Visualizzazione post con etichetta Storie e leggende Romane. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Storie e leggende Romane. Mostra tutti i post

martedì 9 luglio 2013

Dice che a S.Pietro assisteremo a un parto

"Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini" ovvero "quello che non fecero i Barbari, lo fecero i Barberini", e che si parli di devastazione risulta abbastanza evidente dalla natura del primo soggetto.
Con questa celebre "Pasquinata" si andava a colpire lo scellerato modus operandi della famiglia Barberini, consistente nello spoliare i più celebri monumenti dell'antichità, riutilizzandone i materiali per la costruzione di chiese e palazzi cardinalizi. In poche parole una trasformazione in sacro dell'elemento pagano, il tutto con una semplice operazione di riciclo palazzinaro (a loro discolpa si può dire che non furono i primi né gli ultimi).


L'attacco si rivolgeva in particolare a papa Urbano VIII, per gli amici Maffeo Barberini, il quale commissionò al suo artista di fiducia Gianlorenzo Bernini la fusione degli antichi bronzi che rivestivano la struttura del pronao del Pantheon, per farne un monumentale baldacchino da schiaffare nel cuore della nuova basilica Vaticana, proprio all'altezza del sepolcro dell'apostolo Pietro. Potremmo a questo punto giurare che il materiale bronzeo rappresenti l'unica componente di origine pagana dell'insigne opera d'arte? Per scoprirlo vi invito a (ri)visitare uno dei luoghi più conosciuti al mondo (confessate che non mettevate piede a S.Pietro più o meno dalla quinta elementare), questa volta con il proposito di  provare a "Guardare" veramente, per riuscire infine a scovare il lato "insolito" di un celebre monumento, celato nel pieno di un flusso turistico ai limiti del sopportabile. E se ritenete che la scena di un parto rappresentata nel cuore della basilica della cristianità universale sia una cosa sufficientemente insolita, allora avrete fatto bene a fidarvi.

Allontanando lo sguardo dall'architettura centrale del baldacchino e scorrendo la decorazione dei quattro piedistalli alla base delle colonne, ci accorgeremo infatti di come gli scudi con lo stemma del pontefice, esattamente come in una sequenza cinematografica, rivelino la sorprendente cronaca per immagini di un vero e proprio parto nelle sue diverse fasi. La lettura ha inizio dalla colonna frontale di sinistra e, seguendo il senso orario, si conclude sulla colonna frontale di destra. Un volto di donna, nascosto tra lo stemma e le chiavi di San Pietro, racconta di scena in scena il proprio travaglio attraverso le sue realistiche espressioni: dal volto contratto, alla sofferenza, al grido di dolore (con le probabili smadonne che le lettrici in particolare non faranno fatica ad immaginare), fino al sollievo post faticata con tanto di capelli appiccicati sulla fronte, mentre sull'ultimo bassorilievo troveremo al suo posto il volto paffuto di un cherubino, il bambino appena nato. Lo stesso scudo, stemma del pontefice Barberini guarnito con le sue immancabili api, diventa metafora di un ventre femminile, che coerentemente con l'espulsione sembra "sgonfiarsi" nel corso della sequenza (guardate l'ultimo e il primo in prospettiva tra loro). E non finisce qui! Un grottesco mascherone alla base nasconde la rappresentazione anatomicamente accurata degli stessi organi di riproduzione femminili.

Per secoli l'intera sequenza è stata snobbata, tanto che le prime osservazioni su questa presenza anomala si riscontrano solo a partire dal diciannovesimo secolo. Ma quale potrebbe essere il significato di questo racconto all'apparenza molto poco consono con il luogo? In soccorso arriva immancabilmente una certa aneddotica di stampo popolare, secondo cui il Bernini avrebbe messo incinta una nipote del Papa (nipote a quei tempi uguale figlia illegittima), il quale a sua volta si rifiutò di benedire l'unione provocando nello scultore il desiderio di questa piccola vendetta a sfregio. Alla versione "radio serva" si affianca l'ipotesi lacrimevole  di un poco credibile Urbano VIII, che volle celebrare la felice riuscita del parto, considerato a rischio, di una sua stretta parente. C'è infine la versione più tecnica, che fa riferimento a un parallelismo con i nove mesi di tempo occorsi al Bernini per realizzare lo splendido monumento. Ma era necessario tutto questo sfoggio di arte solo per dire" 'sto baldacchino è stato un parto"? In conclusione le storielle appaiono molto poco convincenti, mentre piuttosto risulterebbe sensato riportare il tutto ad una lettura più profonda.

In particolare faccio riferimento ad una precisa simbologia di stampo medievale, parte integrante del complesso rituale di insediamento del neoeletto pontefice in vigore fino agli inizi del Secolo XVI, in funzione della quale venivano utilizzati tre distinti sedili di epoca imperiale. Tra questi una sedia da parto (quindi forata al centro), sulla quale si dice che il papa dovesse accomodarsi assumendo la posizione da partoriente, al fine di simboleggiare il concetto di Mater Ecclesia (Madre Chiesa). Tutta questa pantomima, che ci appare indubbiamente grottesca e ridicola, va ricollegata in realtà a quell'universo simbolico tipicamente Medievale che oggi potremmo tranquillamente definire "terra terra". Le "raffinate" tecniche di comunicazione di massa utilizzate oggi (l'uso del "raffinato" è volutamente ironico), in assenza dei più efficaci mass media, avevano infatti al tempo la necessità di essere sostituite da ridondanti cerimoniali di grande gestualità, che potessero essere decodificati con estrema facilità dal popolo. Successivamente tale consuetudine iniziò ad essere ridicolizzata, in particolare negli ambienti più critici di provenienza Luterana, tanto che i suddetti sedili di epoca imperiale finirono per essere tramandati come "sedie col buco" atte a verificare la presenza degli "attributi" papali. Il tutto in conseguenza dell'episodio della celebre papessa Giovanna: il primo papa travestito (al contrario) che ebbe la sfortuna di farsi beccare, partorendo un bambino durante un corteo. Una leggenda che ebbe enorme risonanza nel corso di tutto il medioevo, e che nasconde un chiaro intento di propaganda anticlericale. Ad ogni modo, secondo questa degenerazione della leggenda, si asseriva che le sedie da parto avrebbero avuto la funzione di permettere a un giovane diacono di infilare la mano attraverso il buco fin sotto i paramenti del papa, ivi accomodato al momento dell'elezione, per verificare che fosse effettivamente un papa con le palle e non un'ennesima Giovanna (vi avevo avvertito che il Medioevo è terra terra).


Ritornando al nostro baldacchino è dunque possibile che, decaduta questa tradizione dell'uso simbolico del sedile, il Bernini, ma più probabilmente lo stesso papa Urbano VIII, uomo colto e amante della simbologia e dell'estetica, abbia voluto celebrare in maniera un tantino più raffinata rispetto allo svaccamento sulla sedia da parto il concetto di Mater Ecclesia. Ma non essendoci nessuna certezza tra le ipotesi, possiamo a questo punto permetterci di formularne qualcuna più personale. E' possibile che il Bernini abbia voluto fare riferimento a un concetto ben più potente e rischioso? Un elemento pagano di antichissima origine: il culto primordiale che ricorre nel passato comune di tutte le religioni conosciute. Sto parlando del culto della Madre Terra, il femminino sacro che ci riconduce alla Dea Madre. Un elemento femminile che proprio lì, nel cuore della cristianità universale, nel tempio di una religione dalla struttura profondamente maschilista, sarebbe apparso e ci appare tuttora come un azzardo, soprattutto in questa rappresentazione dai tratti così realistici. Ma in fondo siamo nel Seicento, secolo in cui si riscopre la centralità dell'uomo e i culti esoterici del passato, mentre l'arte e la letteratura si arricchiscono di antiche simbologie e codici nascosti. E il Bernini non era certamente estraneo a questo mondo. E se tutto questo è possibile, allora non dovrete certo stupirvi del fatto che, anche tra migliaia di turisti in sandali e bermuda, si possa ancora svelare un pezzo di quella Roma nascosta e misteriosa che così tanto ci affascina.


p.s
La ricerca di questo dettaglio è stata l'oggetto di una divertente caccia al tesoro per indizi alla quale avete partecipato in molti. La vincitrice Rosangela (sua è l'ultima foto), si è aggiudicata una copia di "Roma Fuoripista" (gli altri lo possono acquistare su www.romafuoripista.com o nelle librerie indicate sul sito). Per le prossime cacce al tesoro continuate a seguirmi sulla pagina facebook di Dice che a Roma.

martedì 7 maggio 2013

Vicolo scellerato. Dice che è colpa di Tullia.


