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giovedì 24 aprile 2014

Dice che il gelato di Fassi piaceva proprio a tutti..


Come tutti gli anni all'arrivo della bella stagione inizia l'acceso dibattito con tanto di risse sulla proclamazione del gelato più bono di Roma. E mentre persino le maledizioni del "bio", del "chilometro zero" e del "vegan" si abbattono sul caro vecchio cono, glorificato dalla pretenziosa origine delle materie prime, (perchè se il pistacchio non è di Bronte e la nocciola non è del Piemonte allora so' cazzi amari) fortunatamente esiste ancora una tradizione che sopravvive ferma e imperturbabile all'interno dell'austero "palazzo del freddo" di via Principe Eugenio. L'antica gelateria Fassi: un'isola temporale dove la qualità e il rincorrersi delle mode e delle patologie moderne che mettono alla gogna glutine e lattosio, passa in secondo piano rispetto all'esperienza di gustare un gelato che rappresenta un pezzo di storia della nostra città.

Siamo nel cuore del quartiere Esquilino, Chinatown capitolina ricca di contrasti dove la Roma popolare convive con le nuove ondate migratorie sullo sfondo di portici Ottocenteschi e severe architetture Umbertine. E mentre il commercio cinese si allarga alla conquista del quartiere con la moltiplicazione di anonime vetrine che affacciano su un vuoto espositivo riempito da sospetti, congetture e leggende metropolitane, la famiglia Fassi cosa fa? "Asserragliata" nel proprio quartier generale del palazzo del freddo, (e con questo nome quasi fiabesco come non pensare alla fabbrica di cioccolato di Willie Wonka?) lancia il contrattacco e inaugura un punto vendita proprio a Shangay (tiè). Perché alla fine un equilibrio si trova sempre e, dopo una prima inevitabile fase caratterizzata da accuse e sospetti, le nuove generazioni di cinesi iniziano finalmente ad integrarsi nel rione masticando romanaccio e leccando gelato; e non parliamo di quella maledettissima palla fritta del ristorante cinese che ha spaccato i denti a generazioni di italiani nel suo implacabile contrasto caldo-freddo, ma proprio del gelato di Fassi, tornato ad essere punto di riferimento del quartiere dopo un breve periodo di crisi e una successiva fase di assestamento che lo ha riportato ai suoi antichi splendori.

Il capostipite Giacomo e la moglie Giuseppina arrivano dal Piemonte all'indomani dell'unità di Italia. Perché prima ancora dei cinesi, l'Esquilino l'hanno colonizzato i piemontesi, quando Roma, proclamata nel 1870 capitale del regno, si è preparata ad accogliere quell'esercito borghese di burocrati e ministeriali che dalla precedente capitale Torino (passando per Firenze) si sono riversati in massa verso la nuova sede di un governo finalmente laico, in questa "metropoli" di fine Ottocento pronta al salto verso la modernità dopo secoli di immobilismo clericale. Ed è così che l'intero quartiere viene riprogettato su misura, con quell'enorme piazza dedicata a Vittorio Emanuele circondata da portici per far sentire i piemontesi un po' più a casa. I Fassi danno il via alla loro epopea con una rivendita di ghiaccio e birra in via delle Quattro Fontane e, se la scelta di commercializzare la bevanda luppolata rappresenta decisamente un primo punto a loro favore, la definitiva consacrazione del mito avviene con la ferma decisione del figlio Giovanni, pasticcere ufficiale della casa reale, di abbandonare la privilegiata posizione lavorativa a causa del suo categorico rifiuto di tagliarsi i baffi, così come previsto dal codice interno a seguito di un'ordinanza speciale del re (ma questa dell'orgoglio baffuto è una valutazione personale molto di parte).


La scelta di mettersi in proprio non tarda a produrre i suoi frutti, e dopo alcuni anni la famiglia è in grado di acquistare un nuovo palazzo proprio nel cuore borghese della capitale, dove in 700 metri quadrati tra laboratorio e saloni liberty inizia a prendere piede il mito del gelato artigianale in grande scala. E in virtù di una cinica legge del commercio che non guarda in faccia a nessuno, tra gli estimatori dei gelati Fassi nel corso del tristemente celebre ventennio, ritroviamo anche Mussolini, Italo Balbo e lo stesso Adolf Hitler in visita a Roma, da cui vennero commissionate delle torte gelato con tanto di svastica la cui vista potrebbe addirittura farmi rivalutare le stucchevoli evoluzioni dell'odierno ed irritante cake design. Per permettere a Balbo di portare le sue scorte fino in Libia venne persino brevettato il sistema del telegelato Giuseppina (in onore della moglie del capostipite), con l'impiego sperimentale di ghiaccio secco per la spedizione e la conservazione dell'ambito prodotto oltre i confini del regno. 

