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giovedì 26 dicembre 2013

Dice che a Natale bisogna ricordasse pure de Mitra

Roma è una città che va letta strato dopo strato come un'unica storia senza interruzioni, dove ogni cosa è stata qualcos'altro, in un continuo processo di cambi di identità che neanche le spie della guerra fredda. Scavare nel proprio passato per trovare il prima, l'altro, la causa, non è psicologia d'accatto, ma è leggere Roma, ed è quello che rende questa città unica al mondo. A Roma si guarda indietro e poco avanti, sotto ma non sopra, fino al paradosso di ritrovarci con pochissime stazioni metro e un sacco di Mitrei. E il prossimo che prova a dire che a Londra e Berlino "ce stanno molte più linee della metropolitana" lo spedisco a calci in culo a Londra e Berlino, perchè alla fine tutto questo passato sotto i piedi bisogna anche un pò meritarselo.

Nel sottosuolo di Roma esistono diversi Mitrei, templi sotterranei dedicati al culto della divinità orientale Mitra, il giovane dio dal berretto frigio. Si può dire che il Mitraismo abbia preceduto e posto le basi per la diffusione del nostro attuale Cristianesimo, anche e soprattutto da un punto di vista architettonico: i Mitrei romani si trovano infatti spesso al di sotto delle chiese cristiane, soppiantati fisicamente in quell'inevitabile processo di distruzione, riappropriazione e assorbimento del paganesimo. La nostra possibile alternativa in uno "sliding doors" delle religioni, se l'imperatore Costantino o chi per lui non avesse deciso diversamente. Il mitreo di Santa Prisca è quello che meglio ci racconta questo culto attraverso gli stucchi e le tracce dei suoi affreschi, illuminando in parte una tradizione misterica che non ha lasciato nulla di scritto, e dove solo gli adepti avevano la facoltà di tramandare oralmente le complesse regole e i rituali. Il culto venne importato a Roma dall'oriente dai legionari che facevano ritorno dalle campagne nelle provincie dell'est. Si basava sul concetto di fedeltà, di patto (mitra) ed era caratterizzato da dure prove di iniziazione, per un rituale che vedeva il suo culmine in un grandioso banchetto di gruppo. L'ideale per un soldato fomentato che tra cameratismo, prove di forza per "scoattare" e una sbronza collettiva, sembrava aver trovato la strada più consona per avvicinarsi alla spiritualità. Decisamente un affare per soli uomini che, nel suo percorso iniziatico e nell'elemento di esclusività maschile, ricorda molto una sorta di massoneria ante-litteram. Il culto originale venne infine modificato e alleggerito, lasciando al centro il simbolismo di Mitra, inviato dal dio sole per creare e fecondare la terra.

Come tutti gli altri, anche il mitreo di Santa Prisca si presenta con le caratteristiche di una grotta, a rappresentare il luogo della nascita del dio (vi ricorda qualcosa? provate a dare un'occhiata al presepe in soggiorno), dove al centro dell'ambiente campeggia la scena madre, cuore dell'intera religione: la cosiddetta "tauroctonia", l'uccisione del toro con un pugnale da parte di Mitra, l'atto con il quale tutto ha inizio. A differenza degli altri mitrei in questo caso la scena è rappresentata come un bassorilievo a stucco e si caratterizza per la curiosa presenza del dio Saturno sdraiato, realizzato principalmente attraverso il riciclo di "cocci" di anfore, probabilmente da qualche scultore alternativo, antesignano moderno degli artisti radical-chic-eco-riciclatori di materiali per opere d'arte.

Mitra ci appare col suo svolazzante mantello rosso e una divertente espressione da "bambacione" (in questo caso senza il berretto frigio, che effettivamente sarebbe stato troppo). Colui che si presenta come un moderno Superman sovrappeso de Torpigna è in realtà il dio che salva il mondo, lontano anni luce dal sexy hipster suo "concorrente" che ci hanno abituato a vedere nelle fiction nostrane sotto Natale. Mitra nasce secondo la tradizione dalla nuda roccia in una grotta (ma non al freddo e al gelo come verrebbe voglia di cantare in questo periodo) nel giorno del sol invictus: quel 25 dicembre riciclato in ogni culto pagano, e successivamente cristiano, come giorno della nascita della luce, e quindi della salvezza. Egli salverà il mondo con un atto di forza: la tauroctonia, l'uccisione del toro dal cui sangue e sperma si feconderà la terra e nascerà la vita. Un orgia di sangue e animali con un preciso simbolismo, con il cane e il serpente che lambiscono il sangue e uno stronzissimo scorpione che attenta alle palle del toro per evitare che il suo seme fecondi la terra per portare la rinascita. Questa affascinante visione ritualistica dal sapore agrario, acquista in realtà una simbologia ancora più universale. Da quest'atto si crea infatti l'universo a partire dalla barbarie primordiale e scaturisce il movimento dei pianeti che danno vita al tempo, altro elemento fondamentale del culto mitraico, che eviterò di sciorinarvi, un pò per la sua complessità e un pò perchè in fondo, mancando precisi riferimenti scritti, si tratterebbe solo di ipotesi e dissertazioni prive di un'assoluta veridicità (e con questa me la so' sfangata). L'ingresso alla grotta del mitreo di santa Prisca riporta simbolicamente al concetto di tempo grazie alla presenza, a mò di guardiani, di ciò che rimane delle statue dei due giovani dadofori (portatori di fiaccole), uno con la fiaccola abbassata e l'altro con la fiaccola alzata: l'inizio del tempo e la sua fine, con il dio Mitra che ne assurge allo zenith. Una sorta di trinità temporale che si esaurisce in un ciclo, come una rappresentazione teatrale del mondo dove Cautes e Cautopates (questi i loro nomi) sono le maschere che accompagnano e congedano il pubblico per la visione del più grande spettacolo (dopo il big bang, direbbe Jovanotti).