Da sobborgo malfamato dell'antica Roma a rione popolare, oggi paurosamente tendente al radical chic: benvenuti nel rione Monti. Urbanisticamente isolato dagli sventramenti edilizi dell'Italia post-unitaria e successivamente dell'era fascista, irrimediabilmente sfregiato dal trionfalismo laico di via Cavour e dalla retorica celebrativa di via dei Fori Imperiali, continua nonostante tutto a sorprenderci con scorci inaspettati e atmosfere senza tempo. E persino la suggestiva salita dei Borgia, irrispettosamente tagliata in due dalla burocratica via Cavour, sembra non aver perso nulla della sua antica magia: la scalinata che si perde nel buio di una galleria, il palazzetto rinascimentale vestito d'edera e un balconcino fiabesco di foggia "raffaellita" ci regalano un angolo di assoluta poesia, che nasconde in realtà una vicenda di omicidi e intrighi familiari da far impallidire i più scaltri e psicopatici sceneggiatori di soap opera americane. Scenografia della storia è una rampa maledetta passata alla storia come vicus sceleratus (vicolo scellerato), simpatico soprannome le cui motivazioni storiche potremmo estendere oggi alla presenza del suonatore di fisarmonica che, in pianta stabile sotto l'arco, ha deciso di tormentarci quotidianamente con improbabili medley di musica napoletana e balcanica senza soluzione di continuità.


Per comprendere le origini della sinistra fama di questo luogo dobbiamo in realtà tornare indietro alla Roma dei Tarquini, gli ultimi di quei sette re di Roma che solamente in pochissimi sono capaci di elencare senza confonderli con i più celebri sette nani di Biancaneve. La protagonista di questa storia scellerata è Tullia minor, l'ambiziosa figlia dello schiavo Servio Tullio, succeduto come re di Roma all'etrusco Tarquinio Prisco in virtù di un fortunato matrimonio con la diretta discendente. Coerente con una certa politica matrimoniale, e soprattutto sentendosi in dovere di porre rimedio all'imbarazzante mancanza di nobile lignaggio, Servio Tullio decide di maritare entrambe le sue due figlie Tullia minor e Tullia maior (un plauso alla fantasia onomastica) ai due rampolli della casata dei Tarquini: Arunte Tarquinio e Lucio Tarquinio. Ma il sacro principio dell'eterna insoddisfazione vuole che quando si ottiene una cosa tra due si tenda sempre a preferire l'altra, e così anche Tullia Minor, una volta sposato Arunte, si rende conto di preferire Lucio. Donna ambiziosa e senza scrupoli scorgeva infatti nel cognato quelle doti di coraggio e scaltrezza che le avrebbero permesso di farsi strada. Un'attrazione corrisposta che a questo punto necessitava di soluzione. Quale? Ce la rammenta Tito Livio con con un esempio di fine e moderna ironia da un estratto della sua opera monumentale "ab urbe condita": "Lucio Tarquinio e Tullia minore, dopo aver reso libere le loro case per nuove nozze con due funerali quasi contemporanei, si unirono in matrimonio". In poche parole un doppio omicidio incrociato con matrimonio finale, per quel genere di storia che in tempi più attuali darebbe da mangiare a Bruno Vespa e Barbara D'urso nei secoli dei secoli. L'unione non basta a placare Tullia che, con l'obiettivo di diventare regina, dà inizio a un opera di sfiancante persuasione nei confronti del proprio consorte mettendolo di fronte ai suoi doveri: come legittimo erede della famiglia dei Tarquini è ora che reclami per se stesso quel trono occupato al momento dal suocero. "Se tu sei colui che pensavo di aver sposato, ti chiamo sia marito sia re; altrimenti, la mia condizione è mutata in peggio, perchè in te alla viltà si unisce il delitto", che detto diversamente rispetto a Tito Livio: "tuo fratello era uno sfigato. Tu sei peggio perchè oltre ad essere uno sfigato mi hai fatto pure commettere un omicidio". Con tali efficaci argomentazioni Lucio Tarquinio, finalmente convinto dalla bella Tullia, si reca a palazzo per autoproclamarsi legittimo re dei romani. Ne consegue uno scontro e una colluttazione tra genero e suocero (stile feste in famiglia), dove Servio Tullio e il suo svantaggio anagrafico hanno decisamente la peggio, con la conclusione che il povero vecchio re si allontana ferito da palazzo. Due sicari inviati dai suoi stessi parenti-serpenti finiscono il lavoro uccidendolo in mezzo alla strada, proprio lungo quel clivus urbius che al tempo correva al posto di questa scalinata. La gelida Tullia è la prima a riconoscere ufficialmente come re il proprio consorte, quell'ultimo dei sette che passerà alla storia come Tarquino il superbo (Tarquino l'infame sarebbe suonato più opportuno), dopodichè riprende imperturbabile la strada di casa accompagnata dal suo fedele cocchiere. Ed è proprio percorrendo questo stesso clivus che il cocchiere si ferma inorridito di fronte al corpo senza vita del re Servio Tullio. Pensate forse che a quel punto Tullia, sua figlia, sia stata colta da rimorso? Non esattamente, ma anzi "..resa folle dalle furie incalzanti della sorella e del marito, Tullia fece passare il cocchio sul corpo e sul veicolo insanguinato, lorda e schizzata lei stessa, portò le tracce del sangue e dell'eccidio del padre fino ai suoi Penati e a suo marito". E con questa scena degna di un film di Tarantino si conclude l'episodio che ha ribattezzato questo clivus con il nome di sceleratus.


Ma le leggende di questo vicolo non finiscono qui, ed è proprio il nome di "salita dei Borgia" a suggerirci, a ben duemila anni di distanza, una continuità tra due famiglie non proprio modello. Il meraviglioso palazzetto rinascimentale è ritenuto per tradizione popolare essere appartenuto alla bella Vannozza Cattanei, prima amante di Rodrigo Borgia, passato alla storia come Papa Alessandro VI. Vannozza diede al papa 4 figli, tra i quali si distinsero i più celebri Cesare e Lucrezia. In realtà il palazzetto risulta essere appartenuto alla famiglia dei Margani, e la presenza di Vannozza e Lucrezia appare in parte anacronistica rispetto alle vicende della proprietà. Come potremmo dunque giustificare questo legame con i Borgia impresso nella toponomastica del luogo? Probabilmente la fantasia popolare creò un parallelismo tra i personaggi femminili di Tullia e Lucrezia, entrambe vittime di una certa storiografia faziosa tendente al gossip, non proprio clemente nei loro confronti. Ed è forse per questo che Lucrezia, passata alla storia come un'incestuosa avvelenatrice senza scrupoli (in realtà solo una pedina politica manovrata dal padre e dal fratello in un gioco di alleanze matrimoniali), eredita da Tullia lo scettro di "scellerata" presenza femminile del posto. O forse il parallelismo riguarda i due omicidi avvenuti all'interno di uno stesso nucleo familiare, dal patricidio di Tullia al "presunto" fratricidio commesso da Cesare contro Giovanni, il quale proprio da questo palazzo si dice sia uscito in quell'ultima notte prima che il suo corpo martoriato venisse restituito dalle acque del Tevere. Ad ogni modo l'unico a credere fermamente all'effettiva presenza dei Borgia in questa strada fu il celebre poeta romantico inglese Lord Byron che, durante il suo soggiorno romano, si recava ossessivamente ogni notte sotto quel balcone e, stringendo feticisticamente tra le mani una ciocca di capelli biondi, immaginava la bella e pericolosa Lucrezia affacciarsi pensierosa. Dopo tanto sangue, intrighi e delitti concludiamo quindi con una giusta nota di romanticismo, e quella sfumatura che ci aiuta a riconciliarci con la magia di questo angolo di Roma. Se poi Tullia volesse dare una ripassata col suo cocchio anche al suonatore di fisarmonica, direi che potremmo persino perdonarla.






mercoledì 30 gennaio 2013

Dice che a messa ce stanno un pò più de quattro gatti


Se durante la messa domenicale in un mattino di pioggia il profumo di incenso venisse improvvisamente sovrastato dall'odore di cane bagnato, se un latrato dovesse riecheggiare più in alto del coro liturgico e se le acquasantiere iniziassero a moltiplicarsi ospitando al loro interno pesci rossi e tartarughine d'acqua dolce, non resterebbero che due sole spiegazioni: o siete sotto l'effetto di qualche allucinogeno, oppure state assistendo alla messa di benedizione degli animali in onore di S.Antonio Abate, nella chiesa di S.Eusebio all'Esquilino. S.Antonio è considerato uno dei più illustri eremiti della storia della chiesa, e per quanto nei suoi lunghi soggiorni in solitudine avesse rifuggito la compagnia di qualsiasi presenza sia umana che animale, l'iconografia classica medievale ce lo consegna circondato da animali da cortile, dove tra tutti spicca immancabilmente il maiale, il cui grasso veniva tradizionalmente usato per la cura delle malattie della pelle che rientravano sotto l'infausta categoria "fuoco di S.Antonio". In virtù di questo utilizzo a scopo curativo, l'allevamento del maiale veniva eccezionalmente ammesso all'interno delle mura delle città in cui fosse presente una sede dell'ordine monastico degli Antoniani. Ed è proprio da questa associazione che nacque la figura di S.Antonio come protettore degli animali.


