un cazzo. Nel frattempo, fra cicliche retate e regolarizzazioni a singhiozzo la festa continua, e se volete cedere alla tentazione di provare gli autentici sapori della cucina tradizionale, tra cous cous e carne d’agnello, mischiandovi alla coivolgente atmosfera di una città Mediorientale, il mercato del venerdì rimane comunque il posto giusto. Al centro del dibattito di cui sopra, il fatto che cibi cotti e serviti direttamente in strada rappresentino la violazione di ogni principio igienico, argomentazione che per noi Romani cresciuti per generazioni con i mitici panini con la salsiccia dello “zozzone” (una sorta di ufficioso franchising delle camionette notturne), si rivela decisamente poco incisiva.

Se oltre all’unto del kebab siete interessati anche agli aspetti più culturali, sappiate che la moschea si concede ai visitatori ogni mercoledì e sabato mattina fra le nove e le undici e trenta, ad esclusione del periodo del Ramadan.
Percorrendo il lungo corridoio oltre la scalinata si rimane un po’ dubbiosi e incuriositi da una scelta architettonica difficilmente classificabile, mentre attraversando una lunga serie di colonne a calice di gusto apparentemente postmoderno, solo a tratti riusciamo a riconoscere gli elementi appartenenti a quell’immaginario decorativo che possa soddisfare le nostre aspettative di esotismo orientale. Una volta giunti nel cortile ci accorgiamo di come i due stili sembrino infine convergere tra loro, e mentre ancora ci chiediamo se ci si trovi nel patio dell’Alhambra o degli uffici postali di piazza Bologna, il portale davanti a noi scioglie ogni dubbio e ci invita ad entrare. L’impatto è di quelli che lasciano a bocca aperta, e quasi ci dimentichiamo dell’obbligo di lasciare le scarpe all’ingresso. Ci si ritrova improvvisamente immersi in una soffusa luce azzurra che, con chiari rimandi alla moschea blu di Istanbul, ci avvolge in un contesto decorativo povero di immagini e ricchissimo di suggestioni. Una guida del posto è sempre disponibile ad accogliere i visitatori, per rispondere alle domande e dare qualche informazione ai più curiosi. Nel nostro caso, dopo una brevissima introduzione tecnica ricca di notizie interessanti, il nostro affabile Cicerone del Sudan si è lanciato in un monologo estremamente complesso, che passando attraverso filosofici tentativi di indottrinamento, si è infine arenato sull’annosa questione della cattiva influenza delle donne dei calciatori sulla riuscita del campionato (prendendosela misteriosamente in particolare con quelli del Napoli).

Ad arginare il fiume di parole, la rasserenante visione di una selva bianca di colonne a tre steli, raffinato richiamo ad un oasi di palme, che si slancia verso l’alto in un elegante gioco di architetture dalle linee concentriche. Ai lati della sala la nostra attenzione viene invece attirata dai matronei, veri e propri soppalchi riservati alle donne, secondo il principio islamico di separazione dagli uomini nel momento della preghiera. Il bagno con la vasca per le abluzioni, tappa necessaria prima dell’uscita, è direttamente collegato con la sala principale, ed è li che ci scopriamo infine profondamente provinciali nel nostro rimanere affascinati di fronte alla visione di un comune cesso pubblico, semplicemente adattato alle diverse esigenze di una tradizione che prevede il rituale  lavaggio purificatore prima del momento della preghiera. Dettagli lontani dal nostro quotidiano che ci sorprendono nei posti (e nei momenti) più impensati. All’interno della struttura è presente anche un importante Centro culturale Islamico, dove oltre a una biblioteca e a un centro congressi, è ospitata anche una scuola di lingua araba aperta a tutti con le lezioni del sabato mattina. Le difficoltà dell’idioma rappresentate dalla celebre espressione “ma che parlo arabo?” potrebbero farci dimenticare il piacere di avvicinarci a una lingua così strettamente connessa al proprio universo culturale e il cui apprendimento, lungi dal prepararci a una conversazione nella prossima vacanza sul mar Rosso, diventa l'occasione per imparare a conoscere la ricchezza di questa affascinante cultura, celata dietro la raffinata eleganza della propria arte calligrafica. La visita è finita e mentre ci allontaniamo osservando il minareto che si staglia sull’enorme cupola di piombo, mi torna in mente la divertente risposta della guida alla nostra domanda: “ma si sente il canto del Muezzin?” “No, quello dava fastidio a Maurizio Costanzo”. Scherzosa battuta che nasconde un’inquietante verità sull’Italia di oggi.