Altra caratteristica importante del mitreo di santa Prisca è l'affresco, ormai consumatissimo, in cui viene rappresentata una curiosa processione che finalmente ci illumina su quelli che ragionevolmente potevano essere i sette gradi di iniziazione al culto mitraico. Un percorso fatto di sette livelli, ciascuno tutelato da un pianeta. Si parte dal "Corvo", il messaggero del Sole che stipula il patto con Mitra conducendolo alla tauroctonia. Seguono il "Ninfo" (stato di elevazione spirituale, tutelato da Venere), il Miles (il soldato, tutelato da Marte e al cui status corrispondeva il superamento di dure prove in stile confraternita universitaria, tipo l'immersione in una pozza d'acqua gelida), il "Leone" (protetto da Giove, incaricato di occuparsi della celebrazione del banchetto, in poche parole quello che porta le birre e passa tutto il tempo davanti alla brace durante i barbecue) e infine il "Persiano" (chiaro riferimento all'origine orientale del culto, protetto dalla Luna) e l'"Eliodromo", il grado più alto e più vicino alla divinità, secondo solo all'ultimo, sommo livello: quello del Pater, l'identificazione stessa del dio in terra. Per tornare al simpatico Leone, l'affresco sulla parete sinistra rappresentava la processione dei Leoni nell'atto di portare le libagioni (con tori, galli e maiali), mentre alla fine scorgiamo il Sole e Mitra che banchettano insieme (notate nella foto uno splendido sole dotato del familiarissimo simbolo dell'aureola). Un ultima curiosità sul mitreo di S. Prisca è la presenza di un ulteriore ambiente sulla sinistra, ritenuto essere una sorta di spogliatoio per la preparazione della celebrazione, dove evidentemente anche l'estetica dei costumi era necessaria per fare la propria porca figura.

Esistono numerosissimi punti di contatto tra Mitraismo e Cristianesimo (la nascita del dio in una grotta il 25 dicembre, la presenza dei pastori, il concetto di trinità, l'elevazione spirituale verso un regno dei cieli in una concezione salvifica e catartica), per quanto l'estetica della ritualità si discosti notevolmente, e il banchetto pane e vino della liturgia cristiana risulti infinitamente più sobrio. Sta di fatto che fu proprio il Cristianesimo a soppiantare questo culto, enormemente diffuso fino al terzo secolo dopo Cristo, forse a causa dei suoi limiti riscontrabili in una partecipazione di base troppo elitaria e misterica, che escludeva le donne, o forse semplicemente per una scelta politica, quando Costantino decise di convogliare tutte le esigenze di spiritualità del popolo romano verso un'unica religione, che possibilmente presentasse tutti i vantaggi di un controllo politico: monoteista, universale e soprattutto controllabile, ovvero, per tornare a Mitra, "alla luce del sole". Quello stesso sole che vi invito riscoprire nei nostri sotterranei, in quelle grotte artificiali dove ancora oggi è possibile respirare il fascino del mistero e tutta la suggestione di un culto arcano e ancora sconosciuto. E se a Berlino c'hanno la metro, bhe...noi c'avemo Mitra. E scusate se è poco.

Il mitreo di S.Prisca si trova in via di S.Prisca all'Aventino (nei sotterranei dell'omonima chiesa) ed è visitabile solo su prenotazione chiamando al numero 06 399 67 700.


lunedì 10 dicembre 2012

Dice che i "Baptai" festeggiavano alla grande


Nell'elegante quiete borghese del quartiere Pinciano, qualora riteniate che gli unici segreti custoditi dai garage siano i lussuosi macchinoni dei residenti, sarete sorpresi di scoprire che proprio lungo l'anonima rampa di accesso ad un garage condominiale si nasconde uno dei più affascinanti ed enigmatici sotterranei di Roma: il misterioso Ipogeo di via Livenza, situato appunto tra via Livenza e via Po. Il motivo di tale generica denominazione è dato dalla mancata identificazione della funzionalità di questo sito. Ipogeo  (letteralmente dal Greco upo/sotto geo/terra) sta in effetti ad indicare un imprecisato luogo sotterraneo, motivo per il quale la prossima volta che dovrete scendere in cantina a recuperare una bottiglia di vino potreste di diritto cimentarvi in un altisonante "scendo n'attimo a prende n'artra boccia giù all'ipogeo". Il che susciterà certamente l'ammirazione (e qualche vaffa) da parte dei vostri commensali. Ma da dove nascono questi dubbi interpretativi sulla natura del luogo? Innanzitutto possiamo notare che l'ipogeo venne originariamente concepito come sotterraneo, il che ci viene confermato dal fatto che per accedere al suo interno ci troveremo a discendere i gradini originali della struttura. Purtroppo gran parte dell' ambiente è stato sacrificato dai lavori di costruzione dei palazzi sovrastanti, quando nell'impeto distruttivo dei palazzinari di inizio secolo scorso, solo la sezione più settentrionale venne risparmiata, forse per caso o forse in virtù dell'eccezionalità dell'impianto decorativo. Di quello che doveva essere un ambiente ellittico rimane dunque solo questa piccola porzione, consistente in una piscina, una splendida nicchia riccamente affrescata e i residui di una coloratissima decorazione mosaicale.


Prima di addentrarci nelle possibili interpretazioni, sarà bene descrivere i soggetti decorativi e la struttura della vasca-piscina, per raccogliere i primi indizi ed iniziare quindi a formulare le diverse ipotesi. La piscina è un vascone profondo due metri e mezzo foderato in cocciopesto, nel quale si accede attraverso tre gradoni piuttosto alti (il primo è stato riciclato da una lapide con un intuizione death-design piuttosto notevole). Sia l'altezza del fondo che quella del gradino iniziale fanno sorgere i primi dubbi in merito ad un possibile utilizzo a scopo ricreativo. Basti immaginare a come reagiremmo se andassimo in una Spa e ci ritrovassimo una vasca idromassaggio alta tre metri (lapide a parte), senza considerare inoltre che la presunta "bassezza" dei nostri antenati avrebbe contribuito a rendere la cosa ancora più seccante. L'acqua sgorgava direttamente da una sorgente naturale preesistente per mezzo di un tubo di terracotta, mentre per lo svuotamento e il ricambio notiamo sulla sinistra un ingegnoso sistema di apertura e chiusura a scorrimento tipo saracinesca.


Sovrasta la vasca una splendida nicchia riccamente decorata sia all'interno che ai suoi lati. Sul lato sinistro troviamo la figura di Diana/Artemide nell'atto di estrarre una freccia dalla faretra per cacciare un cervo, mentre sul lato opposto una ninfa animalista accarezza un piccolo bambi. Il tutto in un ambiente agreste rappresentato con notevole padronanza della prospettiva e dei chiaro-scuri. A prima vista potremmo quindi dedurre di trovarci al cospetto di personaggi e simbologie pagane. In realtà, se andiamo a curiosare sui resti della decorazione a mosaico nella parete laterale, scopriremo i dettagli superstiti di una rappresentazione a soggetto cristiano, dove si percepisce la figura di un uomo inginocchiato davanti ad una fonte, affiancato da un'altra figura in piedi. Secondo l'iconografia cristiana sembrerebbe rappresentare l'episodio di Pietro che fa scaturire l'acqua da una fonte per dissetare (e simbolicamente battezzare) un centurione. Quindi un episodio decisamente legato alla "nuova" religione. Tutto intorno amorini ed eroti dediti a scene di vita acquatica e fancazzismo marino (chi pesca, chi gioca coi cigni, chi nuota).