Il 17 gennaio, giorno dedicato al Santo, ha dunque luogo la cerimonia di benedizione degli animali, precedentemente (e più logicamente) operata nella chiesa di S.Antonio Abate, e in seguito trasferita per motivi di traffico nella più riparata S.Eusebio. La data diventa quindi un'occasione unica per scoprire una tradizione ancora in vita e soprattutto per fare conoscenza con la più variegata umanità del rione.
Mentre le "gattare" continuano a confermarsi come la "animaliste" più invasate, a sorprenderci contribuiscono tutta una serie di personaggi tra i quali è doveroso stilare una personale classifica in quanto ad originalità e stravaganza. Nella categoria del più impavido e paziente vince a mani basse la signora con la ciotola della tartarughine acquatiche. A parte la complicazione di trasportare in loco un ciotolone pieno d'acqua (ma io non faccio testo, rovescerei un bicchiere d'acqua per un tragitto appena più lungo di 15 metri), il coefficiente di difficoltà viene in questo caso enormemente accresciuto dalla contingente situazione metereologica. E a questo punto sorge una domanda: avrebbe avuto senso riparare le tartarughine con l'ombrello?


Il premio al più tradizionalista va alla bambina con il coniglio. In un passato non troppo remoto ad essere benedetti erano infatti tutti quegli animali da cortile o da trasporto che possedevano un valore concreto nella vita dell'uomo, come fonte primaria di sostentamento e in certi casi di ricchezza (dalle mucche ai cavalli), ed è solo recentemente che il pubblico delle benedizioni ha virato verso più gestibili animali domestici e da compagnia. Non nascondo che avrei sperato di scorgere almeno un maiale o un ovino, ma tutto sommato non posso negare che anche il coniglio abbia fatto la sua porca figura (il riferimento al maiale è d'obbligo) come degno rappresentante degli animali da cortile. Tra i personaggi più ambigui e sospetti spadroneggia al primo posto il bambino con una gabbietta contenente un insetto stecco mimetizzato tra due ramoscelli. Dobbiamo credere che fosse realmente mimetizzato o possiamo supporre che il fanciullo ci stesse prendendo tutti sapientemente per il culo? La palma per la più esibizionista va indubbiamente alla signora con la coppia di furetti che, per aver posato davanti agli obiettivi con più impegno di Nicole Kidman sul red carpet, ha dato legittimamente adito al sospetto che li avesse affittati per l'occasione.
Il premio al più fantasioso? La bambina col dinosauro di peluche, anch'esso immancabilmente benedetto dal sacerdote.
Non manca il più devoto che, alla faccia di chi sostiene che i pesci rossi rechino meno soddisfazione affettiva delle piante, è colui che ho appunto ribattezzato il ragazzo del pesce rosso, perennemente contrito in uno stato di adorazione mistica nei confronti della propria vaschetta durante tutta la celebrazione.
Infine in mezzo ad una corposa legazione di volatili pennuti, i quali avranno probabilmente sbadigliato di noia a sentir parlare di un comunissimo e da noi bipedi banalmente agognato regno dei cieli, c'è la vera rappresentanza di massa: e mai come in questo caso l'espressione inglese "piovono cani e gatti" avrebbe potuto rivelarsi più azzeccata  per fare riferimento al pubblico di questa particolare messa con diluvio. Stupisce il comportamento "educato" e tutto sommato poco rumoroso del popolo quadrupede, con la sola eccezione del momento dello scambio del segno di pace, quando i padroni osano avere un contatto fisico con gli estranei scatenando le gelosie e il dissenso della rappresentanza canina. Per il resto tutto procede regolarmente nella ritualità di una messa dove a distinguersi è solo il pubblico d'occasione. Il momento più atteso, come in ogni rappresentazione che si rispetti, arriva proprio sul finale, quando preti, sacerdoti e chierichetti si dividono il compito benedicendo uno ad uno gli animali vestiti a festa per l'occasione, fino ad giungere all'esterno, dove decine di fedeli attendono il momento ufficiale della benedizione di massa.
All'esterno tutto assume i contorni di una festa rionale, con tanto di banda dei carabinieri pronta ad esibirsi sotto i portici di Piazza Vittorio.


La chiesa si è svuotata ed è arrivato il momento di scoprire un tesoro sconosciuto nascosto sul retro dell'altare. S.Eusebio custodisce infatti un meraviglioso coro ligneo intagliato a figure grottesche, unico esempio presente a Roma. Ed è proprio il caso di dire che un simile tesoro lo conoscono veramente in quattro gatti.


venerdì 28 dicembre 2012

Dice che Caravaggio nun pagava l'affitto


Raccontare l'intera vita di Michelangelo Merisi detto Caravaggio rischierebbe di impegnarci in un' avvincente, ma infinita epopea di trasferimenti e fughe, costellata di risse, omicidi e ingiurie: "ho in culo te e quanti par tui si trovano" disse il nostro Michelangelo a un caporale, trovando la prigione al posto di un applauso. Una vita avventurosa da artista maledetto scandita dalla produzione di grandiose opere d'arte riconosciute a livello mondiale. In questo caso ho deciso di selezionare un singolo episodio e una sola opera, invitandovi a cogliere un momento della vita dell'artista con una breve passeggiata tra i rioni di Campo Marzio e S.Eustachio. Sullo sfondo c'è la Roma gaudente e pericolosa dei primi del Seicento, dove il sacro va di pari passo col profano e le madonne si confondono con le puttane. Tra soggiorni in carcere e nobili rifugi sotto la protezione di potenti famiglie e cardinali, è stata infine accertata la presenza di un temporaneo domicilio privato del Merisi. Ci troviamo in vicolo San Biagio (oggi vicolo del Divino Amore) a Campo Marzio ed è proprio qui che prese alloggio il Caravaggio alla fine del suo periodo romano, affittando un piccolo studio in compagnia del suo garzone. In calce al regolare contratto di affitto stipulato con tale Prudenzia Bruni, si evince una curiosa clausola che attesta la richiesta dell'artista di poter "scoprire metà della sala" sfondando il solaio. Primo caso di inquilino che procura danni come da contratto! E' affascinante pensare che proprio lui, considerato il maestro della luce, avesse richiesto uno sfondamento del soffitto per affinare i suoi giochi di tecnica dell'illuminazione, anche se in realtà sembra che la modifica strutturale fosse necessaria per consentire la realizzazione di una tela di grandi dimensioni, commissionata proprio in quel periodo. La proprietaria, evidentemente poco informata sul passato turbolento del suo affittuario, che già annoverava un curriculum di tutto rispetto fatto di risse, furti e sfregi vari (non mancò il piatto di carciofi in faccia all'oste scorbutico e rompicoglioni), accettò in cambio di una dichiarazione che prometteva il ripristino finale dell'alloggio a spese dell'inquilino. E vatte a fidà der Merisi!


