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venerdì 1 giugno 2012

Dice che anche il duce saltava la palestra

Nel caso in cui aveste avventatamente investito un capitale per il vostro abbonamento annuale in palestra, la cui frequentazione si fosse definitivamente risolta in un paio di ingressi scarsi (di cui il secondo esclusivamente per l'uso dell'idromassaggio), potrebbe consolarvi sapere che "qualcuno" di tristemente noto si comportò persino peggio. All'interno del Palazzo delle Terme al Foro Italico scopriremo infatti la cosiddetta palestra del duce, capolavoro di architettura razionalista dell'allora giovanissimo Luigi Moretti, destinata agli allenamenti privati di Mussolini, il quale decise infine di non metterci piede motivando la sua latitanza dagli attrezzi con un populistico disdegno verso l'eccessiva lussuosità del luogo (una scusa che riutilizzerei volentieri se non fosse quantomeno poco credibile riferita a quella specie di scantinato di periferia con le docce scardinate dalla parete che non frequento ormai da tempo immemore). Purtroppo, quello che possiamo vedere attualmente è quanto rimane di una "devastazione ristrutturale" operata dalla fine degli anni Settanta che, stravolgendo completamente l'ambiente originario, ha trasformato una meravigliosa palestra risplendente di marmi di Carrara in una pacchianissima sala conferenze quasi completamente rivestita di orribile moquette rossa.

Tutto questo, e lo stato di incuria in cui versa il resto del Foro Italico, è certamente frutto di quella relativa vicinanza temporale ad eventi funesti per la nostra democrazia che, in una sorta di damnatio memoriae collettiva, hanno forzatamente spinto anche la produzione artistica del periodo in un dimenticatoio punitivo. Vi invito quindi ad abbandonare ogni pregiudizio e, con la stessa obiettività estetica con la quale ammirate estasiati e sorridenti l'arena di un Colosseo teatro di indicibili massacri, ad apprezzare quella che può essere considerata l'ultima vera espressione artistica di valore nella storia dell'architettura Italiana. Il Foro Italico, originariamente battezzato come Foro di Mussolini in un megalomane riferimento ai Fori Imperiali dell'antica Roma, a differenza degli illustri predecessori urbanistici destinati al commercio, alla religione e alla politica, venne progettato come centro di formazione sportiva e ( ovviamente ) ideologica. Il Palazzo delle Terme, con la sua piscina olimpionica di 50 metri, opera del Costantini, si inserisce dunque in questo parallelismo imperiale con chiari rimandi architettonici alle terme romane, in particolare nell'uso di un'imponente decorazione a mosaico realizzata da Giulio Rossi. Un ascensore privato collegava direttamente la piscina con la palestra, ambiente che nel nostro caso raggiungeremo in veste di comuni mortali attraverso una più classica rampa di scale.

Una volta entrati ci troveremo al cospetto di una semplice e piuttosto deludente sala conferenze, tra le altre cose dall'aria vecchiotta e polverosa, apparentemente distante anni luce da quel tempio per la cura del corpo elegante e sofisticato che il giovane architetto Luigi Moretti fu chiamato a realizzare. Solamente attraverso un processo di decostruzione mentale, con il quale toglieremo pezzo dopo pezzo tutto il brutto impadronitosi del luogo (partendo ovviamente da quell'orrenda moquette rosso-sanguinaccio, che nella scellerata mente di qualcuno avrebbe dovuto fare pendant con gli esterni in rosso pompeiano degli edifici del Foro) comprenderemo quale moderno capolavoro architettonico si trovi celato davanti ai nostri occhi.

Un  luogo metafisico originato da contrasti di luce, linee estremamente rette, elementi sospesi e piccoli dettagli di rottura, che come il più studiato dei difetti in un perfetto contesto somatico (il classico dente storto sul viso armonioso dell'attricetta bona), altro non fanno che dare vitalità ad una compassata perfezione: ed è così che le pareti marmoree dalle rigide lastre perfettamente lucide definiscono la sala curvando inaspettatamente agli angoli, mentre la "trasgressiva" presenza di una scala elicoidale sul fondo spezza impunemente la rigorosa linearità del contesto (Sgarbi, esci da questo corpo!). Persino la scelta e il taglio dei marmi che rivestono le pareti non è casuale, con le venature che si compongono in un preciso disegno dall'andamento speculare. A questo punto dovremmo scardinare le poltrone e sfondare il controsoffitto per ritrovare il perfetto equilibrio originario della zona destinata all'attività fisica vera e propria, dove in sequenza sospesa trovavano posto i singoli attrezzi necessari all'allenamento (il quadro, una fune, la pertica, oggi purtroppo assenti).