lunedì 16 gennaio 2012

Dice che il tempio di Apollo sta dietro la caldaia

Accade sempre più spesso che il Romano di ritorno da un week end in una qualsiasi capitale Europea si entusiasmi magnificando l’avanguardia della produzione artistica di città come Londra, Berlino o Barcellona, esaltandosi in impietosi confronti con l’idea di una fossilizzata offerta culturale nostrana, purtroppo il più delle volte identificata con il ricordo sbiadito dell’ultima gita ai musei vaticani ai tempi della quinta elementare.
In realtà se sperimentalismo (odioso termine di cui si abusa per dare un'aria sofisticata ed insopportabilmente radical chic a qualsiasi forma di creatività) è la parola d’ordine che tanto invidiamo ai nostri cugini oltre confine, il riuscitissimo connubio tra archeologia classica e archeologia industriale che ci attende nell’ex centrale elettrica di Montemartini, potrebbe sorprendervi con palate di questa maledettissima "avanguardia sperimentale" da capitale Europea, che almeno in questo caso può considerarsi a pieno diritto come intrinsecamente legata alla storia di Roma e del suo territorio.
Ci troviamo nella zona di Ostiense-Marconi, la più antica area di industrializzazione della capitale, che in virtù della sua posizione strategica tra il fiume Tevere, la stazione e l’allora importantissimo asse viario dell’ Ostiense (più un paio di cornettari niente male), vide svilupparsi nel raggio di poche centinaia di metri imponenti strutture portuali, i mercati generali, l’officina del gas e la centrale elettrica protagonista di questo itinerario. Attualmente all’ombra del gazometro è in corso un interessantissimo processo di riqualificazione, dove tra locali alla moda, riconversione di vecchi edifici industriali in spazi espositivi, risse da sabato sera ed espressioni murali di arte urbana, continua a prendere forma in modo sempre più definito quell’ambiente metropolitano tanto caro ai registi contemporanei, che da Ozpetek in poi hanno colto lo spirito underground di questo quartiere come perfetta ambientazione per storie neorealiste di giovani sfigati alternativi.


E’ in questo contesto che scopriamo il museo della centrale termoelettrica di Montemartini, primo impianto pubblico destinato alla produzione di energia elettrica, inaugurato nel 1912 e intitolato a Giovanni Montemartini, assessore al tecnologico deceduto durante una seduta del consiglio comunale nel 1913 (ebbene sì, può succedere anche questo). La centrale venne abbandonata dopo circa mezzo secolo di attività, con la conseguente dismissione di impianti e macchinari e un progressivo abbandono degli ambienti.
A seguito di un riuscitissimo processo di recupero della struttura e delle macchine portato avanti dall’ACEA, la grande occasione di rinascita si presenta nel 1997, quando a causa di un intervento di ristrutturazione all’interno del complesso dei musei Capitolini, causato da un problema di infiltrazioni d’acqua e umidità (seccatura che evidentemente esula dai confini dei cessi di casa nostra), molte sculture vennero trasferite temporaneamente negli spazi dell’ex centrale elettrica.  Questa geniale ricollocazione fu il pretesto per l'allestimento di una mostra intitolata “le macchine e gli dei”, che oltre ad essere il titolo perfetto per descrivere con registro poetico un’ordinaria giornata di imprecazioni ad un ingorgo stradale cittadino, rappresenta alla perfezione il suggestivo accostamento di due mondi così diversi tra loro e allo stesso modo affascinanti.