Fu dunque proprio in quel vicolo che per un certo periodo il Caravaggio rientrava dopo le sue scorribande notturne tra osterie e bordelli. Nel frattempo avvenne un incidente, le cui conseguenze si risolsero in una sua prima fuga da Roma. Causa dell'"imprevisto" fu una prostituta di nome Lena, amante del turbolento Michelangelo, per la quale avvenne uno scontro in strada tra il pittore e tale notaio Mariano Pasqualoni: "spasseggiando in Navona (..)mi sono sentito dare una botta in testa dalla banda di dietro, che io sono subbito cascato in terra et sono restato ferito in testa, che credo sia stato un colpo di spada (...). Io non ho visto chi sia stato quello che mi ha ferito, ma io non ho da far con altri che con detto Michelangelo, perchè a queste sere passate havessimo parole sul Corso lui et io per causa d'una donna chiamata Lena (...)". Quasi ci sembra di vedere il Caravaggio che inveisce in via del Corso per amore di una prostituta. Il pittore fuggì quindi a Genova lasciando Prudenzia con affitto e soffitto scoperti. La povera donna decise quindi di aggiungere un'ulteriore querela alla collezione del pittore, e per rifarsi dei mesi di affitto non pagato e del danno al solaio riuscì infine ad ottenere il sequestro dei beni del Merisi. Dai documenti ufficiali si denota a quanto questi ammontassero: una magra consolazione per la donna, e un ulteriore motivo di stima per i fan del personaggio. Si rinviene infatti tra l'altro " un forzieretto (...) con dentro un par de calzoni et un giuppone stracciati, una quitarra, una violina, un pugnale (...)". Al ritorno da Genova Michelangelo Merisi si ritrova quindi senza casa e senza beni, e a questo punto non trova di meglio da fare che andare a prendere a sassate la finestra della povera Prudenzia: in poche parole cornuta e mazziata!


E' proprio durante gli anni di vicolo san Biagio che il genio realizza la tela della "Madonna dei pellegrini". A questo punto è doveroso procedere lungo via della Scrofa per raggiungere la chiesa di Sant'Agostino, dove il dipinto fa bella mostra di sè nella Cappella Cavalletti. L'opera racchiude in sè le caratteristiche che hanno reso celebre il pittore: il drammatico utilizzo della luce, e il consueto realismo di strada applicato all'opera religiosa, fatto di stracci, piedi sporchi e fattezze popolane (e come non pensare a Pasolini e alla sua Medea?). Come se non bastasse a fare da modella per la vergine Maria viene scelta una prostituta, la celebre Lena del "contenzioso" di piazza Navona. Potreste immaginare lo scandalo e lo scalpore? In realtà la cosa che fece più scandalo e scalpore furono i piedi gonfi e zozzi dei pellegrini, offerti in faccia allo spettatore con il solito sfacciato realismo. Ulteriore motivo di lamentela fu l'aspetto decisamente poco signorile della dimora mariana, dove le pareti scrostate della facciata accanto allo stipite avrebbero fatto pensare, oltre che ad un amministratore di condominio poco efficiente, ad un contesto decisamente popolare. Ma non vi sembra forse familiare quello stipite? Guardate la foto del portone in vicolo San Biagio. Effettivamente i tempi coincidono (l'opera fu realizzata proprio nell'anno della sua permanenza in casa di Prudenzia) e come ulteriore conferma potremmo citare l'abitudine dell'artista di inserire un elemento autobiografico all'interno delle proprie opere. Esemplificativo in questo senso fu il suo riprodurre ossessivamente le proprie fattezze nei volti delle teste mozzate, come gesto di disperata scaramanzia conseguente alla promulgazione della sua condanna alla decapitazione (ma questo lo vedremo in seguito). Magari quella Lena desiderata dal pittore proprio in quel periodo, rappresentata sulla soglia della propria abitazione aveva per lui un significato personale che andava a sovrapporsi alla lettura religiosa dell'episodio.


Tanto per rimanere in tema la stessa chiesa di Sant'Agostino era abitualmente frequentata dalle prostitute della zona, come ci riporta tra l'altro in una sua lettera a Lorenzo de' Medici la cortigiana Beatrice da Ferrara: "così, mezzo contrita, mi confessai dal predicatore di Sant'Agostino; dico nostro, perchè quante puttane siamo in Roma, tutte veniamo alla sua predica, ond'esso, vedendosi sì notabile audentia, ad altro non attende se non a volerne convertir tutte. Oh, dura impresa!". Ma la madonna del Caravaggio non è l'unica madonna della chiesa a mescolarsi col profano: a due passi dal dipinto del Merisi possiamo infatti ammirare la statua della Madonna del Parto, che secondo la tradizione popolare del tempo si riteneva fosse l'adattamento di una statua romana raffigurante Agrippina madre di Nerone, e che il Belli non esita a definire puttana in un sonetto per via dei suoi ornamenti preziosi che la rendono "accusì ricca, accusì ciana"  Tornando a Caravaggio sappiamo già come come finisce la storia. Durante una partita al gioco della pallacorda, sempre nei pressi di vicolo san Biagio, scoppia una rissa dove ci scappa il morto. Questa volta è stato chiaramente passato il limite e viene emessa una condanna a morte. Da quel momento in poi la vita del pittore si trasforma in una fuga rocambolesca attraverso Napoli e poi Malta, conclusasi malamente con la morte del Merisi sulla rive di Porto Ercole, proprio quando infine sembrava essergli stato concesso il perdono e il conseguente ritorno a Roma. Di lui ci restano le sue opere e la sua storia avventurosa, che magicamente si ripresenta a noi semplicemente sbirciando in un vicolo buio della città. E in un istante rivive un momento della vita di un grande artista e lo squarcio di un'epoca in cui Roma seppe esprimere al meglio la sua natura: quella di santa e di puttana, proprio come in un'opera del grande Caravaggio.


Grazie a Silvia del blog la locandiera per il prezioso spunto!

P.S.
Vicolo san Biagio si chiama oggi vicolo del Divino Amore

giovedì 22 novembre 2012

Dice che 'sta fontana è vietata ai minori


Parlare della "Roma nascosta" non vuol dire necessariamente fare riferimento a luoghi normalmente poco accessibili o comunque distanti dai nostri itinerari quotidiani, e con un pizzico di conoscenza e uno sguardo più attento, persino una frequentatissima rotatoria in pieno centro potrebbe infine rivelarci delle sorprese inaspettate. A dimostrazione di ciò prenderemo il caso della fontana di piazza della Repubblica, così evidente e conosciuta alla vista di ogni automobilista romano, con la certezza che la prossima volta riuscirete davvero a guardarla sotto una luce completamente diversa (e se dicessi "luce rossa" non sarebbe comunque un azzardo). Ad ogni modo, trattandosi di una trafficata rotatoria, il consiglio che vi do è di approfondire solo una volta che avrete parcheggiato il mezzo, per evitare di trasformare la vostra curiosità in un fuoripista automobilistico sotto i portici di piazza della Repubblica.

La storia di questo ardimentoso monumento ha inizio nella seconda metà dell'Ottocento, in concomitanza con le vicende che sancirono la tanto agognata fine del potere temporale dei Papi sulla città eterna. A quel tempo Papa Pio IX, evidentemente poco preoccupato per la piega che stavano prendendo gli eventi, pensò bene di distrarsi ulteriormente occupandosi dell'imponente ristrutturazione dell'antico acquedotto "Marcio". A conclusione dei lavori l'acqua venne molto modestamente ribattezzata "Pia" e la relativa mostra, in realtà piuttosto sobria e semplicistica, venne infine collocata presso l'attuale piazza dei Cinquecento di fronte alla stazione Termini (per chi ancora non lo sapesse, quando parliamo di "mostra dell'acqua" non facciamo riferimento a una cessa incontrata in piscina o alla compagna di un mostro marino, ma bensì a quel genere di fontana monumentale progettata come "esposizione celebrativa" dell'acqua trasportata a Roma attraverso gli antichi acquedotti). Il sarcastico popolo di Roma, consapevole della fine che avrebbe fatto il Papa di lì a poco, si espresse a tal proposito coniando lo slogan da stadio "acqua Pia, oggi tua domani mia", e infatti appena dieci giorni dopo l'inaugurazione, con la presa di Roma attraverso la celebre breccia di porta Pia, si pose trionfalmente la parola fine alla lunghissima monarchia papale con la definitiva annessione di Roma al regno d'Italia. Nel pieno fermento da rinnovamento edilizio che seguì alla proclamazione della città come capitale di Italia, si decise infine di ricollocare la mostra nella rinnovata Piazza Esedra, dove venne dunque costruita l'attuale nuova fontana. Anche in questo caso l'opera risultò piuttosto spoglia e così, in occasione della visita dell'imperatore di Germania a Roma, si decise di sistemare in via temporanea quattro leoni di gesso agli angoli della vasca a puro scopo decorativo. Un pò come tirare fuori il servizio buono quando viene l'ospite importante.