Per fare un pò più di chiarezza sarà bene definire il contesto storico in cui ci troviamo, accertato con precisione dalla presenza di un bollo (il marchio di fabbrica) con il monogramma di Costantino impresso su un mattone che ci riporta immediatamente in epoca Costantiniana, e dunque nella seconda metà del IV secolo D.C.. Costantino fu il primo imperatore ad ammettere e conseguentemente a istituzionalizzare il cristianesimo dopo secoli di persecuzioni, seguito da Giuliano l'Apostata che tentò un breve revival del paganesimo, fino alla definitiva consacrazione del cristianesimo come unica religione di stato da parte di Teodosio. Tutto questo ci fa comprendere quindi come in un'opera di quel periodo potesse essere normale trovare confusamente affiancati simboli del cristianesimo e retaggi del paganesimo. E chissà che addirittura non si fosse utilizzata la figura di Diana come metafora del paganesimo che scaccia i cervi (cristiani) in opposizione alla ninfa che li accoglie e accarezza (interpretazione decisamente forzata per i miei gusti). L'immagine di Pietro alla fonte e tutta una serie di elementi che rimandano all'acqua potrebbe quindi far supporre la funzionalità del luogo a battistero cristiano. Ma anche in questo caso un battesimo in due metri e mezzo di vasca risulterebbe un operazione piuttosto complessa, e quindi poco convincente.


Infinitamente più affascinate è l'ipotesi che rimanda alla setta misterica di origine Tracia dei cosiddetti Baptai, adoratori di una certa dea Cotys, in tutto e per tutto assimilabile ad Artemide. Questo spiegherebbe allo stesso tempo la presenza di Diana e quella di una vasca più profonda. In effetti quello che oggi potrebbe apparirci come un Rave finito male, consisteva allora in un preciso schema rituale, dove in un crescendo di alcol e pratiche orgiastiche, la presenza dell'acqua e quindi di una vasca risultava fondamentale per accompagnare i partecipanti all'apice della festa con un tuffo nell'acqua gelata. Il conseguente shock termico subito in condizioni da "ritiro patente" era coraggiosamente definito dagli adepti come "shock dell'estasi". E allora come giustificheremmo la presenza del Pietro battista? Come per il culto Mitraico, dove ritroviamo numerose analogie con la religione cristiana, non sarebbe così strano poter ammettere una coesistenza di simboli (quelli che so' strani forte sono al limite i Baptai). Numerose altre ipotesi vanno dal troppo generico (luogo segreto destinato a riti magici) al decisamente più logico (luogo di riunione di una setta sincretista, corrente religiosa in cui convergono simbologie e pratiche provenienti da più religioni diverse), ma se la soluzione fosse infine quella più semplice? Nei pressi della frequentatissima via Salaria, la consolare che tagliava l'Italia dal Tirreno all'Adriatico per permettere il trasporto del sale dal guado del Tevere alla Sabina (Salaria dunque da sale, per chi ancora stesse cercando di capire chi fosse il console "Salario"), sgorgava al tempo una sorgente d'acqua. Allo sbocco di questa sorgente si decise dunque di costruire un ninfeo, una sorta di autogrill alle porte della città per dare modo ai viaggiatori appena arrivati di rinfrescarsi e poter fare una sosta rigenerante. La decorazione "mista" risulta dunque una scelta di ruffiano "marketing" della tolleranza, che nel flusso cosmopolita dei viaggiatori, tradizionalisti pagani e neo-riconosciuti cristiani, aveva l'obiettivo di non scontentare nessuno.
Io dico che quest'ultima ipotesi non fa una piega, ma se qualcuno dovesse aprire domani su facebook l'evento "festa baptai"..fate conto che ho già cliccato su "parteciperò".


Per accedere al sito il consiglio è di rivolgersi ad associazioni specializzate come "Roma Sotterranea" o "i sotterranei di Roma"., che organizzano visite periodiche all'ipogeo.

giovedì 1 novembre 2012

Dice che a Roma ce stanno le palme sotto terra


Nell'immaginario collettivo le catacombe sono sempre state erroneamente considerate il nascondiglio segreto dei Cristiani ai tempi delle persecuzioni. Dico erroneamente perché in effetti risulta difficile credere che i Romani, conquistatori di un impero immenso per estensione e complessità, e i cui confini si estendevano dal Medio Oriente alla Britannia, fossero così imbecilli da non accorgersi di quello che avveniva nel frattempo in casa propria, sotto i loro stessi piedi "calzarati". Se dunque non volessimo sottovalutare l'intelligenza dei nostri antenati, dovremmo rassegnarci al fatto che le catacombe altro non fossero che semplici cimiteri sotterranei, che solo in rare occasioni venivano utilizzati per officiare "in segreto" la liturgia Cristiana (attività che normalmente si svolgeva privatamente nelle domus dei patrizi convertiti alla nuova religione, in un contesto decisamente meno umido). Ad ogni modo questo genere di sepoltura sotterranea non va certo considerata come esclusiva dei Cristiani, in quanto la ritroviamo molto in voga sia tra i concorrenti  "pagani", sia tra le prime comunità ebraiche presenti a Roma. E proprio di queste ultime ci occuperemo in questo post.


Le catacombe di Vigna Randanini risultano le più conservate tra le 6 catacombe ebraiche attualmente conosciute nel nostro territorio, e sono situate all'interno della proprietà privata della nobile famiglia dei Gallo di Roccagiovine. Riuscire ad approfittare delle rare aperture speciali del sito è un'ottima occasione per godersi un'avventura casareccia da affrontare all'interno dei confini del raccordo, in particolare quando muniti di lampada e caschetto, ci trasformeremo in breve nell'alter ego provinciale e un pò coatto del sempre mitico Indiana Jones. La prima caratteristica che decreterà la vittoria di catacombe ebraiche contro catacombe cristiane 1-0, in particolar modo per il pubblico dei claustrofobici, è l'apprezzabile larghezza dei corridoi rispetto ai rispettivi delle anguste colleghe cristiane. Ai lati di questi spaziosi viali sotterranei si alternano i classici loculi con le relative targhe, che oltre a fornirci lo spunto per intrattenerci con l'interpretazione delle epigrafi, ci presentano una carrellata dei simboli tipici delle sepolture ebraiche, tra cui ricorrono in particolare il frutto del cedro, la pergamena (nel caso di sepoltura di un "grammatico"), e il mazzetto di erbe aromatiche.