La grande storia del Novecento e delle grandi guerre, oltre che sui campi di battaglia, segue il suo corso parallelamente anche nella celebre gelateria, come quando nel 1945 la Croce Rossa americana decise di requisire il locale per produrre il gelato per le truppe Statunitensi di stanza a Roma. Tra l'altro fu proprio in questa occasione che un tale Alfred Wisner, l'ingegnere della Croce Rossa che aveva coordinato le operazioni di occupazione dello stabile, propose a Giovanni Fassi di creare un'azienda a vocazione industriale, utilizzando la tecnologia di un nuovo impastatore che avrebbe permesso la produzione di gelato in grandissime quantità. Giovanni rifiutò di abbandonare i suoi ideali di artigianalità, e il sig. Wisner seguì da solo il suo progetto fondando nientedimeno che la Algida. Oggi i macchinari originali di inizio secolo scorso sono esposti nelle vetrine e all'interno del salone, dove ancora si respira un'aria retrò solo in parte intaccata dalle folle di turisti e romani che si affollano al bancone. E tra vecchie locandine, tavolini in marmo e una nostalgica fontanella interna (perché il bicchiere d'acqua è un complemento d'obbligo al gelato, così come dovrebbe esserlo al caffè in ogni bar che si rispetti), alzando lo sguardo verso gli alti soffitti potremmo quasi percepire l'atmosfera di una sala da ballo di inizio Novecento. 

La vera chicca è il cortile liberty che si apre sul lato opposto dell'ingresso, un angolo silenzioso dove il tempo sembra essersi fermato e dove avviene il mio felliniano incontro con quattro simpatiche suore sedute sulle panchine di legno all'ombra delle piante. L'ulteriore prova che stiamo parlando di un gelato d'autore, perché se un tempo si riteneva che i posti  se magna bene si riconoscono dal numero di camion parcheggiati fuori, oggi la garanzia del godereccio ci viene confermata dalla presenza di preti e suore che, tra un sacrificio e l'altro, nel momento in cui decidono di peccare di gola, scelgono sempre di farlo al top. Leggendo i vari articoli esposti all'interno scopro che la famiglia, oggi come allora, ha sempre vissuto nel palazzo, il che rende ancora più affascinante l'idea di questa roccaforte del gelato con i Fassi che, al pari dei Lannister o degli Stark, continuano a presidiare il proprio castello proteggendolo dall'invasione della potenza economica Cinese.

Dopo essermi perso tra articoli, fotografie e vecchi cartelloni pubblicitari degli anni trenta e quaranta, esco dal palazzo con una confessione da fare: "alla fine nun me so magnato manco un gelato"! Forse avrei dovuto provare almeno il "sanpietrino": un quadrato di semifreddo ricoperto di glassa al cioccolato ispirato alla forma di quei famosi serci romani che lastricano le nostre strade attentando alla vita dei centauri motorizzati e delle impavide camminatrici su tacco dodici. E quindi lascio a voi il compito di andare e riferirmi, perché alla fine anche io, da bravo  romanaccio campanilista di quartiere, valore storico a parte, rimango fedele alla gelateria dietro casa: nel mio caso la mitica "Gelatomania" della Portuense, a cui posso comunque affettuosamente rimproverare che sì, magari non avranno prodotto torte gelato con la svastica, ma sull'orrido gusto "puffo" anni Ottanta dalla tonalità bluastra ce so cascati pure loro! (e i puffi non erano comunisti poi?)



lunedì 3 ottobre 2011

Dice che al mercato Esquilino fai il giro del mondo in 130 banchi

Ogni volta che si parla del quartiere Esquilino, da sempre ci si divide tra i toni entusiastici di chi ci vede un eccellente laboratorio sperimentale di nuovi modelli interculturali, e quelli decisamente indignati di chi al contrario preferisce assumerlo a simbolo del degrado del nostro centro storico. Per chi come me non abita nel quartiere, e in maniera colpevolmente "naif" si limita all'esperienza superficiale del visitatore, è persino troppo facile concordare con la prima fazione, e lasciarsi catturare dal fascino di quella che rimane in ogni caso una delle zone culturalmente e sociologicamente più ricche ed interessanti della nostra città. Se poi avete voglia di avventurarvi verso mete esotiche ed inesplorate, conoscere popoli e sapori lontani, e soprattutto se vi siete svegliati con il desiderio di sperimentare ai fornelli nuove possibilità gastronomiche, ma c'è un'unica cipolla mummificata che sta morendo di solitudine nel vostro frigorifero, allora la vostra destinazione è sicuramente il nuovo Mercato Esquilino, situato a pochi passi dagli splendidi portici di Piazza Vittorio.