La svolta finale si ebbe nel 1887 con l'approvazione del progetto di un tale Mario Rutelli, il quale decise di rivoluzionare l'aspetto della fontana con l'allestimento di quattro colossali gruppi bronzei. Se il nome dello scultore vi fa pensare a un tale Francesco, alle sue ossessioni per passi e sottopassetti e a un'insopportabile moglie tuttologa da salotto televisivo di serie B, ebbene sì, Mario Rutelli era proprio il bisnonno del nostro "beneamato" ex sindaco di Roma (del quale preferisco senza dubbio la versione di Guzzanti). I quattro gruppi progettati dal Rutelli architetto che possiamo ammirare oggi sui quattro lati della fontana stanno a rappresentare le quattro ninfe dell'acqua, ognuna caratterizzata dall'audace accostamento alla bestia marina di riferimento. La ninfa degli Oceani che doma un cavallo (sarà per i cavalloni?), la ninfa dei laghi alle prese con un cigno e le ninfe delle acque sotterranee e dei fiumi rispettivamente e voluttuosamente sdraiate su una specie di lucertolone e un serpente marino. Da lì il nome di "Fontana delle Naiadi". Immediatamente scoppiò lo scandalo: i loro corpi nudi e bagnati, le pose lascive, gli sguardi sfrontati, fecero all'epoca enorme scalpore, e per lungo tempo la fontana rimase coperta da uno steccato in attesa di delibera. Ovviamente ciò non fece altro che aumentare la curiosità degli abitanti dei rioni il cui continuo via vai contribuì ad accendere ulteriormente lo scandalo. Il modo migliore per descrivere il clima dell'epoca è riportare lo snobissimo commento di un consigliere comunale dell'ala più conservatrice di influenza papalina, che con l'appoggio dei quotidiani vaticani così tuonava in riferimento alle Naiadi: “….non ninfe inebriate dall'acqua, ma ciociare ubriache di cattivo vino nelle pose più dimostrative”. Un genio.


A rompere gli indugi ci pensarono infine gli studenti con un'inaugurazione coatta (nel senso di forzata, ma forse pure un pò coatta) nel primo giorno di carnevale del 1911, il tutto con il beneplacito di un comune allora felicemente progressista e non ancora soggetto alle influenze clericali. Un gesto che rappresentò la vittoria della libera espressione artistica, del moderno laicismo, ma soprattutto della cessazione di una sterile polemica del cazzo, arte in cui da sempre in Italia siamo impareggiabili maestri. Ma l'opera non era ancora completa e solamente al trascorrere di undici lunghi anni venne proposta dallo stesso Rutelli un'integrazione con un ultimo armonizzante elemento centrale: tre tritoni in lotta con un delfino e un polipo. Tale delirio da rissa sottomarina non mancò ancora una volta di stimolare la fantasia dei romani che decisero di battezzarlo "il fritto misto". La copia temporanea realizzata in malta venne così relegata nei giardini di Piazza Vittorio e ancora una volta le Naiadi furono lasciate da sole. A quel punto il Rutelli, forse esasperato dopo le tante polemiche, o più probabilmente con un atto di consapevole ironia che rasentava il colpo di genio, optò per una soluzione di impatto che avrebbe messo tutti d'accordo, ninfe soprattutto. Ecco quindi ergersi sul gruppo il poderoso Glauco mentre stringe un guizzante delfino, simbolo della dominazione dell'uomo sulla natura. In poche parole un possente uomo nudo con un grosso pesce in mano, da cui si eleva lo schizzo principale dell'intera coreografia acquatica. Potremmo speculare per ore sui doppi sensi dell'opera e sugli effetti ambigui che ci regalano i diversi punti di osservazione, ma a toglierci di impaccio ci pensa questa volta il Sor Capanna, celebre cantastorie romanesco che con la sua lirica appassionata applicata allo stornello, così ci serve la sua giusta conclusione:

C'è a Piazza delle Terme un funtanone
che uno scultore celebre ha guarnito
cò quattro donne ignude a pecorone
e un omo in mezzo che fa da marito.
Quanto è bello quer gigante
lì tra in mezzo a tutte quante:
cor pesce in mano
annaffia a tutt'e quattro er deretano.

E con questo momento di altissima poesia vi lascio sperando che al prossimo giro di rotatoria a piazza della Repubblica riuscirete infine  a "vedere" quel qualcosa di più di questa bellissima fontana.



mercoledì 17 ottobre 2012

Dice che le scale le devi fà in ginocchio

La tanto decantata "eternità" di Roma si manifesta continuamente nei suoi più molteplici aspetti: dalle infinite, eterne attese alle fermate d'autobus, alla persistenza di antiche tradizioni, giunte sorprendentemente immutate fino ai giorni nostri, dopo un tempo quasi eterno. E quando capita di assistere al lento incedere di fedeli che risalgono i gradini della Scala Santa in ginocchio, esattamente come accadeva cinque secoli fa, non possiamo che rimanere affascinati dalla potenza simbolica di una tradizione sopravvissuta persino all'uscita del fottutissimo I-phone 5. Alla base del "percorso" un cartello multilingue fornisce ai visitatori casuali le istruzioni per l'uso, mentre alcuni tra i "volontari" si concedono, in linea con la modernità di una società ormai decisamente welness oriented, la rinuncia a sofferenza e sacrificio grazie all'utilizzo di pratici cuscini salvaginocchia. Come agognato premio li aspetta l'indulgenza da tutti i peccati, ma solo a tempo determinato. Lo status di santità applicato a semplici gradini di marmo deriva nientedimeno che dalla leggenda della loro appartenenza alla scala originale del palazzo di Ponzio Pilato, teatro dello storico processo a Gesù Cristo, fatta recapitare da S.Elena, madre dell'imperatore Costantino, come ingombrante souvenir del suo lungo viaggio in terra santa. Utilizzata in principio come scalone di ingresso dell'antico palazzo Lateranense, venne successivamente ricollocata all'interno dell'attuale edificio cinquecentesco ricostruito ad hoc, opera dell'architetto Domenico Fontana, realizzato nell'ottica del rivoluzionario rinnovamente edilizio dell'intera piazza S.Giovanni commissionato da Papa Sisto V.

La scala venne dunque rismontata, trasferita e ricostruita gradino per gradino nel giro di una sola notte (praticamente la metà del tempo che impiegherebbe un essere umano normodotato a montare una stupidissima libreria Billy di Ikea), e venne dunque riciclata come accesso privilegiato all'antica cappella privata dei pontefici, unico elemento originale risparmiato dalla demolizione dell'intero complesso Lateranense. La scala è rivestita da una protezione in legno di noce, al fine di evitare la consunzione del sacro marmo ad opera delle spigolose ginocchia dei fedeli, e rimane visibile solo parzialmente attraverso alcune apposite fessure: lo stesso meccanismo di protezione del divano buono in salotto con copridivano tattico, e stesso deludente effetto. Il punto di arrivo della scomoda ascesa è rappresentato da un finestrone con grata, di fronte al quale i fedeli sostano a fine percorso in adorazione dell'immagine del cosiddetto Salvatore Acheropita, custodito all'interno della suddetta cappella privata.

La cappella dei pontefici (in realtà cappella di S.Lorenzo) è conosciuta inoltre come Sancta Sanctorum (santa tra le sante, o come si dice a Roma santa 'na cifra) per via della preziosissima e cospicua raccolta di reliquie di quelli che possono considerarsi i veri e propri big della santità: dalle teste di Pietro e Paolo, in seguito ritrasferite nella basilica, alla testa di S.Agnese, fino ad arrivare al sacro prepuzio di Cristo, la cui travagliatissima vicenda meriterebbe un post a parte. Impunemente sottratto da un Lanzichenecco durante il sacco di Roma, fu ritrovato a Calcata in seguito alla cattura sul posto dello sventurato ladro di prepuzi, dove venne infine custodito nella chiesetta del paese fino all'ultimo clamoroso furto del 1983. Il fatto che l'ultimo atto si sia svolto proprio nel borgo colonizzato dagli ex hippies, in un contesto fricchettone di peace and love in cui era lecito fumarsi di tutto, rende l'intera faccenda persino più inquietante. Tornando alla cappella privata dei pontefici, per noi che alle ginocchia ci teniamo (e presuntuosamente riteniamo di non avere peccati da assolvere) ci è concesso raggiungere più comodamente questo autentico gioiello medioevale percorrendo la scala parallela, che passando attraverso l'adiacente oratorio di S.Silvestro, permetterà di accedere direttamente all'interno del Sancta Sanctorum.