In ogni angolo troneggia sempre e comunque la Menorah, il famoso candelabro a sette bracci simbolo della religione ebraica, trafugato dal tempio di Gerusalemme dall'imperatore Tito come trofeo di guerra per sancire la propria schiacciante vittoria in Giudea. L'episodio venne celebrato con un bassorilievo sull'arco di Tito, celebre monumento dei nostri Fori Romani, rispetto al quale divenne obbligo morale e consuetudine per ogni ebreo romano il categorico rifiuto di passarvi sotto. La millenaria tradizione si è interrotta solo nel recente 1997, con la clamorosa decisione del rabbino capo Toaff di celebrare la Chanukkà con l'accensione della prima fiammella esattamente sotto quell'arco, odiato simbolo della prima grande disfatta del popolo Ebraico. La misteriosa sparizione della Menorah, secondo alcuni andata distrutta, secondo altri nascosta in qualche luogo segreto, rimane avvolta dalla leggenda. Ma noi, da bravi romani quali siamo, vogliamo fidarci di quanto racconta il Belli in un sonetto:

"Mò nun c’è più sto Cannelabbro ar monno.
Per èsse, c’è; ma nu lo gode un cane,
perché sta giù ner fiume a fonno a fonno.
Lo vòi sapé lo vòi dov’arimane?
Vicino a Ponte rotto; e si lo vonno,
se tira su per un tozzo de pane."

Proseguendo il nostro percorso lungo le gallerie, avremo modo di apprezzare, con un tocco di esotismo mortuario, un genere di sepoltura di origine orientale detta Kokh, scavata perpendicolarmente verso il basso rispetto al più classico loculo. Sembrerebbe che in realtà i Kokhim servissero solo come camera di decomposizione, prima che le ossa rimaste fossero successivamente riposte in un più consono ossuario.
Come incidente di percorso ci si presenta improvvisamente il più classico tra gli ostacoli o trappole generalmente presenti in ogni film di Indiana Jones che si rispetti. All'altezza di un pozzo-lucernario ci attende infatti la temibile tribù dei ragni grillo, un incrocio nefasto che unisce alla naturale repulsione per ogni forma di vita aracnide, l'elemento ansiogeno del salto a tradimento. La guida ha la delicatezza di comunicarcelo in un misto tra indifferenza e perverso piacere con un monocorde "qui fate attenzione ai ragni-grillo, che potrebbero saltarvi addosso" (mentre nella mia testa un accorato "MORIREMO TUTTI!" sarebbe stato più consono alla situazione).


A riprenderci dallo sgomento si apre ai nostri occhi la vista della prima delle due camere sepolcrali affrescate. La decorazione, in questo caso piuttosto danneggiata, ci riporta alle origini del popolo ebraico, con una curiosa rappresentazione di palme da dattero disposte sui quattro lati del cubicolo. Ed è proprio in presenza di questi piccoli dettagli che si rimane catturati dal fascino della continua scoperta e della complessità di una storia millenaria, che solo Roma riesce a regalarci senza mai smettere di stupire: ci troviamo probabilmente sotto il giardino di una delle meravigliose ed inavvicinabili ville dell'Appia antica, o all'altezza di un incrocio della trafficata via Ardeatina, e proprio qui, nel silenzio del sottosuolo, ci ritroviamo ad ammirare quattro palme da dattero dipinte più o meno duemila anni prima, e che ancora riescono a trasmettere tutta la nostalgia di un popolo per gli elementi naturali della propria terra d'origine. Purtroppo il resto dell'ambiente risulta danneggiato da interventi successivi di allargamento, e dopo una rapida occhiata a quello che rimane delle altre decorazioni, riprendiamo il nostro percorso.

L'itinerario prosegue, ed è forte la tentazione di defilarsi per esplorare una delle tante diramazioni, immaginando di poter testimoniare chissà quali scoperte. Il punto di arrivo e il culmine della visita è rappresentato dall'ultima camera sepolcrale, divisa in due ambienti distinti. La ricchissima decorazione sembra convergere verso gli elementi centrali delle volte, rappresentati nel primo ambiente da una vittoria alata nell'atto di incoronare un giovane nudo, e nel secondo da Fortuna con una cornucopia in mano (preferivate la foto del primo?). Tutto intorno si dispiega un'alternanza di figure animali e floreali che si concentrano sul tema dei volatili nella prima camera e dei pesci nella seconda. Questo insolito impianto decorativo, composto da simbologie piuttosto classiche e in parte legate a ritualità politeiste, ha fatto pensare ad un preesistente utilizzo pagano di questa sezione della catacomba, ma in realtà è lecito ritenere che si tratti semplicemente di una moda dell'epoca, ripresa dagli ebrei a puro scopo decorativo (un pò come quando arrediamo casa appendendo maschere africane, senza che questo implichi necessariamente il nostro coinvolgimento in riti animisti e danze tribali nel soggiorno di casa). L'intera superficie delle pareti è coperta da graffiti di visitatori risalenti agli anni '30 del secolo scorso, con le classiche diciture di nome, data e attestazione di presenza sul genere "anche noi siamo stati qui". Dopo l'iniziale sconcerto per un tale scempio, che farebbe apparire al confronto un qualsiasi writer metropolitano come l'incarnazione della civiltà e del rispetto del decoro urbano, cominciamo infine a guardare con interesse anche a questa ulteriore testimonianza storica di un periodo recente, in cui il concetto di preservazione dei beni culturali non era stato evidentemente ancora assorbito.
Alla fine, non paghi dell'attacco dei ragni grillo, abbiamo deciso di non farci mancare nemmeno i fantasmi. E per concludere in pieno stile "puntata di Mistero" ( probabilmente con la medesima "autorevolezza" di Raz Degan e Daniele Bossari ), sottopongo anche a voi lettori l'inquietante fotografia scattata nei sotterranei, dove alla destra del ragazzo col giubbotto nero (ultimo della fila), si riconosce la minacciosa presenza di tre figure umane. Fantasmi, effetto ottico o bastardissima applicazione dell' I-phone? Probabilmente non lo sapremo mai.