In seguito alla chiusura nel 2001 del vecchio mercato storico sulla piazza, la nuova struttura è stata fatta rinascere nei locali dell'ex caserma Pepe, e divide tuttora gli spazi con la facoltà di studi orientali dell'Università della Sapienza di Roma. In questa bizzarra convivenza studenti universitari e abitanti del "quartiere mondo" si incrociano nel cortile comune sotto lo sguardo benevolo della statua di Confucio, in una coesistenza apparentemente casuale e allo stesso tempo perfettamente logica, dove mettere in pratica ciò che viene insegnato nelle lezioni di lingua Cinese o Araba diventa facile come scendere a prendere un caffè nell'ora di pausa tra una lezione e l'altra.
Che ci troviamo in un mercato diverso lo percepiamo subito dall'assenza dei classici strilloni romaneschi, che normalmente fanno da colonna sonora alla nostra spesa con la loro simpatica sguaiatezza. In questo caso la nostra preoccupazione non sarà più quella di lasciarci guidare dalle grida in romanesco in cerca della migliore qualità di frutta e verdura al prezzo più conveniente, ma ben più a monte tentare di capire che cosa cazzo sia quel frutto o quella verdura lì sul banco, e soprattutto cercare di interpretare con scioltezza l'impronunciabilità dei loro nomi per poi infine riuscire ad esibirci in un disinvolto "che me dai mezzo chilo de topinambur?" (?!).

Tuberi ed ortaggi, identificabili a prima vista come l'eccentrico risultato di qualche scellerata sperimentazione genetica, si sveleranno a noi con gli esotici nomi di Ampalaya o Dasheen, e con tutta una serie di applicazioni che per noi poveri habituè dell'insalata in busta da supermercato (io in primis) rimarranno semplicemente impraticabili.
Se siete troppo timidi per chiedere lumi ai negozianti o preferite tenervi a distanza dal banco per evitare che una carpa ancora viva vi salti tra le braccia, troverete a soccorrervi in alcuni angoli del mercato delle interessantissime schede esplicative sull'origine di alcuni prodotti, con suggerimenti di ricette che vi aiuteranno a spaziare oltre i confini del "ma che è 'sto coso?". In ogni caso saranno tutti prontissimi a spiegarvi le caratteristiche e l'utilizzo dei prodotti esposti, con una disponibilità che a seconda dei livelli di cinismo potreste interpretare come l'innata cordialità di culture più accoglienti della nostra o la legge universale del commercio globalizzato (te lo spiego, così lo compri).

Imparerete così che  il Chayote del Costarica è un ortaggio a metà strada tra una patata e una zucca, mentre con il Dasheen potreste preparare un'ottima zuppa in stile Giamaicano (ma non entusiasmatevi troppo, è solo un tubero). Se nei vostri piani avete in mente una nottata di fuoco potreste far cadere la vostra scelta sul piccantissimo Rocoto Amarillo del Sudamerica, o viceversa scegliere l'amara Ampalaya per una decisamente meno eccitante serata a base di tisana come rimedio contro l'aerofagia. E così tra Platani Cubani, Okra Indiana e frutti di Litchi la vostra spesa assumerà in breve tempo e nel giro di una decina di banchi un sapore del tutto nuovo e sconosciuto.
I colori e gli odori delle spezie in bella vista vi riporteranno all'atmosfera di un autentico Suk Mediorientale, dove anche le carni sono trattate rigorosamente secondo i dettami del metodo di macellazione Halal.