Sul fondo della sala, alle spalle di un tramezzo marmoreo valorizzato dalla presenza di una delle due statue di bronzo dorato realizzate da Silvio Canevari, troviamo la zona relax disposta su due livelli, collegati fra loro dalla famosa scala elicoidale, elemento catalizzatore di tutte le linee rette che come in una spirale animata si avvitano verso l'alto perdendosi in un apparente movimento continuo (e se non fosse Sgarbi, ma quello che ho fumato?). Nel piano inferiore, tra mosaici a forte connotazione simbolica del Severini ed elegantissimi portoni neri con inserti marmorei, trovavano posto il bagno, lo spogliatoio e la zona massaggi, mentre al livello superiore l'intera zona era riservata alla "cura del sole artificiale": un solarium ante-litteram, destinato alla produzione in via sperimentale del primo tiranno lampadato della storia. Potremmo continuare per ore a scoprire ogni singolo dettaglio di un ambiente dove nulla è stato lasciato al caso, ma il consiglio che vi do è quello di prepararvi anticipatamente su quello che era il luogo prima della sua "rancorosa espoliazione", per poi infine ricreare e sperimentare sul posto la suggestione di un'architettura maledettamente perfetta ed estremamente moderna.

In prossimità dell'uscita passeremo nuovamente sopra  il mosaico di ingresso di Gino Severini, raffigurante Icaro che cade a testa in giù come conseguenza dell'ardito gesto di essersi avvicinato nel suo volo troppo vicino alla luce del sole (il sole come riferimento al duce): "dux mea lux", recitava il celebre slogan fascista...e guardando la scala di fronte viene spontaneo pensare unicamente alla squallida luce artificiale di quell'antico solarium. E alla fine tutto torna.

E' possibile visitare la palestra del duce esclusivamente in occasione di visite guidate speciali organizzate da associazioni culturali (cercate su internet e vedrete che prima o poi qualcosa esce fuori ;) )
Infine vi ho già detto che è uscito il libro? (solo una milionata di volte). Insomma se vi piace il blog e non sapete che cosa regalare agli amici allora andate sul sicuro e cliccate su http://www.romafuoripista.com/, dove oltre alla possibilità di acquistare "Roma Fuoripista" on line troverete anche la lista delle librerie che lo spacciano a Roma.

GRAZIE ALL'AMICO MARCO PER LE FOTO!

lunedì 16 gennaio 2012

Dice che il tempio di Apollo sta dietro la caldaia

Accade sempre più spesso che il Romano di ritorno da un week end in una qualsiasi capitale Europea si entusiasmi magnificando l’avanguardia della produzione artistica di città come Londra, Berlino o Barcellona, esaltandosi in impietosi confronti con l’idea di una fossilizzata offerta culturale nostrana, purtroppo il più delle volte identificata con il ricordo sbiadito dell’ultima gita ai musei vaticani ai tempi della quinta elementare.
In realtà se sperimentalismo (odioso termine di cui si abusa per dare un'aria sofisticata ed insopportabilmente radical chic a qualsiasi forma di creatività) è la parola d’ordine che tanto invidiamo ai nostri cugini oltre confine, il riuscitissimo connubio tra archeologia classica e archeologia industriale che ci attende nell’ex centrale elettrica di Montemartini, potrebbe sorprendervi con palate di questa maledettissima "avanguardia sperimentale" da capitale Europea, che almeno in questo caso può considerarsi a pieno diritto come intrinsecamente legata alla storia di Roma e del suo territorio.
Ci troviamo nella zona di Ostiense-Marconi, la più antica area di industrializzazione della capitale, che in virtù della sua posizione strategica tra il fiume Tevere, la stazione e l’allora importantissimo asse viario dell’ Ostiense (più un paio di cornettari niente male), vide svilupparsi nel raggio di poche centinaia di metri imponenti strutture portuali, i mercati generali, l’officina del gas e la centrale elettrica protagonista di questo itinerario. Attualmente all’ombra del gazometro è in corso un interessantissimo processo di riqualificazione, dove tra locali alla moda, riconversione di vecchi edifici industriali in spazi espositivi, risse da sabato sera ed espressioni murali di arte urbana, continua a prendere forma in modo sempre più definito quell’ambiente metropolitano tanto caro ai registi contemporanei, che da Ozpetek in poi hanno colto lo spirito underground di questo quartiere come perfetta ambientazione per storie neorealiste di giovani sfigati alternativi.