L'ingresso alle Catacombe ebraiche di Vigna Randanini si trova su via Appia Pignatelli 4. Per visitarle è necessario fare affidamento ad una delle tante associazioni culturali romane che periodicamente organizzano visite guidate (tra le altre vi consiglio www.sotterraneidiroma.it).






lunedì 17 settembre 2012

Dice Pietro: "Quo vadis, domine?" ('ndo vai, Signò?)

Se due linee di metro messe in croce non possono certo definirsi rappresentative di un underground metropolitano degno di questo nome, la prospettiva cambia completamente quando andiamo a considerare le oltre sessanta catacombe che si diramano per centinaia di kilometri nel sottosuolo romano: una serie apparentemente infinita di percorsi sotterranei che farebbe venire il mal di testa persino a Lara Croft (ma purtroppo decisamente poco pratici ai fini della mobilità pubblica di cittadini e pendolari). Le catacombe di San Sebastiano sulla via Appia antica, situate al di sotto dell'omonima Basilica intitolata al martire, sono tra le uniche cinque regolarmente aperte al pubblico.

L'attuale Basilica risale al XVII secolo e venne riprogettata sulla base del precedente edificio Costantiniano, opportunamente innalzato nel IV secolo D.C. sul luogo dove secondo tradizione riposarono per un certo periodo le spoglie degli apostoli Pietro e Paolo e del martire Sebastiano. Ed è proprio a quest'ultimo che venne dedicata la Basilica in un crescendo di popolarità che lo vide protagonista come santo taumaturgo, nemico delle pestilenze, nonchè terzo patrono della città di Roma. L'iconografia rinascimentale ce lo consegna nei panni (succinti) di un giovanotto bello e prestante che, legato ad una colonna così come mamma l'ha fatto, viene trafitto dalle frecce in una celebre rievocazione del suo primo scenografico martirio (dico primo perchè in quel caso scampò alla morte in seguito alle cure della vedova Irene, per poi essere definitivamente giustiziato con un meno pittoresco bastonamento). 

Rappresentato originariamente come un vecchio barbuto, Sebastiano subì un notevole rifacimento del look durante il Rinascimento, probabilmente ispirato alla leggenda dove il santo appare al vescovo di Laon sotto le sembianze di un giovane efebo. Gli artisti rinascimentali lo trasformano dunque  in un sensuale e muscoloso ragazzotto, nella cui rappresentazione pittori e scultori dai più svariati orientamenti sessuali sfogarono con estrema dedizione il proprio culto per la bellezza delle forme anatomiche maschili. I turbamenti di Oscar Wilde al cospetto di una spassionata raffigurazione pittorica, opera del maestro Guido Reni, sancirono definitivamente il suo ingresso nell'olimpo dell'iconografia gay maschile, al fianco di più attuali personaggi come Madonna e Lady Gaga (e in quanto alla prima non mi riferisco ovviamente alla sua collega dei piani alti). La meravigliosa statua di Giuseppe Giorgetti, che da sola vale la visita della Basilica, collocata sul sarcofago all'interno della cappella dedicata, risponde esattamente ai suddetti canoni rappresentativi, e non stupisce che a realizzarla fu proprio un allievo del Bernini, già maestro di erotiche ambiguità nella realizzazione del suo capolavoro dedicato a S.Teresa D'Avila. E mentre vi invito ad approfondire per fatti vostri la produzione artistica legata al santo che, da Reni al Mantegna, fino alle psichedeliche rappresentazioni anni Settanta, si è reso protagonista di un eccezionale percorso iconografico in bilico tra sacro e profano, sposterò la vostra attenzione sul lato opposto della navata alla scoperta dei tesori della cappella delle reliquie. Tra queste potremo osservare nientedimento che un esemplare originale delle frecce che contribuirono a ridurre il povero Sebastiano "quasi ericius..." (ovvero, come scrisse l'autore della Passio in una scontatissima similitudine da seconda elementare, come un riccio ricoperto di aculei) e la porzione della colonna a cui venne legato.

Tra le reliquie si distingue una lastra di pietra accompagnata dalle parole "Quo Vadis", che riporta bene impresse delle curiose impronte di piedi sandalati. Narra la leggenda che l'apostolo Pietro, in fuga da Roma per sfuggire al martirio, incontrò Cristo sulla via Appia all'altezza dell'incrocio con la via Ardeatina, e così come è consuetudine in ogni incontro casuale, e a maggior ragione trattandosi di una persona defunta, lo accolse spontaneamente con la domanda "Quo vadis, Domine?" (Dove vai, Signore?). Rispose Gesù con nonchalance "Sto andando a Roma a farmi crocifiggere una seconda volta" (e dici niente!). La sottile risposta aveva il chiaro obiettivo di colpevolizzare l'apostolo per la propria vigliaccheria, essendo la corretta interpretazione la seguente: "tu scappi, e invece guarda un pò: io vado ad affrontare la morte". Che poi detto fra noi per uno già morto ce vole poco. Ad ogni modo Pietro colse il senso della frecciata e umiliato tornò indietro, dove fu infine martirizzato, probabilmente pensando che in un prossimo incontro avrebbe fatto meglio a farsi i sacrosanti affari suoi. In ricordo dell'episodio e come testimonianza dell'apparizione (o più semplicemente per essere finiti entrambi in un cantiere di rifacimento del manto stradale) rimasero impresse sulla strada le impronte dei piedi di Gesù. Il calco era originariamente conservato nella chiesa del Quo Vadis, edificata sul luogo dell'apparizione, e al cui interno viene oggi conservata solamente una copia dell'originale. E se ad Hollywood  se la tirano per la celebre passeggiata delle star con i calchi delle impronte dei più grandi attori del secolo (Mickey Mouse compreso), noi romani non siamo certo da meno e alle impronte di George Clooney rispondiamo nientedimeno che con quelle di Gesù Cristo!

Ma le sorprese non sono finite e in un'altra piccola (e a dire il vero piuttosto svilente) nicchietta scopriamo l'ultimo "ritrovato" capolavoro di Gian Lorenzo Bernini, quel "Salvator Mundi" scolpito prima della dipartita dell'artista e del quale si persero le tracce a partire dal 1773. Scovato nei  meandri del monastero della Basilica dopo lunghe peripezie e finti ritrovamenti bufala, è stato infine rimesso in esposizione solo a partire dal 2006, e colpisce in effetti che sia stato collocato nel primo scomparto libero della basilica con la stessa cura con cui sistemeremmo l'ennesimo soprammobile di troppo regalatoci a Natale.