Il successo dell’idea trasformò la mostra in un’esposizione permanente, la quale venne arricchita con "avanzi di magazzino" e più recenti ritrovamenti archeologici degli inizi del secolo, quando nel periodo successivo  all’unità d’Italia nuovi tesori vennero alla luce in conseguenza degli scavi che interessarono alcuni quartieri più centrali con l'avvio di  nuovi progetti urbanistici (Esquilino) e più tardi con la messa in opera dei lavori per la costruzione della metropolitana di Roma. Ogni sala rispetta una sua omogeneità tematica: la sala colonne privilegia l’arte funeraria e gli arredi di lusso, la sala macchine con i suoi arredi liberty si concentra sull’area monumentale del centro cittadino (tra cui la ricostruzione del frontone del tempio di Apollo Sosiano), mentre la sala caldaie ospita i ritrovamenti degli sfarzosissimi Horti privati Romani, i giardini delle sontuose residenze imperiali.
L’esposizione corre in due direzioni parallele, creando un interesse bipolare che rimbalza dall’attrattiva verso una caldaia per generazione di vapore all’approfondimento storico sulla Roma Repubblicana. Motori diesel e turbine si fondono all’arte classica con grande suggestione, catapultandoci in un atmosfera da fantascienza letteraria di inizio secolo alla H.G. Wells, dove come in conseguenza un guazzabuglio temporale frutto di qualche improbabile e scalcinata macchina del tempo, antiche statue romane si ritrovano scaraventate dal passato tra carcasse di robot e dimenticati macchinari industriali.

In questo contrasto emerge ancora di più la bellezza di reperti archeologici che in una più classica ed asettica sala espositiva sarebbero passati inosservati tra uno sbadiglio e l’altro in un crescendo di rottura di palle. Sguardi pensosi di giovani ninfe e scene mitologiche si alternano sullo sfondo apocalittico di un progresso già desueto, in una specie di tempo zero dove ogni cosa appartiene al passato senza alcuna distinzione cronologica.
A completare il quadro si staglia oltre le finestre la sagoma del gazometro, assurto a contraltare metropolitano in uno skyline magnificamente ridondante di cupole rinascimentali. L’ideale sarebbe muoversi tra queste architetture di inizio secolo durante una di quelle mattinate in cui i visitatori si contano sulle dita di una mano, quando dall'alto della scalinata che affaccia sull’imponente sala macchine, in un trionfo di architetture liberty, potrete esaltarvi in un anacronistico  delirio di onnipotenza alla vista "di macchine e  di dei", tutti indifferentemente ai vostri piedi.
E dominando questo confronto tra passati avrete infine colto un segnale incoraggiante del futuro (almeno quello culturale) di questa città.

mercoledì 4 gennaio 2012

Dice che a Mosca...

Tra le decine di cupole che contraddistinguono il sempre splendido e pressoché inalterato skyline Romano da qualche secolo a questa parte, con la coattissima eccezione del grattacielo Eurosky in zona EUR, abbiamo assistito negli ultimi anni alla comparsa di nuove forme architettoniche, frutto di quel lento processo di arricchimento culturale che nel corso del tempo ha positivamente coinvolto la nostra città.


Le cupole dorate della Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, chiesa ortodossa di Roma dipendente dal patriarcato di Mosca, rappresentano certamente uno degli esempi più interessanti: un autentico angolo di Russia a poche centinaia di metri dal celebre cuppolone di S.Pietro. La chiesa è stata inaugurata ufficialmente nel 2009 all’interno del parco di Villa Abamelek, già sede dell’ambasciata Russa nel territorio Italiano, dopo circa un secolo di richieste e tentativi, effettuati in più occasioni da parte della comunità ortodossa locale: più o meno la stessa tempistica necessaria ad ottenere un visto di ingresso per la Russia e dunque perfettamente in sintonia con l’agilità burocratica che, secondo un certo stereotipo politicamente (neanche troppo) scorretto, contraddistingue i nostri amici Sovietici. Dopo aver percorso una tortuosa stradina residenziale a ridosso dei binari della stazione di S.Pietro, in un itinerario che farebbe impazzire anche i navigatori satellitari di ultimissima generazione, ci si scontra improvvisamente con il candore di una struttura dai contorni fiabeschi, dove il bianco e il verde acqua si combinano tra riflessi dorati, sorprendendo il visitatore più sprovveduto con l’impressione di essere finito al cospetto di un’eccentrica magione di qualche stravagante personaggio con manie di grandezza.