E’ in questo contesto che scopriamo il museo della centrale termoelettrica di Montemartini, primo impianto pubblico destinato alla produzione di energia elettrica, inaugurato nel 1912 e intitolato a Giovanni Montemartini, assessore al tecnologico deceduto durante una seduta del consiglio comunale nel 1913 (ebbene sì, può succedere anche questo). La centrale venne abbandonata dopo circa mezzo secolo di attività, con la conseguente dismissione di impianti e macchinari e un progressivo abbandono degli ambienti.
A seguito di un riuscitissimo processo di recupero della struttura e delle macchine portato avanti dall’ACEA, la grande occasione di rinascita si presenta nel 1997, quando a causa di un intervento di ristrutturazione all’interno del complesso dei musei Capitolini, causato da un problema di infiltrazioni d’acqua e umidità (seccatura che evidentemente esula dai confini dei cessi di casa nostra), molte sculture vennero trasferite temporaneamente negli spazi dell’ex centrale elettrica.  Questa geniale ricollocazione fu il pretesto per l'allestimento di una mostra intitolata “le macchine e gli dei”, che oltre ad essere il titolo perfetto per descrivere con registro poetico un’ordinaria giornata di imprecazioni ad un ingorgo stradale cittadino, rappresenta alla perfezione il suggestivo accostamento di due mondi così diversi tra loro e allo stesso modo affascinanti.


Il successo dell’idea trasformò la mostra in un’esposizione permanente, la quale venne arricchita con "avanzi di magazzino" e più recenti ritrovamenti archeologici degli inizi del secolo, quando nel periodo successivo  all’unità d’Italia nuovi tesori vennero alla luce in conseguenza degli scavi che interessarono alcuni quartieri più centrali con l'avvio di  nuovi progetti urbanistici (Esquilino) e più tardi con la messa in opera dei lavori per la costruzione della metropolitana di Roma. Ogni sala rispetta una sua omogeneità tematica: la sala colonne privilegia l’arte funeraria e gli arredi di lusso, la sala macchine con i suoi arredi liberty si concentra sull’area monumentale del centro cittadino (tra cui la ricostruzione del frontone del tempio di Apollo Sosiano), mentre la sala caldaie ospita i ritrovamenti degli sfarzosissimi Horti privati Romani, i giardini delle sontuose residenze imperiali.
L’esposizione corre in due direzioni parallele, creando un interesse bipolare che rimbalza dall’attrattiva verso una caldaia per generazione di vapore all’approfondimento storico sulla Roma Repubblicana. Motori diesel e turbine si fondono all’arte classica con grande suggestione, catapultandoci in un atmosfera da fantascienza letteraria di inizio secolo alla H.G. Wells, dove come in conseguenza un guazzabuglio temporale frutto di qualche improbabile e scalcinata macchina del tempo, antiche statue romane si ritrovano scaraventate dal passato tra carcasse di robot e dimenticati macchinari industriali.

In questo contrasto emerge ancora di più la bellezza di reperti archeologici che in una più classica ed asettica sala espositiva sarebbero passati inosservati tra uno sbadiglio e l’altro in un crescendo di rottura di palle. Sguardi pensosi di giovani ninfe e scene mitologiche si alternano sullo sfondo apocalittico di un progresso già desueto, in una specie di tempo zero dove ogni cosa appartiene al passato senza alcuna distinzione cronologica.
A completare il quadro si staglia oltre le finestre la sagoma del gazometro, assurto a contraltare metropolitano in uno skyline magnificamente ridondante di cupole rinascimentali. L’ideale sarebbe muoversi tra queste architetture di inizio secolo durante una di quelle mattinate in cui i visitatori si contano sulle dita di una mano, quando dall'alto della scalinata che affaccia sull’imponente sala macchine, in un trionfo di architetture liberty, potrete esaltarvi in un anacronistico  delirio di onnipotenza alla vista "di macchine e  di dei", tutti indifferentemente ai vostri piedi.
E dominando questo confronto tra passati avrete infine colto un segnale incoraggiante del futuro (almeno quello culturale) di questa città.

mercoledì 31 agosto 2011

Dice che è liberty, anzi è gotico, anzi è fantasy. Anzi no! Dice che è Coppedè!