Per coloro che non soffrono di claustrofobia (o di attacchi di panico alla scoperta del prezzo del biglietto: 8 euro, sinceramente ben spesi) la visita deve obbligatoriamente proseguire nel sottosuolo, lungo quel percorso sotterraneo, ma soprattutto temporale, che a partire da una vecchia cava di pozzolana, e passando per un'antica necropoli pagana, ci accompagnerà alla scoperta del culto segreto dei primi cristiani. Esplorare questi cunicoli tempestati di loculi, e riflettere sul fatto che si tratti solamente di una porzione infinitesimale di quell'immenso labirinto che corre sotto i nostri piedi, dà quasi un senso di vertigine, ed è eccitante pensare di potersi perdere tra centinaia di chilometri solo azzardando un fuoripista non consentito (autocitazione con link a tradimento), prendendo una diramazione a caso alle spalle della nostra guida. Il percorso obbligato si articola lungo tre tappe fondamentali, la prima delle quali è la cripta originaria dove venne collocata la tomba di San Sebastiano (perfettamente allineata con l'attuale sistemazione del sarcofago in superficie all'interno della basilica). La seconda tappa è la più stupefacente: ci ritroviamo infatti al cospetto di tre antichi mausolei pagani perfettamente conservati nelle loro decorazioni a stucco originali. L'effetto è quello dell'ingresso in una piccola città sotterranea. Il sorprendente stato di conservazione, che senza alcun bisogno di successivi interventi di restauro hanno riportato intatte fino a noi magnifiche volte decorate da raffinati stucchi e pitture originali raffiguranti banchetti funebri e antiche leggende pagane, è dovuto al conseguente interramento del complesso effettuato dai primi cristiani al fine di creare le basi per una costruzione successiva, terza e ultima tappa del nostro percorso sotterraneo. In cima ad una scala scopriremo infatti ciò che rimane della cosiddetta Triclia, ambiente sacro (originariamente coperto da una tettoia) destinato alla celebrazione di banchetti funebri dedicati alla memoria dei santissimi Pietro e Paolo. Sulla parete superstite possiamo oggi divertirci a interpretare i numerosi graffiti originali lasciati sulle mura dai devoti pellegrini di un tempo, degni antenati dei writers di oggi.

Vi consiglio questo viaggio nella storia in abbinamento a una passeggiata sulla via Appia Antica , che proprio a partire dalla Basilica di San Sebastiano si esprime in uno dei suoi tratti più affascinanti. Parleremo di questa strada unica al mondo e dei suoi innumerevoli tesori in altri post in futuro. Per il momento godetevela senza meta e senza preoccupazioni, e nel caso doveste incrociare una faccia conosciuta sulla via, tirate dritto e non fate domande!

La Basilica e le Catacombe di S.Sebastiano si trovano in Via Appia Antica 136 e sono visitabili dal lunedì al sabato tra le 9:00 e le 12:00 la mattina e tra le 14:00 e le 17:00 il pomeriggio.

p.s.
Grazie a Claudia e Luca per avermi accompagnato in questo itinerario! :)

giovedì 17 maggio 2012

Dice che "sotto" Roma..

Aldilà dei parchi e delle ville, è anche nel verde di sorprendenti "schegge" di campagna incontaminata che possiamo leggere la struggente bellezza di Roma: aggredite ai margini da antiestetici rigurgiti edilizi opera di palazzinari senza scrupoli, resistono nel tempo regalandoci l'illusione di un agro romano superstite, incastonato tra i confini della metropoli come prezioso monito per le generazioni future.


E' il miracolo della via Appia e in questo caso della via Latina, che per pochissime centinaia di metri spunta fuori tra le colate di cemento incorniciata da quei celeberrimi pini di Roma che, come canta il sor Venditti, "la vita non li spezza" (mentre Alemanno li piegherebbe volentieri). La sopravvivenza di queste zone mai edificate è fonte inesauribile di tesori inaspettati che in altri casi, e per ovvie necessità abitative, rimangono sepolti per sempre sotto dieci piani di terrazzatissimi "palazzi in cortina adiacenze metro e zona commerciale". Il sepolcro dei Pancrazi, sconosciuta meraviglia del parco delle tombe di Via Latina, rappresenta una piacevole eccezione, giunta fino a noi per una serie di fortuite coincidenze e il contributo di singolari personaggi. Tra questi emerge la figura di un simpatico Indiana Jones de' noantri, tale Lorenzo Fortunati, che proprio come il mitico avventuriero ideato da George Lucas, era un professore con il pallino dell'archeologia, il cui interesse per le scoperte oscillava tra la passione per la storia e la speranza di ricavare "un onesto lucro" dalla commercializzazione dei reperti (il ricavato veniva a quel tempo diviso tra il proprietario del terreno e lo scopritore): in poche parole un tombarolo laureato. E fu proprio il nostro Lorenzo che, all'inizio della seconda metà dell'Ottocento, si calò dal lucernario del sepolcro affiorante in superficie, dando il via a questa avventura e alla sua opera di scavo. Più che uno scavo uno sterramento selvaggio, che alla faccia delle attuali tecniche di indagine stratigrafica che permettono di ricostruire gli eventi cronologici fornendoci preziose informazioni sull'antropologizzazione dell'area (maddechè, direbbe il Fortunati) mirava esclusivamente al rinvenimento di opere d'arte e reperti di valore.


E proprio come in ogni episodio della celebre saga, anche in questo caso comparve sulla scena l'antagonista a mettere i bastoni fra le ruote, nello specifico la Chiesa (mossa alla Dan Brown) che con la scusa del ritrovamento di ulteriori resti di matrice cristiana attribuibili ad una basilica intitolata a S.Stefano, decise di esautorare il giovane professore arrogandosi il diritto di proseguire gli scavi per mezzo della commissione di archeologia sacra. Tra sacro e profano prevalse alla fine il laico istituzionale, e intervenne dunque il recentemente costituito Stato Italiano che, in un suo fulgido inizio pieno di buoni propositi, acquisì l'intera area procedendo al restauro dei monumenti (e aggiungendo tra l'altro arbitrariamente e con molta fantasia alcuni elementi architettonici ormai perduti, come ad esempio l'intero alzato della tomba dei Valeri). Il sigillo finale lo pose l'allora ministro Baccelli con la saggia decisione di adibire l'area a parco archeologico, preservandola in questo modo dalle future grinfie degli speculatori. Tra le tombe da cui il parco prende il nome, il sepolcro dei Pancrazi è senz'altro la più spettacolare. Si accede tramite quello che sembrerebbe un anonimo capanno per gli attrezzi: una costruzione in cemento destinata a preservare dai fenomeni atmosferici la zona ipogea, unico ambiente superstite dell'intera costruzione oggetto delle disordinate scoperte del Fortunati. Una volta scesi lungo la scala originaria ci ritroveremo al cospetto di due ambienti distinti in successione. Nel primo ci soffermeremo solamente per onorare l'origine etimologica del sito, in quanto sede di un sarcofago "matrimoniale" a due piazze (riservato ai coniugi Demetrius e Vivia Severa) riportante l'iscrizione che fa riferimento al collegio dei Pancrazi, ultimi proprietari del sepolcro e responsabili dell'attuale appellativo. Parliamo di collegio in quanto al tempo era consuetudine che le tombe venissero acquistate da una specie di cooperative, dette appunto collegi, i cui membri, cittadini della classe media che evidentemente non potevano permettersi una tomba personale, versavano una quota annuale per la manutenzione del "sepolcro sociale", garantendosi in questo modo una dignitosa collocazione al momento della dipartita.