E se non fosse per quelle timide isole di pizzicagnoli Romani a ricordarci dove siamo, l'illusione sarebbe perfetta, e per un pò riusciremmo persino a sentirci come quei goffi turisti occidentali a caccia di esotiche tipicità. Ed è così che contenti e sognanti usciremo con le buste piene di spezie profumate e ortaggi "un sacco strani", che una volta abbandonata l'atmosfera e l'entusiamo del momento, lasceremo marcire in compagnia della cipolla suicida in favore di un "ma sai che te dico? annamose a magnà na pizza e fanculo all' Ampalaya".
Per quelli che invece avessero voglia di sperimentare per davvero vi rimando all'indirizzo delle amiche della Banda dei Broccoli, che con ben altri livelli di preparazione mi hanno concesso la loro presenza in questa passeggiata gastronomica. Per alcuni suggerimenti speziati alla Piazza Vittorio style potete mettervi a curiosare tra le loro ricette  qui, qui oppure qui (seguite i link). Dopodichè non vi resterà che andare diretti al Mercato Esquilino per osservare, imparare, conoscere...e ovviamente fare la spesa.

Il nuovo mercato Esquilino si trova in Via Principe Amedeo ed è aperto dal lunedì al sabato dalle 7:30 alle 14:30.

lunedì 6 dicembre 2010

Dice che a Piazza Vittorio c'è la formula magica (e che MAS è meglio de Harrods)

Oggi vorrei iniziare con una domanda. Cosa ci fanno i caratteristici portici delle piovose città del nord Italia in una piazza Romana? Quale potrebbe essere la loro funzionalità in quest'oasi di clima mediterraneo? In realtà, dopo venti giorni consecutivi di pioggia, verrebbe invece da chiederci perchè con i portici non ci abbiano tappezzato l'intera capitale, ma in questo caso la risposta non ha a che fare con il clima. La progettazione di Piazza Vittorio risale infatti alla fine dell’800, quando il quartiere Esquilino venne messo in piedi ex novo per ospitare la borghesia impiegatizia statale, che si trasferì da Torino a Roma nel momento in cui le due città si passarono il testimone di capitale d'Italia (passando per Firenze). Ecco quindi spiegato il perchè della presenza di un intero quartiere “Torinese” al centro di Roma, che con i suoi portici e le sue eleganti architetture da capitale Europea, riproponeva la struttura urbanistica dei luoghi d'origine di questa nuova generazione di burocrati del regno.


Oggi l'Esquilino è meglio conosciuto come la Chinatown di Roma o più sbrigativamente come la zona della stazione, e viene spesso snobbato come meta di una possibile visita. Vi invito quindi ad una passeggiata (preferibilmente un sabato mattina), per assaporare la vitalità di piazza Vittorio e per un paio di vere chicche.
Sapevate ad esempio che proprio nei giardini della piazza si nasconde la formula alchemica che permette di trasformare la vile materia in oro? Direi che questo sembra già un motivo sufficiente per mettersi in moto.
Se la vostra tabella di marcia prevede un alzataccia mattutina, avrete persino il privilegio di assistere ad una delle quotidiane lezioni di Tai Chi che si svolgono all'interno del parco, i cui lenti ed ipnotici movimenti di gruppo vi riporteranno all'atmosfera di una vera città Asiatica. 
Una volta che avrete scelto la vostra panchina, vedrete sfilare davanti a voi famiglie, coppiette e spacciatori di ogni età e provenienza, con le loro centinaia di storie tutte diverse. Godersi in tranquillità l'atmosfera del posto è un esperienza estremamente piacevole, meglio ancora se in compagnia di un bel libro a tema come “scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio” di Lakhous Amara, che vi aiuterà a comprendere meglio lo spirito del quartiere.
Dopo esservi riconciliati con il mondo (nel vero senso della parola, dal Bangladesh al Marocco), potrete spostarvi verso il gruppo di rovine situato nell’angolo nord ovest dei giardini, dove scoprirete uno dei più misteriosi e tuttora indecifrabili monumenti della città: la cosiddetta porta magica.


La porta, risalente alla fine del 600, apparteneva ad una delle magnifiche ville che prima dello sventramento “Piemontese” popolavano quest'angolo di campagna Romana, e precisamente alla villa del Marchese Massimiliano Palombara. Trasferita e risistemata all'interno del giardino, la porta magica rimane l'ultimo elemento architettonico sopravvissuto alla demolizione dell'edificio del Palombara. Il marchese era un assiduo frequentatore della corte Romana della regina Cristina di Svezia a palazzo Riario, a sua volta appassionata di scienze e alchimia, e all'interno del cui palazzo era ospitato un avanzato laboratorio di esperimenti. La leggenda racconta che un pellegrino si fosse fermato una notte nei giardini della villa alla ricerca di una particolare erba, che lo avrebbe aiutato ad ottenere la mitica formula per la trasformazione della materia in oro. Al mattino il misterioso personaggio (identificato secondo alcuni col giovane medico e alchimista milanese Giuseppe Borri) sparì oltre una di queste porte lasciandosi dietro alcune pagliuzze dorate e dei fogli scritti a mano, contenenti indecifrabili formule, simboli magici e annotazioni.