Nella placida atmosfera residenziale del quartiere Trieste, a due passi dal celebre Piper, può capitare di ritrovarsi improvvisamente catapultati nell'atmosfera metafisica di un incrocio di strade, dove le regole architettoniche e gli stili più disparati sembrano fondersi nell'illogicità apparente di una vera e propria scenografia fuori dal tempo. Ci troviamo nel cuore del cosiddetto quartiere Coppedè, dal nome del suo progettista e realizzatore Gino Coppedè. Come in tutte le archittetture sui generis che si rispettino, non poteva mancare anche in questo caso l'inevitabile leggenda metropolitana del misterioso suicidio del "folle" architetto, scomparso (guarda caso) "in odore" di satanismo. La versione ufficiale propende in realtà per una meno suggestiva cancrena polmonare, versione che rispetto alla leggenda perde però quel suo alone di morbosità, che nel tempo ha dato adito alle tante affascinanti congetture legate all'arcana simbologia rappresentata ed espressa sulle facciate dei suoi palazzi. Il progetto venne commissionato nel 1915 ad un già conosciuto e apprezzatissimo Coppedè dalla Società Anonima Edilizia (da non confondersi con il genere "edili anonimi" del tipo  "ciao, mi chiamo Roberto Carlino e sono un palazzinaro"), e venne da lui personalmente seguito fino alla già discussa morte avvenuta nel 1927.

L'ingresso più scenografico è indubbiamente dal lato di via Tagliamento, dove l' imponente arco (richiamo all'antichità classica e ai suoi archi di trionfo), che unisce fra loro i cosiddetti palazzi degli ambasciatori, vi accoglierà incorniciando questo sorprendente paesaggio architettonico come ad indicare una simbolica via di passaggio verso un tempo sospeso. Il maestoso lampadario in ferro battuto, complemento d'arredo piuttosto insolito per una collocazione in esterni, ci suggerisce immediatamente che non ci troviamo in una strada qualunque. Alla destra dell'arco verrete accolti da un'edicola sacra dove la classica madonnina sembra protendere un Gesù bambino versione rugbysta, rappresentato in fase di placcaggio per atterrare al suo ingresso l'incauto visitatore. Colpisce immediatamente la straordinaria ricchezza di decorazioni, simboli e fregi, che nel caso specifico dei palazzi degli ambasciatori si distinguono per la loro peculiare asimmetricità. Il risultato complessivo risulta comunque stranamente armonioso e piacevole alla vista. Al centro di Piazza Mincio, una volta passato l'arco,  troneggia la cosiddetta fontana delle rane, che con un notevole sforzo intuitivo potrete arrivare ad immaginare come caratterizzata dalla presenza di rane (di pietra ovviamente). Tutto intorno si dispiega il delirio architettonico e stilistico:


L'ingresso del palazzo al civico 2 è una fedele rappresentazione della scenografia di "Cabiria", kolossal cinematografico Italiano del cinema muto (1915) dagli imponenti allestimenti scenici, a cui persino Gabriele D'Annunzio contribuì in veste di sceneggiatore.
Lo spirito visionario del film, frutto delle allucinazioni del regista Giovanni Pastrone, meritò evidentemente la concretezza di un tale omaggio dal suo degno estimatore Coppedè. Esattamente di fronte, dall'altro lato della fontana, si erge il cosiddetto palazzo del ragno. L'origine del nome è chiaramente deducibile dall'inquietante raffigurazione di un ragno che sovrasta il portone, che se proprio volessimo andare al di là del suo essere aracnide, potremmo dotarlo di una miriade di significati simbolici: a partire dalla Grande Madre che tesse il destino degli umani, fino ad un più terra terra "ragno porta guadagno",  ributtandoci così nuovamente a capofitto nella misteriosa indecifrabilità della simbologia del nostro Coppedè.