Questo primo ambiente doveva probabilmente risultare aperto in origine (il pavimento in pendenza e la presenza di un pozzo di scolo ce lo confermano) come fosse una sorta di cortile di accesso al sepolcro vero e proprio, ed è in effetti solo attraversando la porta di collegamento tra i due vani che scopriremo il cuore della tomba e l'oggetto di tutta la nostra meraviglia. L'impressione è quella di entrare nel salotto di un appartamento reale, dove solo la presenza di un enorme sarcofago dalle linee orientaleggianti ci riporta alla realtà di una meravigliosa camera sepolcrale, sovrastata da una volta a crociera decorata con stucchi policromi e pitture dallo straordinario stato di conservazione. Il tema delle stupefacenti decorazioni ruota tutto intorno alla mitologia greco-romana, con la narrazione di celebri miti che si alternano alla raffigurazione di eroi classici secondo un'iconografica esaltazione del defunto, convergendo idealmente verso il tondo centrale della volta dove Giove-Zeus troneggia rappresentato con le fattezze del titolare.


Esattamente di fronte all'ingresso, si distingue tra i miti l'episodio del "giudizio di Paride", dove Paride è chiamato a scegliere la dea più bella tra le tre candidate al titolo Era, Atena e Afrodite, in una sorta di concorso di bellezza ante-litteram. La storia la conosciamo non fosse altro che per la puntata di Pollon intitolata "i fanghi di Afrodite", nella quale le tre dee entrano in accanita competizione come trashissime concorrenti di un reality show di Mediaset, contendendosi la celebre mela con su scritto "alla più bella" (e perdonate se le fonti non sono propriamente le più illustri). Il mito di Alcesti, sul lato opposto, venne invece probabilmente scelto allo scopo di esaltare il tema della fedeltà e della dedizione coniugale: la protagonista sceglie infatti di sacrificarsi per il proprio uomo, Admeto re di Tessaglia, il quale venne insignito dall'amico/protettore Apollo di un bonus "evita-morte" nel caso in cui qualcuno avesse deciso di prendere il suo posto nel momento fatidico. Dopo il comprensibile rifiuto di parenti e amici, i quali si espressero con molta probabilità nel corrispettivo in Greco antico del nostro efficacissimo "machittesencula", fu proprio la fedele sposa a morire per lui. Sul finale interviene comunque Ercole, che in barba all'egoismo di Admeto, regala a tutti il lieto fine riportando in vita l'ingenua fanciulla. Tra un mito e l'altro colpiscono infine le straordinarie pitture che, tra maschere, cesti di frutta e uccelli esotici, ci regalano sorprendenti rappresentazioni di paesaggi idillici, che quasi sembrano essere stati dipinti dalla mano di un pittore impressionista dell'Ottocento. Fa riflettere come l'arte si sia involuta nuovamente nei secoli successivi verso quella rappresentazione piatta e bidimensionale tipica del periodo alto-medievale, per ritornare infine a quella profondità e potenza espressiva solamente moltissimi secoli dopo.


Una volta usciti dal sepolcro guarderemo infine i resti del tracciato della via Latina con occhi diversi e come in una ricostruzione in 3D alla SuperQuark quasi riusciremo ad immaginarla come era un tempo, tra quello stesso azzurro del cielo e il verde di una campagna che miracolosamente è arrivata intatta fino a noi. Un privilegio di cui dobbiamo essere grati anche e soprattutto al nostro Indiana Jones, alias Lorenzo Fortunati.

Il parco delle tombe di via Latina è aperto tutti i giorni con accesso libero fra le 9:30 e le 18:00 mentre
l'ingresso al sepolcro è possibile solo tramite visita guidata e su prenotazione (o in occasione di aperture speciali). Per informazioni rivolgersi allo 06.39967700 (cooperativa Pierreci).

martedì 8 marzo 2011

Dice che a S.Clemente si dicono le parolacce

Vuole leggenda metropolitana (e in questo senso mai termine fu più azzeccato) che la causa principale dell'inadeguatezza del nostro sistema di trasporto sotterraneo (la metropolitana appunto) sia rappresentata dall'estrema difficoltà nell'effettuare lavori nel sottosuolo, perchè a Roma "appena fai un buco trovi 'n sacco de robba".
Come sempre, da bravi Romani lo prendiamo come un dato di fatto, ce ne freghiamo fino a un certo punto e ci ributtiamo nel traffico infernale senza più chiederci perchè non ci sia concessa in alternativa una rete di trasporti pubblici decente. E quando un giorno scopriamo che sotto una basilica qualunque è possibile esplorare una serie di livelli sotterranei che ci raccontano la storia di ben tre epoche diverse, ci viene infine da pensare che la storia del metrò non sia poi tanto una cazzata.



Stiamo parlando della chiesa di S.Clemente al Celio, un monumento che ci racconta 2000 anni di storia trasportandoci in un labirinto sotterraneo dove culti pagani e basiliche cristiane si susseguono in una suggestiva storia verticale fatta di scale, case patrizie, affreschi paleocristiani e un peculiare microclima tale da farvi alternare i vari "che meraviglia" ad una serie di "cazzo quant'è umido qua sotto".

Anche in questo caso ci soffermeremo sugli aspetti più curiosi e divertenti, lasciando a ben più illustri guide il compito di illuminarvi sullo splendore artistico dei mosaici dell'abside centrale della basilica superiore.