Tra affreschi originali del 1200, splendidi mosaici e decorazioni Cosmatesche, emerge su tutto come indiscusso protagonista la meravigliosa immagine del Cristo Salvatore. Narra la leggenda che l'apostolo Luca, notevolmente apprezzato per le sue doti pittoriche, si accinse a realizzare su richiesta dei fedeli un ritratto di Gesù come celebrazione dopo la sua morte. Dopo essersi limitato a tracciare un pigro disegno di base, l'apostolo decise quindi di lasciare il lavoro incompleto pensando di proseguire il giorno successivo (mi ricorda qualcuno), ma è proprio nel corso della notte che accadde il miracolo e la tavolozza si perfezionò senza il suo intervento con una spontanea e prodigiosa apparizione di eccezionali colori. Per questa ragione l'immagine venne denominata Cristo "Acheropita", che in greco bizantino significa appunto "dipinto da mano non umana". Approfitto quindi dell'episodio per augurare lo stesso prodigio a chi dovesse accingersi a rimbiancare le pareti di casa (potremmo persino inaugurare il pantone acheropita). L'immagine è oggi quasi interamente nascosta da una ricchissima copertura argentea, decisione che risale al pontificato di Innocenzo III. In realtà persino il volto, unica porzione apparentemente visibile, è stato riprodotto su di un velo di seta successivamente applicato sull'originale (di nuovo la storia dei maledetti copridivani). Questo significa che non conosceremo mai la straordinaria bellezza di un'immagine, frutto di una tecnica talmente sorprendente da essere ritenuta soprannaturale e dovremo dunque limitarci a percepirne la potenza e l'importanza dietro un eloquente strato di superficiale ricchezza.


Esattamente di fronte troviamo l'armadietto custode delle sacre reliquie, chiaramente blindatissimo. Tra tutte rimane visibile, esposto su una delle pareti laterali, solamente una porzione del legno della tavola dell'ultima cena. Levatevi comunque dalla testa l'immagine della tavolata per tredici di leonardesca memoria e pensate piuttosto a una sorta di monovassoio da colazione in camera, vale a dire quello che un tempo era considerato tavolo. E mentre dal finestrone con grata le fedeli giunte in vetta ci scrutano come fossimo in un esperimento di osservazione comportamentale, decidiamo infine che è arrivato il momento di uscire. All'esterno ci attende nuovamente il traffico impazzito di piazza S.Giovanni, semafori, clacson e un'orda di venditori ambulanti che cerca di rifilare ogni genere di paccotiglia. E quasi viene il dubbio che alla fine la salita in ginocchio in confronto sia solo un sano esercizio di relax. Persino senza cuscino.

La Scala Santa si trova in Piazza S.Giovanni 14. Il Sancta Sanctorum è visitabile tutti i giorni (escluso la domenica e il mercoledì mattina) dalle 10:30 alle 11:30 e dalle 15:00 alle 16:00. Ad ogni modo è consigliabile prenotare o chiedere maggiori informazioni allo 06-7726641.

E visto che era un pò che non lo facevo vi ricordo ancora una volta del mio libro "Roma Fuoripista". Una selezione dei migliori itinerari nello stile "Dice che a Roma" che potete acquistare on line direttamente sul sito www.romafuoripista.com o nelle librerie romane indicate sulla medesima pagina! Daje che Natale è vicino (seeeeee)

lunedì 17 settembre 2012

Dice Pietro: "Quo vadis, domine?" ('ndo vai, Signò?)

Se due linee di metro messe in croce non possono certo definirsi rappresentative di un underground metropolitano degno di questo nome, la prospettiva cambia completamente quando andiamo a considerare le oltre sessanta catacombe che si diramano per centinaia di kilometri nel sottosuolo romano: una serie apparentemente infinita di percorsi sotterranei che farebbe venire il mal di testa persino a Lara Croft (ma purtroppo decisamente poco pratici ai fini della mobilità pubblica di cittadini e pendolari). Le catacombe di San Sebastiano sulla via Appia antica, situate al di sotto dell'omonima Basilica intitolata al martire, sono tra le uniche cinque regolarmente aperte al pubblico.

L'attuale Basilica risale al XVII secolo e venne riprogettata sulla base del precedente edificio Costantiniano, opportunamente innalzato nel IV secolo D.C. sul luogo dove secondo tradizione riposarono per un certo periodo le spoglie degli apostoli Pietro e Paolo e del martire Sebastiano. Ed è proprio a quest'ultimo che venne dedicata la Basilica in un crescendo di popolarità che lo vide protagonista come santo taumaturgo, nemico delle pestilenze, nonchè terzo patrono della città di Roma. L'iconografia rinascimentale ce lo consegna nei panni (succinti) di un giovanotto bello e prestante che, legato ad una colonna così come mamma l'ha fatto, viene trafitto dalle frecce in una celebre rievocazione del suo primo scenografico martirio (dico primo perchè in quel caso scampò alla morte in seguito alle cure della vedova Irene, per poi essere definitivamente giustiziato con un meno pittoresco bastonamento). 

Rappresentato originariamente come un vecchio barbuto, Sebastiano subì un notevole rifacimento del look durante il Rinascimento, probabilmente ispirato alla leggenda dove il santo appare al vescovo di Laon sotto le sembianze di un giovane efebo. Gli artisti rinascimentali lo trasformano dunque  in un sensuale e muscoloso ragazzotto, nella cui rappresentazione pittori e scultori dai più svariati orientamenti sessuali sfogarono con estrema dedizione il proprio culto per la bellezza delle forme anatomiche maschili. I turbamenti di Oscar Wilde al cospetto di una spassionata raffigurazione pittorica, opera del maestro Guido Reni, sancirono definitivamente il suo ingresso nell'olimpo dell'iconografia gay maschile, al fianco di più attuali personaggi come Madonna e Lady Gaga (e in quanto alla prima non mi riferisco ovviamente alla sua collega dei piani alti). La meravigliosa statua di Giuseppe Giorgetti, che da sola vale la visita della Basilica, collocata sul sarcofago all'interno della cappella dedicata, risponde esattamente ai suddetti canoni rappresentativi, e non stupisce che a realizzarla fu proprio un allievo del Bernini, già maestro di erotiche ambiguità nella realizzazione del suo capolavoro dedicato a S.Teresa D'Avila. E mentre vi invito ad approfondire per fatti vostri la produzione artistica legata al santo che, da Reni al Mantegna, fino alle psichedeliche rappresentazioni anni Settanta, si è reso protagonista di un eccezionale percorso iconografico in bilico tra sacro e profano, sposterò la vostra attenzione sul lato opposto della navata alla scoperta dei tesori della cappella delle reliquie. Tra queste potremo osservare nientedimento che un esemplare originale delle frecce che contribuirono a ridurre il povero Sebastiano "quasi ericius..." (ovvero, come scrisse l'autore della Passio in una scontatissima similitudine da seconda elementare, come un riccio ricoperto di aculei) e la porzione della colonna a cui venne legato.

Tra le reliquie si distingue una lastra di pietra accompagnata dalle parole "Quo Vadis", che riporta bene impresse delle curiose impronte di piedi sandalati. Narra la leggenda che l'apostolo Pietro, in fuga da Roma per sfuggire al martirio, incontrò Cristo sulla via Appia all'altezza dell'incrocio con la via Ardeatina, e così come è consuetudine in ogni incontro casuale, e a maggior ragione trattandosi di una persona defunta, lo accolse spontaneamente con la domanda "Quo vadis, Domine?" (Dove vai, Signore?). Rispose Gesù con nonchalance "Sto andando a Roma a farmi crocifiggere una seconda volta" (e dici niente!). La sottile risposta aveva il chiaro obiettivo di colpevolizzare l'apostolo per la propria vigliaccheria, essendo la corretta interpretazione la seguente: "tu scappi, e invece guarda un pò: io vado ad affrontare la morte". Che poi detto fra noi per uno già morto ce vole poco. Ad ogni modo Pietro colse il senso della frecciata e umiliato tornò indietro, dove fu infine martirizzato, probabilmente pensando che in un prossimo incontro avrebbe fatto meglio a farsi i sacrosanti affari suoi. In ricordo dell'episodio e come testimonianza dell'apparizione (o più semplicemente per essere finiti entrambi in un cantiere di rifacimento del manto stradale) rimasero impresse sulla strada le impronte dei piedi di Gesù. Il calco era originariamente conservato nella chiesa del Quo Vadis, edificata sul luogo dell'apparizione, e al cui interno viene oggi conservata solamente una copia dell'originale. E se ad Hollywood  se la tirano per la celebre passeggiata delle star con i calchi delle impronte dei più grandi attori del secolo (Mickey Mouse compreso), noi romani non siamo certo da meno e alle impronte di George Clooney rispondiamo nientedimeno che con quelle di Gesù Cristo!