Il marchese fece quindi incidere quegli stessi simboli e quelle enigmatiche frasi sui muri e sulle cinque porte di Villa Palombara, affinchè qualcuno un giorno potesse essere in grado di interpretarli. La storia è leggermente diversa, ma non cambia il fatto che tali simbologie si ritrovano in tutti i libri di alchimia e filosofia esoterica diffusi in quel periodo, e che certamente erano conosciuti e studiati dal marchese di Palombara (a partire dal bassorilievo che sormonta l'architrave, simbolo della confraternita dei rosacroce di cui egli faceva sicuramente parte).
A guardia della porta noterete due statue grottesche rappresentanti la divinità egizia Bes, una sorta di demone nano venerato dagli Egizi ( e il cui culto si diffuse anche a Roma) per contrastare il malocchio e le sciagure.
Purtroppo la porta magica è oggi circondata una cancellata che ne rende impossibile la visione a distanza ravvicinata, impedendo quindi l'osservazione delle numerosissime iscrizioni riportate. Tra queste ne cito una: "Horti magici ingressum hesperius custodit draco et sine Alcide colchicas delicias non gustasset Iason", Il drago Hesperio custodisce l'ingresso del magico giardino e senza (la volontà di) Ercole, Giasone non potrebbe gustare le delizie della Colcide. In breve un invito a domare con eroica forza di volontà (Ercole) le passioni e la nostra intrinseca natura animale (il drago) per poter accedere alla conoscenza (il giardino). Insomma come si dice a Roma: state sereni!


Se per caso non foste riusciti nell’impresa di decifrare le formule per colpa di quella maledetta cancellata, c’è ancora un modo per riscoprirsi ricchi e tentare l'affare del secolo: una visita ai celebri magazzini Mas (magazzini allo statuto), il tempio del trash Romano dove il tempo sembra essersi fermato alla fine degli anni settanta, e che annovera nella sua lunga storia pubblicitaria testimonial d'eccezione del calibro di Alvaro Vitali e Antonio Zequila.
Cinque vertiginosi piani si stagliano di fronte a voi fra cestoni di mutande a 2 euro e pretenziosi lampadari in stile Versailles, dove tutto è maledettamente autentico e i cartelli dei prezzi sono scritti rigorosamente a mano con amanuense dedizione.
In un trionfo di multietnicità i “dicaaaa” delle sobrie commesse Romane si incontrano con gli ancestrali dialetti del Kashmir Indiano e della Cina rurale, con l'unico inconveniente che nessuno capisce mai un cazzo. Un cartellone affisso all'ingresso delle scale mobili invita a visitare “il sottosuolo”, nome che vi sembrerà curioso riferito ad un piano interrato, ma che riscoprirete quanto mai azzeccato per questa specie di catacomba del trash, che vi condurrà in un percorso senza tempo tra giocattoli, casalinghi, stoffe e divise da lavoro. Teli da mare, zucche di halloween e cappelli da babbo natale sono infatti tutti contemporaneamente accatastati, reparto dopo reparto, incuranti della propria stagionalità.


La colonna sonora, che spazia dalle versioni latino americane degli ultimi successi della Pausini e Ramazzotti alle chicche dance anni novanta, proviene da una sorta di Monolite stile 2001 Odissea nello spazio che si erge dietro le casse prima dell'uscita, da cui con un pizzico di fortuna riuscirete a vedere la commessa di turno estrarre il microfono per estasiarvi in un' ineccepibile descrizione delle ultime offerte dei vari reparti, come solo una volta si usava fare.
Una volta usciti converrete con me che questo posto debba necessariamente essere messo nella lista dei siti protetti dall'Unesco come patrimonio dell’umanità.
A conclusione del tour vi suggerisco di cogliere l'invito della misteriosa iscrizione palindroma riportata sulla soglia della porta magica: SI SEDES NON IS (se ti siedi, non procedi), che letta al contrario è SI NON SEDES IS (se non ti siedi, procedi). Insomma leggetela come vi pare, ma il senso è: muovete il culo che a Piazza Vittorio c'è tutto un mondo da scoprire.