Resta comunque necessaria un'introduzione sulla struttura di questo complesso su tre livelli sovrapposti, per tentare di comprenderne le origini e la storia. La parte per così dire visibile è l'attuale basilica dedicata a papa Clemente I. La stessa venne costruita sui resti di una precedente basilica più antica risalente al 4 secolo D.C., la quale fu interrata in seguito alla distruzione operata dai Normanni di Roberto il Guiscardo. Ulteriormente al di sotto dell'antica basilica troviamo invece i resti di alcuni ambienti di abitazioni patrizie Romane del I e II secolo d.c., ma soprattutto scopriremo il fascino di un conservatissimo Mitreo, vero e proprio tempio pagano dedicato al culto della divinità orientale Mitra, molto diffuso a Roma nel III secolo d.c.

Tornando al primo livello inferiore, quello che andremo a scoprire oggi, tra una serie di affreschi di datazione Paleocristiana che raccontano la storia di alcuni miracoli attribuiti a S.Clemente, sarà l'origine scritta della lingua Italiana volgare in quello che può definirsi il più antico fumetto della storia. L'affresco in questione è "la leggenda di S.Clemente", la quale ci illumina sulla divertente storiella del prefetto Romano Sisinnio e del suo incontro/scontro con il sant'uomo, colpevole di aver traviato la moglie con il Cristianesimo.
L'affresco è diviso in due parti. Nella parte superiore ci viene narrato di come Sisinnio sorprenda la moglie nel deplorevole atto di frequentare una messa celebrata dal Santo. Raccapricciato dalla conferma dei suoi sospetti (la moglie andava a messa!!)  ne ordina dunque l'arresto, ma ecco che un tempestivo intervento divino sulla falsa riga del vale tutto, rende improvvisamente ciechi Sisinnio e i suoi soldati che si ritrovano quindi impossibilitati a compiere la missione.

Nella parte inferiore la storia si fa più interessante. Clemente si reca dal prefetto per fare pace, ma Sisinnio, giustamente ancora incazzatissimo per la procurata cecità, ordina ai suoi tre soldati, Gosmari, Albertello e Carboncello, di catturare il santo e trascinarlo via. A questo punto ci sono due versioni discordi: una sposa la tesi che Clemente, al pari di un improbabile antenato di Barpapà, si fosse tramutato miracolosamente in colonna, mentre un'altra "più verosimile" racconta di come la cecità che aveva colpito i soldati, avesse confuso gli stessi a tal punto da fargli scambiare il santo per un  blocco di pietra. In conclusione la scena raffigura i tre servi intenti con immani sforzi a trascinare una pesantissima colonna credendola essere appunto S.Clemente. Il tutto è raccontato attraverso una serie di divertenti dialoghi scritti secondo una curiosa tecnica protofumettistica, consistenti in esortazioni e insulti da parte di Sisinnio.  Sulla sinistra ci appare il servo Carboncello con un bastone e l'incoraggiamento del prefetto "Falite detero co lo palo Carvoncelle" (spingi da dietro con il palo, Carboncello).
Sul lato destro ci appare invece Sisinnio vestito di porpora che sprona con grande raffinatezza gli altri due al suono di "Fili de le Pute, traite" (Figli di puttana, tirate). In pratica il nostro prefetto Sisinnio ha ha avuto l'onore di pronunciare una parolaccia all'interno di una basilica, la quale per giunta è rimasta impressa per secoli fino ai giorni nostri! In tutto questo interviene anche il Santo, che da gran signore quale è si rivela l'unico ad esprimersi in latino e non in volgare, e che con una didattica presa per il culo sentenzia "Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis" (a causa della durezza del vostro cuore, meritaste di trascinare un masso). Purtroppo i colori , anche a causa dell'umidità, sono notevolmente sbiaditi, ma con l'aiuto dei cartelli esplicativi, una volta compresa la composizione delle frasi e delle lettere, sarà facile riconoscerle sull'affresco originale.

Con quel "figli di puttana" che ancora vi rimbomba nelle orecchie, sarete adesso pronti per scendere al livello inferiore e lasciarvi suggestionare dalle mistiche atmosfere pagane del culto misterico del dio Mitra.  Al di sotto della basilica inferiore sono infatti presenti numerose strutture di epoca Romana. In particolare, tra i resti di alcuni ambienti privati di cui si riconoscono ancora le volte decorate da stucchi, spicca la zona sacra dedicata al Mitreo.

Il Mitraismo venne importato dall'Oriente ed ebbe larga diffusione in particolare in ambiente militare. A causa della segretezza dei suoi rituali, riservati solo agli adepti e agli iniziati, non ci è dato sapere con esattezza come fosse strutturato il culto e in che modo venissero officiate le celebrazioni. I luoghi di incontro erano caratterizzati da questa ricorrente struttura architettonica riproducente una sorta di grotta naturale o come in questo caso artificiale, di dimensioni modeste e con al centro un altare raffigurante il dio Mitra nell'atto di uccidere un toro (episodio mitologico legato alla leggenda del dio).

Ai lati due panche in muratura erano destinate agli officianti per il consueto banchetto rituale. In questo caso possiamo notare anche la statuetta del dio posta all'interno di una nicchia dietro l'altare e il soffitto a volta decorato da stelle, così come richiesto dalla tradizione. Le uniche certezze che abbiamo sulla natura di questo culto sono che fosse riservato a soli uomini e che prevedesse un percorso di sette gradi di iniziazione. Per il resto possiamo solo immaginare cosa facessero un gruppo di soldati esaltati lasciandoci trasportare dalla suggestione dell'ipnotico rumore dello scorrere d'acqua, elemento dall'importante ruolo purificatore nel rituale Mitraico, e che non a caso sgorga ancora dopo millenni dalla stessa sorgente sotterranea appena dietro l'angolo. L'ascesa verso la superficie ci porta a ripercorrere al contrario questi duemila anni di storia, finchè all'uscita una cassetta delle offerte ci inviterà a contribuire per sostenere gli scavi del luogo. Avevo dimenticato di dirvi che la visita prevede l'acquisto di un biglietto del costo di 5 euro (tranquilli, li vale tutti), il che mi porta ragionevolmente a concludere con la citazione del il mio amico Luca alla vista dell'ulteriore richiesta di denaro "tacci vostra già c'avete scucito cinque euro..mò "fili de le pute, scavate!".

La basilica di S. Clemente si trova in via Labicana 95 e gli scavi sono visitabili nei giorni feriali dalle 9:00 alle 12:30 e dalle 15:00 alle 18:00. Nei giorni festivi l'ingresso è invece tra le 12:00 e le 18:00.