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giovedì 24 aprile 2014

Dice che il gelato di Fassi piaceva proprio a tutti..


Come tutti gli anni all'arrivo della bella stagione inizia l'acceso dibattito con tanto di risse sulla proclamazione del gelato più bono di Roma. E mentre persino le maledizioni del "bio", del "chilometro zero" e del "vegan" si abbattono sul caro vecchio cono, glorificato dalla pretenziosa origine delle materie prime, (perchè se il pistacchio non è di Bronte e la nocciola non è del Piemonte allora so' cazzi amari) fortunatamente esiste ancora una tradizione che sopravvive ferma e imperturbabile all'interno dell'austero "palazzo del freddo" di via Principe Eugenio. L'antica gelateria Fassi: un'isola temporale dove la qualità e il rincorrersi delle mode e delle patologie moderne che mettono alla gogna glutine e lattosio, passa in secondo piano rispetto all'esperienza di gustare un gelato che rappresenta un pezzo di storia della nostra città.

Siamo nel cuore del quartiere Esquilino, Chinatown capitolina ricca di contrasti dove la Roma popolare convive con le nuove ondate migratorie sullo sfondo di portici Ottocenteschi e severe architetture Umbertine. E mentre il commercio cinese si allarga alla conquista del quartiere con la moltiplicazione di anonime vetrine che affacciano su un vuoto espositivo riempito da sospetti, congetture e leggende metropolitane, la famiglia Fassi cosa fa? "Asserragliata" nel proprio quartier generale del palazzo del freddo, (e con questo nome quasi fiabesco come non pensare alla fabbrica di cioccolato di Willie Wonka?) lancia il contrattacco e inaugura un punto vendita proprio a Shangay (tiè). Perché alla fine un equilibrio si trova sempre e, dopo una prima inevitabile fase caratterizzata da accuse e sospetti, le nuove generazioni di cinesi iniziano finalmente ad integrarsi nel rione masticando romanaccio e leccando gelato; e non parliamo di quella maledettissima palla fritta del ristorante cinese che ha spaccato i denti a generazioni di italiani nel suo implacabile contrasto caldo-freddo, ma proprio del gelato di Fassi, tornato ad essere punto di riferimento del quartiere dopo un breve periodo di crisi e una successiva fase di assestamento che lo ha riportato ai suoi antichi splendori.

Il capostipite Giacomo e la moglie Giuseppina arrivano dal Piemonte all'indomani dell'unità di Italia. Perché prima ancora dei cinesi, l'Esquilino l'hanno colonizzato i piemontesi, quando Roma, proclamata nel 1870 capitale del regno, si è preparata ad accogliere quell'esercito borghese di burocrati e ministeriali che dalla precedente capitale Torino (passando per Firenze) si sono riversati in massa verso la nuova sede di un governo finalmente laico, in questa "metropoli" di fine Ottocento pronta al salto verso la modernità dopo secoli di immobilismo clericale. Ed è così che l'intero quartiere viene riprogettato su misura, con quell'enorme piazza dedicata a Vittorio Emanuele circondata da portici per far sentire i piemontesi un po' più a casa. I Fassi danno il via alla loro epopea con una rivendita di ghiaccio e birra in via delle Quattro Fontane e, se la scelta di commercializzare la bevanda luppolata rappresenta decisamente un primo punto a loro favore, la definitiva consacrazione del mito avviene con la ferma decisione del figlio Giovanni, pasticcere ufficiale della casa reale, di abbandonare la privilegiata posizione lavorativa a causa del suo categorico rifiuto di tagliarsi i baffi, così come previsto dal codice interno a seguito di un'ordinanza speciale del re (ma questa dell'orgoglio baffuto è una valutazione personale molto di parte).


La scelta di mettersi in proprio non tarda a produrre i suoi frutti, e dopo alcuni anni la famiglia è in grado di acquistare un nuovo palazzo proprio nel cuore borghese della capitale, dove in 700 metri quadrati tra laboratorio e saloni liberty inizia a prendere piede il mito del gelato artigianale in grande scala. E in virtù di una cinica legge del commercio che non guarda in faccia a nessuno, tra gli estimatori dei gelati Fassi nel corso del tristemente celebre ventennio, ritroviamo anche Mussolini, Italo Balbo e lo stesso Adolf Hitler in visita a Roma, da cui vennero commissionate delle torte gelato con tanto di svastica la cui vista potrebbe addirittura farmi rivalutare le stucchevoli evoluzioni dell'odierno ed irritante cake design. Per permettere a Balbo di portare le sue scorte fino in Libia venne persino brevettato il sistema del telegelato Giuseppina (in onore della moglie del capostipite), con l'impiego sperimentale di ghiaccio secco per la spedizione e la conservazione dell'ambito prodotto oltre i confini del regno. 