Ma le sorprese non sono finite e in un'altra piccola (e a dire il vero piuttosto svilente) nicchietta scopriamo l'ultimo "ritrovato" capolavoro di Gian Lorenzo Bernini, quel "Salvator Mundi" scolpito prima della dipartita dell'artista e del quale si persero le tracce a partire dal 1773. Scovato nei  meandri del monastero della Basilica dopo lunghe peripezie e finti ritrovamenti bufala, è stato infine rimesso in esposizione solo a partire dal 2006, e colpisce in effetti che sia stato collocato nel primo scomparto libero della basilica con la stessa cura con cui sistemeremmo l'ennesimo soprammobile di troppo regalatoci a Natale.

Per coloro che non soffrono di claustrofobia (o di attacchi di panico alla scoperta del prezzo del biglietto: 8 euro, sinceramente ben spesi) la visita deve obbligatoriamente proseguire nel sottosuolo, lungo quel percorso sotterraneo, ma soprattutto temporale, che a partire da una vecchia cava di pozzolana, e passando per un'antica necropoli pagana, ci accompagnerà alla scoperta del culto segreto dei primi cristiani. Esplorare questi cunicoli tempestati di loculi, e riflettere sul fatto che si tratti solamente di una porzione infinitesimale di quell'immenso labirinto che corre sotto i nostri piedi, dà quasi un senso di vertigine, ed è eccitante pensare di potersi perdere tra centinaia di chilometri solo azzardando un fuoripista non consentito (autocitazione con link a tradimento), prendendo una diramazione a caso alle spalle della nostra guida. Il percorso obbligato si articola lungo tre tappe fondamentali, la prima delle quali è la cripta originaria dove venne collocata la tomba di San Sebastiano (perfettamente allineata con l'attuale sistemazione del sarcofago in superficie all'interno della basilica). La seconda tappa è la più stupefacente: ci ritroviamo infatti al cospetto di tre antichi mausolei pagani perfettamente conservati nelle loro decorazioni a stucco originali. L'effetto è quello dell'ingresso in una piccola città sotterranea. Il sorprendente stato di conservazione, che senza alcun bisogno di successivi interventi di restauro hanno riportato intatte fino a noi magnifiche volte decorate da raffinati stucchi e pitture originali raffiguranti banchetti funebri e antiche leggende pagane, è dovuto al conseguente interramento del complesso effettuato dai primi cristiani al fine di creare le basi per una costruzione successiva, terza e ultima tappa del nostro percorso sotterraneo. In cima ad una scala scopriremo infatti ciò che rimane della cosiddetta Triclia, ambiente sacro (originariamente coperto da una tettoia) destinato alla celebrazione di banchetti funebri dedicati alla memoria dei santissimi Pietro e Paolo. Sulla parete superstite possiamo oggi divertirci a interpretare i numerosi graffiti originali lasciati sulle mura dai devoti pellegrini di un tempo, degni antenati dei writers di oggi.

Vi consiglio questo viaggio nella storia in abbinamento a una passeggiata sulla via Appia Antica , che proprio a partire dalla Basilica di San Sebastiano si esprime in uno dei suoi tratti più affascinanti. Parleremo di questa strada unica al mondo e dei suoi innumerevoli tesori in altri post in futuro. Per il momento godetevela senza meta e senza preoccupazioni, e nel caso doveste incrociare una faccia conosciuta sulla via, tirate dritto e non fate domande!

La Basilica e le Catacombe di S.Sebastiano si trovano in Via Appia Antica 136 e sono visitabili dal lunedì al sabato tra le 9:00 e le 12:00 la mattina e tra le 14:00 e le 17:00 il pomeriggio.

p.s.
Grazie a Claudia e Luca per avermi accompagnato in questo itinerario! :)

domenica 15 aprile 2012

Dice "prendete e mangiatene tutti"


Se fino a questo momento la nostra esperienza con le confraternite romane si era limitata all'esplorazione di cripte polverose popolate di teschi, sarete indubbiamente sollevati nello scoprire che la consueta accoppiata “tibie e femori” verrà sostituita  in questo caso dall’infinitamente più rassicurante binomio “porchetta e coratella”: stiamo infatti per fare conoscenza con la confraternita dei macellai di Roma. L’occasione ci viene offerta dalle celebrazioni officiate dai confratelli nel corso della domenica delle palme, quando una solenne messa nello splendido cortile barocco di Palazzo Spada, a due passi dal loro quartier generale in Piazza della Quercia, anticipa la sentita (mini)processione che vede i macellai riportare il gonfalone con l’effigie della Madonna della Quercia nell’omonima chiesetta a lei dedicata. Un momento di devozione e partecipazione religiosa che esploderà nell’estasi multisensoriale di un ricco banchetto offerto dai confratelli in Piazza della Quercia , dove tra porchetta, salame, colomba e coratella, l’anticipo della colazione pasquale rappresenta una vera e propria celebrazione pagana del gusto e dei sapori più tradizionali.


L’origine della confraternita risale agli albori dell'era comunale, quando i rappresentanti delle professioni e dei mestieri iniziarono a riunirsi in associazioni e corporazioni (con fini e conseguenze di tipo economico e politico), dando vita alle cosiddette Università d’arti e mestieri. Quella dei macellai ebbe il suo momento di gloria e protagonismo quando, in occasione della devastazione messa in atto dai Normanni di Roberto il Guiscardo nel 1084, riuscì a difendere e mettere in salvo la sacra icona del SS. Salvatore Acherotipo conservata a S.Giovanni, e portata annualmente in processione tra il Laterano e S. Maria Maggiore. A riconoscimento dell’impresa i macellai vennero assurti a bodyguard ufficiali della preziosa icona, con lo scopo di preservarla dall’esaltazione violenta dei fan in delirio nel corso della stessa processione. Avvalendosi dell’uso di bastoni infuocati per tenere lontani i fedeli (i cosiddetti "stizzi", da cui il secondo appellativo di compagnia degli stizzi), e con quella grazia che è propria di ogni guardia del corpo, furono tuttavia gli stessi macellai a provocare tumulti e risse da processione, e quando per poco non "ci scappò il morto" e la sacra icona rischiò di essere abbrustolita da uno "stizzo", i nostri amici vennero infine licenziati e sostituiti da 39 nobili romani (in seguito la processione venne abolita).


Essendo principalmente di origine maremmana, fu grazie a loro che venne importato nella capitale il culto della Madonna della Quercia, molto diffuso nell'alto Lazio: un’immagine sacra lignea di semplice fattura e dagli attributi miracolosi, così chiamata in virtù dell’originaria collocazione tra i rami di una quercia nella campagna viterbese.  Fu così che Papa Giulio II affidò loro una fatiscente chiesetta per trasformarla in luogo di culto dove venerare la sacra icona, da cui la chiesa prese il nome (la quercia tuttora presente nell’omonimo piazzale sembra essere li semplicemente per confondere le idee). Con il passare del tempo si affiancò all'Università anche la confraternita religiosa, con la funzione di sopperire agli aspetti più umanitari e caritatevoli nei confronti degli associati. Rinnovata nei suoi statuti e nei patrimoni, la confraternita è sopravvissuta alla soppressione dell'Università ed è arrivata fino ai giorni nostri, perseguendo quegli stessi scopi originari di assistenza ai confratelli più bisognosi, con inoltre l’incarico di provvedere alla manutenzione della chiesa di loro proprietà e di "svolgere attività di rappresentanza della categoria degli esercenti macellai di Roma”.

Ed è proprio in questo mix di sacro e promozionale che si svolge la celebrazione della domenica delle palme. E mentre i più devoti assistono al rito nel sontuoso cortile di Palazzo Spada alla presenza di autorità civili, militari e religiose, i peccatori di gola si radunano all’esterno con ostentata nonchalance, intorno alle transenne che delimitano la tavolata già imbandita di ogni bene.  L’avvio della brevissima processione che dal cortile porta alla chiesa, rappresenta il metaforico campanellino del cane di Pavlov che annuncia l'imminenza del banchetto, e a quel punto dalla Madonna a Bacco il passo sarà breve e repentino.