L’impatto ad effetto è amplificato dal contrasto con le palazzine anni sessanta che premono ai confini del complesso religioso, quasi a rivendicare la loro preesistenza nei confronti di questo nuovo arrivato, colpevole di accentuarne al massimo la loro mediocre anonimità. Per chiunque abbia avuto a che fare con il paese in questione o quantomeno con il suo consolato, traumatizzato dall’esperienza di una burocrazia infernale che si esprime in un incubo di cellulosa, divieti e paradossi logistici di ogni tipo, il vero miracolo di Santa Caterina verrà riconosciuto nell’assoluta facilità di accesso, e questo nonostante l'edificio si trovi compreso nel territorio dell’ambasciata Russa. A completare il quadro, il gentilissimo personale del segretariato al piano terra, si renderà immediatamente disponibile per una visita al di fuori dell’orario delle funzioni, inviandovi una persona di fiducia ad aprire le porte. Nel nostro caso siamo stati addirittura premiati con l’effetto speciale dell’apparizione di una contadina Russa del secolo scorso, che come materializzatasi dalle nebbie delle steppe Sovietiche col suo fazzoletto nero legato in testa, ci ha silenziosamente condotto alla scoperta dell’interno della chiesa.

L’interno è molto semplice e luminoso. Colpiscono i dettagli di un architettura sacra a cui non siamo abituati e che racconta una religiosità affine, ma allo stesso tempo diversa dal fin troppo familiare Cattolicesimo Romano: innazitutto l’assenza completa di sculture, considerate in passato come uno scomodo retaggio del paganesimo, mentre l’espressione artistica più evidente è quella delle icone, autentici oggetti sacri legati a rigidissimi canoni di rappresentazione, che ben lontani da quel mondo di committenze mercenarie e lotte fra artisti primedonne che contraddistinse l’irripetibile produzione artistico religiosa del Cattolicesimo dal Rinascimento in poi, diventano veri e propri simboli in cui "leggere" l’essenza del divino ( le icone si scrivono, non si dipingono!).

Le influenze Orientali, espresse al massimo nel portale dorato dell’iconostasi (la barriera che separa la navata dal santuario) ci riportano alle origini Bizantine di una religione che nel 1054 prese ufficialmente la sua strada per colpa di una congiunzione grammaticale di troppo. Se infatti volessimo semplificare in maniera selvaggia le ragioni del grande scisma tra la chiesa d’Oriente e la chiesa d’Occidente, è sufficiente ricordare l’episodio della famosa aggiunta nel “Credo” della formula filioque (E dal figlio), infilata a tradimento dalla chiesa Romana nell’originaria professione di fede, per contrastare le cosidette eresie ariane del tempo che tendevano a negare la divinità del Cristo. Fu così che, mentre per gli ortodossi lo spirito santo rimase creato unicamente dal padre, la chiesa cattolica, sotto la spinta decisiva di Carlo Magno, allargò i poteri a tutti i membri della sacra famiglia con il clamoroso “e dal figlio”, scatenando tutto il casino di cui sopra con la conseguente separazione delle due confessioni. Avremmo voluto approfondire tutto questo, ma l’impossibilità di comunicazione con l'interlocutrice autoctona, dovuta principalmente alla nostra conoscenza pressochè nulla della lingua Russa, ha impedito ogni sorta di interazione, riportandoci nuovamente a riflettere sull’affascinante (e a tratti inquietante) questione di come taluni membri di comunità straniere, riescano a sopravvivere quotidianamente senza il bisogno di conoscere una singola parola della lingua locale.

Una volta tornati all’esterno vale la pena salire la scalinata che sale ai confini di Villa Abamelek per ammirare la contrapposizione fra le due cupole, antagoniste e vicine, in un sorprendente panorama che solo pochissimi Romani conoscono. Il verde acqua del tetto di Santa Caterina si perde nell’azzurro del cielo romano, in un contrasto talmente netto da farla assomigliare ad una di quelle sfere di vetro con la neve finta appoggiata li per caso, e quasi viene voglia di girarla per poter assistere all'illusione di un suggestivo inverno Moscovita. Prima di tornare verso l’uscita non potrete resistere alla tentazione di arrampicarvi sulla collinetta laterale, dove una croce ortodossa, decisamente più tecnica della croce cattolica nel suo sfoggio di ben tre bracci orizzontali, si staglia sul panorama Capitolino a baluardo di un’identità religiosa, che dopo lungo tempo ha finalmente trovato il suo posto sotto il cielo di una Roma (un po’ più) aperta.
Con buona pace del padre...e del figlio!