Potremmo completare il minestrone aggiungendo la giusta dose di suggestioni massoniche e templari (ovviamente non manca la raffigurazione di una coppa al terzo piano di uno dei palazzi degli ambasciatori, subito identificata come il santo Graal), che nell'era post-codice Da Vinci si adattano perfettamente a qualsiasi argomento e situazione. Per non farci mancare nulla, come sobria par condicio architettonica, dopo i richiami alla Romanità classica dell'arco di ingresso possiamo infine notare come l'intera facciata del palazzo del ragno rappresenti un azzardato richiamo all'architettura Assiro Babilonese. E a questo punto il "mei coglioni" ci sta tutto! Ma la vera regina della piazza è il complesso dei cosiddetti villini delle fate.
Chi altri se non il nostro Coppedè riuscirebbe ad accostare decorazioni murali raffiguranti Dante e Petrarca, processioni  di monaci, vedute di Firenze, falconieri, donne in peplo, il leone Veneziano di S. Marco, segni zodiacali, la lupa di Romolo e Remo e frasi latine in una vera e propria orgia decorativa (praticamente manca solo l'effigie di Che Guevara e il logo della Apple) sulle facciate di un unico complesso architettonico? Il tutto allo scopo di abbellire un fiabesco castelletto Medievale, dove tra logge e torrette, gli elementi del fantasy e del manierismo si fondono alle allora attualissime suggestioni del liberty e dell'art decò.

In ogni caso l'elemento che realmente capovolge tutte le regole della fisica e della razionalità è l'inaspettata disponibilità dei portieri, che al nostro timido incedere all'interno degli androni armati di macchina fotografica, quando nelle nostre orecchie già risuona l'eco di un "' 'ndo cazzo vai è proprietà privata", ci accolgono con un sorriso gentile per lasciarci assaporare questo squarcio di atmosfere anni '30, dove, perlomeno negli interni, il liberty e l'art decò la fanno da padrone con inaspettata coerenza.
Non sorprende che Dario Argento, altro visionario maestro del cinema Italiano, abbia scelto l'atmosfera gotica e surreale di questo quartiere per l'ambientazione di alcune scene di due celebri film: "L'uccello dalle piume di cristallo" e "Inferno". In particolare nella seconda pellicola, autentico delirio narrativo, si rimarca l'accostamento simbolico tra palazzi misteriosi e occulto, e proprio uno degli edifici Coppedè di Piazza Mincio viene scelto come residenza Romana della "Mater lacrimorum", una delle tre temibili madri degli inferi dislocate nelle loro residenze di Friburgo, New York e appunto Roma (lo stesso palazzo era stato in precedenza utilizzato anche per il film "The Omen, il presagio"!).
Insomma le suggestioni non mancano di certo e l'intera piazza e le sue strade si presentano come un libro aperto a mille interpretazioni: dalla fiaba, al romanzo gotico, passando per il polpettone storico di "Cabiria" e chiudendo, come sempre, con l'horror e il mistero. Perchè alla fine ciò che rende affascinante questo angolo di Roma è  proprio quella sottile inquietudine che accompagna la sua indecifrabilità, il frutto di un genio che con la sua opera ha creato uno stile che, in suo onore e per ovvie impossibilità classificative, è riconosciuto ancora oggi con il nome di "stile Coppedè".


mercoledì 20 luglio 2011

Dice che alla Magliana c'è una chiesa lounge

Ho sempre nutrito forti dubbi rispetto ai risultati estetici delle chiese moderne, generalmente in bilico fra l'anonimo e l'orrendo. Se invece parliamo della Chiesa del Santo Volto di Gesù, nonostante mi senta in dovere di lasciare in sospeso il mio giudizio personale, posso tranquillamente ammettere che al concetto di "stile moderno" si accompagna eccezionalmente in questo caso anche quello di espressione artistica, per quanto nei limiti della nostra epoca e con risultati a prima vista più consoni a un museo, un auditorium o un lounge bar.

Al progetto di due architetti (Piero Sartogo e Nathalie Grenon) hanno infatti partecipato ben otto artisti di prestigio, in un ritorno a quella commistione tra funzionalità architettonica e contributo artistico che ormai da secoli mancava nella realizzazione dei luoghi di culto. Vi invito quindi ad una passeggiata alla Magliana nuova per un'escalation di reazioni che, partendo dall'istintivo rifiuto, e passando per l'ironia e la curiosità, potrebbe addirittura concludersi con l'apprezzamento e l'ammirazione verso questo risultato di sperimentazione ibrida tra chiesa e galleria d'arte.
Per quanto ci si sforzi di dichiarare chiavi di lettura a sfondo religioso per spiegare alcune scelte prettamente artistiche (il corridoio esterno a V che si apre come in un abbraccio verso il figlio di dio, la vetrata circolare che riprende la forme del cosmo illuminato di luce mistica, "queshto Crishto che si immola" e così via ) risulta abbastanza evidente come tutta questa pantomima abbia l'unico scopo autoreferenziale di produrre arte ad uso e consumo di un pubblico laico che sappia apprezzare l'indubbio valore di un'opera moderna.
E in effetti per chi si approccerà con la curiosità del visitatore del MACRO, le proprie aspettative verranno sicuramente soddisfatte: pareti blu elettriche, sedili minimal, cristi serigrafati e un interessantissima via crucis da gustarsi come fosse un esposizione monografica permanente di opere contemporanee su formelle di ceramica smaltata.