I simpatici confratelli al centro dell’arena distribuiscono piatti alla folla che si accalca, rimpiangendo in cuor loro l’antica consuetudine di poter brandire gli stizzi infuocati, nel tentativo di gestire la perenne insoddisfazione degli astanti: “M’hai dato er piatto senza l’ovo sodo!!”, “Ma le posate nun ce stanno?”, “La coratella nun me ce piace..” (A signò lo vole o nun lo vole?). Con l'immancabile sarcasmo che rende speciale ogni autentico bottegaio romano, si destreggiano fra battute e insofferenza, e di fronte alla signora che chiede delusa come mai manchi la carne, si rivolgono alla volta di una fantomatica cucina: “Aò, so pronti gli straccetti der  tavolo 7?” (ma anvedi questa!). Anche il vino è abbondantemente offerto, in perfetta sintonia con lo spirito assistenziale sancito dagli statuti, e quando tutti hanno infine ottenuto l’agognato piatto, il banchetto collettivo si assesta finalmente all’ombra della quercia, la stessa che da secoli si contende con la Madonna l'origine toponomastica della piazza. La vista di eleganti e dignitose signore che riempiono le loro borse di salame e porchetta, accende per un momento quella scintilla di ribellione, sconforto e solidarietà sociale verso le nuove vittime della maledetta crisi, scintilla che dura giusto il tempo di mettere a fuoco le griffe delle suddette borse e riconoscere nei loro discorsi le privilegiate residenti del centro storico, con la conseguenza che la stretta al cuore lascia immediatamente spazio al desiderio di una stretta al collo. Il banchetto è terminato e anche la mattinata è giunta alla sua conclusione, e tra la folla dei “fedeli” che si disperdono si sente qualcuno che osa: "vabbè s’è fatta ora de pranzo, conosco una trattoria qua vicino…”




martedì 1 novembre 2011

Pasquino dice che..

Analizzare il tema dell'informazione al giorno d'oggi sarebbe impresa troppo dura e sconfortante. Fortunatamente la proliferazione in internet di siti e blog di controinformazione moltiplica le possibilità di confrontarsi con punti di vista differenti da quelli di un inclassificabile Emilio Fede o Augusto Minzolini, mentre sui social network, tra bufale e grandi verità, impazza la condivisione delle notizie e un nuovo modo di fare satira, decisamente più democratico e meno radical chic di quella a cui siamo stati abituati dalle nostre televisioni. Se questo fenomeno di controinformazione e satira popolare ci sembra una svolta possibile solo grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, allora è proprio il caso di dire che anche questa volta "nun ce siamo inventati niente":  perchè se oggi riusciamo a "postare" su facebook il nostro sdegno dal sorriso amaro con un semplice clic, i nostri indignatissimi antenati i loro "post" solevano appenderli al collo di una antica e malandata statua tornata alla luce nel 1501 nei pressi di Piazza Navona.

Questo busto di pietra dal volto sfigurato, ritenuto da alcuni la statua di un guerriero Greco (probabilmente parte di un gruppo scultoreo più grande) venne rinvenuto nel corso dei lavori di ristrutturazione del vecchio palazzo Orsini in Piazza di Parione (oggi Piazza Pasquino), per conto del nuovo inquilino il Cardinale Oliviero Carafa. L'ingenuo Cardinale pensò bene di esporre il frutto di questa scoperta archeologica allo scopo di abbellire l'arredo urbano della piazzetta antistante il suo nuovo palazzo, e mai avrebbe pensato che, da quel momento in poi, fino al conclusivo episodio della breccia di porta Pia, questa scelta si sarebbe rivoltata contro se stesso e tutta la successiva stirpe di vescovi e cardinali della cosiddetta roma papalina. A partire da allora cominciarono infatti a trovarsi ogni mattina sulla statua messaggi, cartelli e veri e propri manifesti di dissenso, che facendo dell'ironia la loro arma più tagliente, inaugurarono l'era della satira popolare e accessibile a tutti: il potere ecclesiastico del tempo si trasformò dunque in bersaglio delle cosiddette "Pasquinate". Il nome Pasquino, secondo antica tradizione popolare, sembrerebbe riferirsi a un noto sarto del rione, conosciuto e apprezzato nel quartiere proprio in virtù  delle sue rime e invettive satiriche. Se ancora oggi si cerca di limitare la libertà di espressione in rete con leggi bavaglio ed infimi espedienti limitativi come l'obbligo di rettifica per i blog (per adesso scampato), anche allora non ci si risparmiava di certo nel tentare di oscurare la voce popolare, e considerato il mezzo, la soluzione si presentava ben più semplice rispetto agli attuali marchingegni legislativi: secondo papa Adriano VI, simbolo dei più biechi intrallazzi nepotistici e più volte vittima di invettive, sarebbe stato infatti sufficiente gettare la statua nel fiume Tevere! Fortunatamente, in questa come in altre occasioni, il desiderio di annegare Pasquino venne fermato dalla forza della ragione di chi faceva notare come la repressione avrebbe solo causato più malcontento.

Non solo papi e vescovi divennero le vittime preferite delle Pasquinate, ma anche i vip dell'epoca e personaggi influenti della vita politica. Ne sa qualcosa Donna Olimpia Maidalchini, cognata di Innocenzo X e vera e propria manovratrice politica della prima metà del seicento (tanto che venne soprannominata ironicamente la papessa, o peggio ancora "la pimpaccia"). Di colei che faceva il bello e il cattivo tempo usando ogni mezzo per consolidare il suo immenso patrimonio, rimane celebre la Pasquinata che con un geniale gioco di parole in latino così restituiva il suo nome "OLIM-PIA, NUNC-IMPIA" (una volta pia, ora empia). Nonostante la promulgazione di leggi repressive con il rischio di condanna a morte, studenti della vicina università e letterati dell'epoca continuarono nei secoli a dare vita all'unica vera voce di opposizione allo sconfinato potere temporale dei papi, vivi o appena morti che fossero ( Pasquinata celebre alla morte di papa Clemente VII, fu l'esposizione di una caricatura del suo medico, ritenuto in parte responsabile del decesso, accompagnato dalle parole "ecco colui che toglie i peccati del mondo").

Tutta questa attività politico-creativa sembrò dover cessare definitivamente con la fine del potere temporale del papato e l'inizio della nuova era Risorgimentale, ma Pasquino si era ormai consolidato come espressione della coscienza popolare dei Romani, e non fu difficile trovare nel tempo i degni sostituti di un potere temuto e allo stesso tempo ridicolizzabile. A tal proposito ricordiamo l'invettiva che diede voce alla "statua parlante" in occasione della visita di Hitler a Roma, pomposamente agghindata per l'occasione in un eccesso di fastosa apparenza: "Povera Roma mia de travertino, te sei vestita tutta de cartone, pe' fatte rimirà da 'n'imbianchino" (alludendo alle sue dubbie qualità pittoriche, carriera in cui sarebbe stato meglio avesse perseverato). Probabilmente oggi, epoca in cui i fasti di una seicentesca cortigianeria, trionfo di puttane e adulatori, ritrovano la loro massima espressione di un tempo, senza gli attuali mezzi di comunicazione Pasquino tornerebbe protagonista indiscusso della satira, seppellito quotidianamente da montagne di componimenti. In ogni caso la tradizione persiste, e se passerete a salutarlo vi renderete conto che non molto è cambiato, se non i destinatari delle missive: una volta papi e cardinali e oggi rappresentanti dis-onorevoli della cosiddetta "casta" politica. Purtroppo l'attuale bacheca di legno messa a lato della statua per l'esposizione degli insulti in rima, toglie spontaneità a quelle invettive fino a pochissimi anni fa affisse direttamente alla sua base, come se tale obbrobrio in rovina dovesse venire preservato per il suo valore estetico e non invece valorizzato per la sua funzionalità riconosciuta e legittimata da oltre cinque secoli di colti improperi. Ma se vi sentirete abbastanza creativi e incazzati nessuno vi impedirà, ora che non ci sono più le sentinelle di Clemente VIII a farvi rischiare una condanna a morte,  di affiggere nottetempo un cartello al collo di Pasquino alla vecchia maniera, e rendere così omaggio allo stile dei vecchi contestatori .
Nel frattempo possiamo comunque goderci la bacheca così com'è, con questo originale annuncio di offerta di lavoro, in pieno stile "Pasquinata":