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sabato 4 febbraio 2012

Dice che a Pulcinella "nun se tirano li sassi"

Con i film di animazione e i videogiochi ormai sul punto di oltrepassare i confini della terza dimensione, potremmo legittimamente chiederci a chi mai verrebbe in mente di portare i propri figli ad assistere allo spettacolo di un teatrino di burattini. E se persino i trentenni della mia generazione avrebbero a suo tempo incassato l'onta del marchio di sfigato per essersi ritrovati nei panni di  Arlecchino a Carnevale, oggi che per essere all'altezza della situazione bisogna come minimo assumere le sembianze di Jack Sparrow, Gormiti e Winx (queste ultime spodestatrici delle care vecchie fatine a colpi di trucco pesante e sex appeal), quale bambino potrebbe ancora subire il fascino di una vecchia  maschera dell'antica commedia dell'arte come Pulcinella? Per trovare una risposta a tali inquietanti interrogativi non dovrete fare altro che recarvi sulla terrazza del Gianicolo un sabato o domenica mattina e attendere che il miracolo abbia inizio. E' infatti proprio sull'ottavo colle di Roma (qualcuno cerca sempre di infilarlo insieme a Cucciolo o Eolo nell'elenco dei celebri sette colli, quando non direttamente in quello dei sette nani) che a distanza di cinquantanni si rinnova ogni fine settimana la magia dello spettacolo dei burattini. Il tutto grazie all’opera e alla dedizione dell’esimio Cavaliere della Repubblica Carlo Piantadosi che, nascosto all’interno del proprio “castello”, riporta in vita le avventure della maschera di Pulcinella, le cui origini sembrano addirittura perdersi nel passato dell’antica Roma e delle sue farse popolari.

In realtà la maschera di Pulcinella fece la sua prima comparsa nella Napoli della seconda metà del cinquecento ad opera dell'attore Silvio Fiorillo, che diede così vita alla “macchietta” del servo irriverente pronto a sfidare sciocchi e potenti in equilibrio tra spavalderia, malafede e una buona dose di scaltra idiozia. Dalla commedia dell'arte al teatro dei burattini il passo fu breve, e Pulcinella si trasformò ben presto  nell’antieroe dalla vocina stridula che, dall’alto del suo piccolo palco, tra i più assurdi e improbabili antagonisti, prendeva allegramente a bastonate la personificazione delle nostre paure più ataviche (il diavolo, la morte e..il brigadiere), con quella leggerezza e l’atteggiamento sornione tipico del Napoletano che comunque alla fine "se ne fotte". Dialoghi e scenette rivelano un umorismo e un ritmo di altri tempi, con l’unica morale di un divertimento fine a se stesso e la solennità dei grandi temi come “amore e morte”  ridotti ad una burla incomprensibile e allo stesso tempo affascinante, in cui solo il classico finale a suon di catartiche mazzate diventa recepibile per un pubblico di bambini che finalmente ride e batte le mani divertito.
la storia di Carlo Piantadosi è la storia di una passione e di una tradizione familiare che parte dal padre e coinvolge la moglie, sempre presente al suo fianco e non di rado occasione per un metateatro parallelo di battibecchi di coppia, con la possibilità di un epilogo che degeneri nella piena letteralità dell'espressione "chiudere baracca e burattini" alla faccia dei bimbi in attesa, così come solo ai veri artisti è permesso di fare. E il Cavalier Piantadosi un vero artista lo è sicuramente.

L’unica concessione alla modernità è la presenza delle nuove celebrità nel banchetto allestito per la vendita dei burattini, dove tra un Bart Simpson e un’onnipresente Hello Kitty (alla quale manca ormai solo la sponsorship per le armi di distruzione di massa), i vecchi volti della commedia dell’arte rimangono decisamente in netta minoranza. Ai nuovi intrusi non è comunque concesso il privilegio di partecipare allo spettacolo, che rimane per consuetudine appannaggio degli “attori” più tradizionali (per quanto un paio di bastonate ben assestate ad Hello Kitty mi vedrebbero d'accordo nel fare una piccola eccezione al rispetto della tradizione). Anche le teste dei burattini in vendita non sono più di legno come un tempo, ma in questo caso il ricordo dell’abitudine in voga tra i bambini di utilizzarle come oggetto contundente e quello del rumore del legno al contatto con la mia testa prevalgono sulla nostalgia, facendo apparire il cambiamento come una rassicurante evoluzione. Nel castello di Pulcinella si alternano diversi siparietti tra Pulcinella stesso e i più stravaganti personaggi: il brigadiere, il diavolo, il professore e l’amata Gabriella, che doppiata dalla stessa voce maschile degli altri, sortisce l’imbarazzante effetto di un risultato piuttosto ambiguo. Denominatore comune di ogni duetto è il più volte menzionato finale “a mazzate”, mentre uno storico cartello affisso sul baracchino invita i bambini a non tirare i sassi, nel caso venissero anche loro fomentati dall’esplosione di violenza Pulcinellesca.

Alla fine dello spettacolo Pulcinella cala la cesta sulle note di un inquietante canzoncina (“almeno un euro” recita il cartello), i bambini si avvicinano intimoriti a lasciare l’obolo e la magia finisce. Evito di impelagarmi in riflessioni filosofiche sullo spazio-tempo suggerite dall’esperienza di aver assistito nello stesso luogo all’identica rappresentazione di trentanni prima e, con un misto di nostalgia e riconoscenza, vi suggerisco a questo punto di godere dell’impareggiabile spettacolo offerto dalla vista delle terrazze del Gianicolo, ancora più bella nelle mattine di sole invernali, quando si scorgono nitidi i profili delle montagne e persino il carcere di Regina Coeli sembra bearsi del suo contesto.  E proprio in questo splendido scenario, bizzarro e tragicomico, dove da oltre un secolo lo sparo di un cannone esplode puntuale a mezzogiorno, e i messaggi d'amore delle fidanzate dei detenuti riecheggiano ancora dalle terrazze di un Gianicolo trasformatosi nel parlatorio più romantico del mondo, viene naturale pensare che non ci sarebbe potuto essere a Roma un luogo migliore per far rivivere la malinconica allegria del surreale teatrino di Pulcinella.