I confessionali, segnalati da una targa in stile ufficio amministrativo, vi accoglieranno in due minuscoli ambienti blu elettrico dove un'inquietante riproduzione fotografica serigrafata del volto di Cristo, assisterà allo sciorinamento delle vostre malefatte dall'alto di un oblò. Dopo esservi affacciati all'interno sono certo che anche voi proverete l'impulso irrefrenabile di entrare a confessare tutti i vostri peccati con in sottofondo un pezzo dei Massive Attack. Dispiace pensare che le signore del quartiere, dopo essersi raccolte in preghiera in questa atmosfera lounge, debbano uscire a comprare le paste della domenica nel ben più anonimo bar pasticceria all'angolo, e quasi verrebbe voglia di caricarsele tutte in macchina e dare continuità alla loro esperienza con un aperitivo al Singita di Fregene.

Appena fuori dai confessionali, in opposizione all'immensa vetrata circolare che illumina a giorno l'intera aula liturgica, noterete il curioso dipinto murale di Marco Tirelli, intitolato "luci dalle tenebre" (a proposito! Non ho ancora restituito a Blockbuster l'ultimo capitolo della saga di Star Trek) raffigurante la terra circondata dalle tenebre originarie, a loro volta immerse nel blu profondo dell'abisso cosmico. In definitiva una serie di cerchi concentrici, il cui risultato finale da vita a quello che sembrerebbe essere il logo perfetto per un' impresa di costruzioni aerospaziali.

Decisamente interessante è la già menzionata carrellata di ceramiche smaltate realizzate da Mimmo Paladino per una personalissima reinterpretazione della Via Crucis. Per quelli che come me non avessero familiarità con i concetti di arte moderna e di stile naif contemporaneo, confrontare la lettura tradizionale di ogni episodio e tappa della via crucis con questa rilettura decisamente più libera, può trasformarsi in uno stimolante e divertente approccio creativo (sono convinto che ci sia creatività anche nella fruizione passiva dell'arte) verso uno stile generalmente poco accessibile, di cui anche da profani riuscirete ad apprezzarne la sorprendente vitalità ed inventiva. 
La grande vetrata circolare taglia a metà la semicupola creando un confine netto tra interno e esterno, e riprendendo quindi quel contrasto e commistione fra luci e ombre che ricorre in tutta la struttura. Le linee essenziali delle panche, lungi dal rendere fredda e distante l'atmosfera del luogo, ci riportano in realtà alla familiarità, al calore e alla cocente incazzatura di un pomeriggio all'Ikea. Dell'esterno vi colpiranno l'effetto moresco della semicupola appoggiata direttamente sull'edificio e una cancellata dall'andamento "tribale" (personalissima quanto inappropriata definizione che voglio anarchicamente concerdermi). In ogni caso sono certo che ognuno di voi scoprirà il proprio dettaglio personale, che vi incuriosirà e vi farà sorridere per quell'eccesso di audacia e innovazione destinati con azzardo e creatività a questa chiesa di quartiere popolare.

Per quanto mi riguarda ho trovato divertente un cartello posto nelle adiacenze dell'area esterna destinata ai bambini "la parrocchia declina ogni responsabilità per eventuali incidenti che ACCADONO nell'area giochi". Dichiarazione che riporta alla mente le parole di Gesù nel nuovo testamento "lasciate che i bambini vengano a me"..e a cui in questo caso verrebbe da aggiungere "se poi se fanno male cazzi loro". Indubbiamente un pensiero profondamente moderno.
La Chiesa del Santo Volto di Gesù si trova in Via Caprese 1 all'angolo con Via della Magliana nuova ed è generalmente aperta tra le 8:00 e le 18:30. Per andare sul sicuro meglio andare il sabato o la domenica mattina dopo la messa.
Fa parte del complesso anche la canonica, interessante in particolare per le scelte cromatiche degli interni, la quale rimane separata dalla chiesa attraverso l'efficace scelta architettonica di un corridoio a V.