La grande storia del Novecento e delle grandi guerre, oltre che sui campi di battaglia, segue il suo corso parallelamente anche nella celebre gelateria, come quando nel 1945 la Croce Rossa americana decise di requisire il locale per produrre il gelato per le truppe Statunitensi di stanza a Roma. Tra l'altro fu proprio in questa occasione che un tale Alfred Wisner, l'ingegnere della Croce Rossa che aveva coordinato le operazioni di occupazione dello stabile, propose a Giovanni Fassi di creare un'azienda a vocazione industriale, utilizzando la tecnologia di un nuovo impastatore che avrebbe permesso la produzione di gelato in grandissime quantità. Giovanni rifiutò di abbandonare i suoi ideali di artigianalità, e il sig. Wisner seguì da solo il suo progetto fondando nientedimeno che la Algida. Oggi i macchinari originali di inizio secolo scorso sono esposti nelle vetrine e all'interno del salone, dove ancora si respira un'aria retrò solo in parte intaccata dalle folle di turisti e romani che si affollano al bancone. E tra vecchie locandine, tavolini in marmo e una nostalgica fontanella interna (perché il bicchiere d'acqua è un complemento d'obbligo al gelato, così come dovrebbe esserlo al caffè in ogni bar che si rispetti), alzando lo sguardo verso gli alti soffitti potremmo quasi percepire l'atmosfera di una sala da ballo di inizio Novecento. 

La vera chicca è il cortile liberty che si apre sul lato opposto dell'ingresso, un angolo silenzioso dove il tempo sembra essersi fermato e dove avviene il mio felliniano incontro con quattro simpatiche suore sedute sulle panchine di legno all'ombra delle piante. L'ulteriore prova che stiamo parlando di un gelato d'autore, perché se un tempo si riteneva che i posti  se magna bene si riconoscono dal numero di camion parcheggiati fuori, oggi la garanzia del godereccio ci viene confermata dalla presenza di preti e suore che, tra un sacrificio e l'altro, nel momento in cui decidono di peccare di gola, scelgono sempre di farlo al top. Leggendo i vari articoli esposti all'interno scopro che la famiglia, oggi come allora, ha sempre vissuto nel palazzo, il che rende ancora più affascinante l'idea di questa roccaforte del gelato con i Fassi che, al pari dei Lannister o degli Stark, continuano a presidiare il proprio castello proteggendolo dall'invasione della potenza economica Cinese.

Dopo essermi perso tra articoli, fotografie e vecchi cartelloni pubblicitari degli anni trenta e quaranta, esco dal palazzo con una confessione da fare: "alla fine nun me so magnato manco un gelato"! Forse avrei dovuto provare almeno il "sanpietrino": un quadrato di semifreddo ricoperto di glassa al cioccolato ispirato alla forma di quei famosi serci romani che lastricano le nostre strade attentando alla vita dei centauri motorizzati e delle impavide camminatrici su tacco dodici. E quindi lascio a voi il compito di andare e riferirmi, perché alla fine anche io, da bravo  romanaccio campanilista di quartiere, valore storico a parte, rimango fedele alla gelateria dietro casa: nel mio caso la mitica "Gelatomania" della Portuense, a cui posso comunque affettuosamente rimproverare che sì, magari non avranno prodotto torte gelato con la svastica, ma sull'orrido gusto "puffo" anni Ottanta dalla tonalità bluastra ce so cascati pure loro! (e i puffi non erano comunisti poi?)



lunedì 2 luglio 2012

Dice che nel Tevere si nasconde un anaconda


Sperare di imbattersi in uno scorcio poetico lungo le corsie del diabolico anello d'asfalto che risponde al nome di Grande Raccordo Anulare, potrebbe risultare impresa folle e quanto meno disperata (chi invece sembrò esserne felicemente ispirato fu Corrado Guzzanti nei panni di un improbabile Venditti "...e allora vieni con me, amore, sur grande raccordo anulare, che circonda la capitale, e nelle soste faremo l'amore, e se nasce una bambina poi la chiameremo: "Rrrrrrooooomaa"). Eppure basterebbe approfondire cosa si nasconde al di sotto delle nostre quattro incazzatissime ruote per scoprire uno scenario del tutto inaspettato. Ci troviamo sul tratto di GRA all'altezza della via Ostiense che, all' insaputa di noi miseri condannati che ne percorriamo ogni giorno la superficie bovinamente incolonnati, scavalca il fiume Tevere guadagnandosi immeritatamente lo status di ultimo ponte sul fiume ai confini della città. Ed è proprio sotto gli archi di questo tratto di raccordo che faremo la conoscenza di un insolito ristorante, categoria piuttosto rara tra le pagine di un blog che predilige scorci e passeggiate, ma che trova la sua meritata collocazione nel momento in cui l'esperienza gastronomica, a mio parere quasi sempre soggettiva, si accompagna all'autenticità della scoperta del nostro territorio e di una tradizione sempre più rara. E questo tratto di fiume Tevere, con la sua preziosa riserva naturale che custodisce gli ultimi baluardi della tradizionale pesca fiumarola, non poteva certamente essere ignorato.


Il passaggio segreto che dall'inferno di lamiere vi trasporterà direttamente in questo angolo di poetica decadenza è un'uscita appena accennata sulla rampa di collegamento tra la via Ostiense e il raccordo in direzione Fiumicino, immediatamente dopo l'uscita per l'ACEA. E proprio quando inizierete a sospettare di essere stati condotti con l'inganno nel bel mezzo di una perfetta scenografia da leggenda metropolitana, dove in un campo Rom sulle rive del Tevere verranno perse per sempre le vostre tracce, ecco aprirsi ai vostri occhi uno scenario naturalistico di imprevista serenità, in cui l'implacabile flusso di macchine sopra le vostre teste si trasformerà immediatamente nel rumore di fondo di una vita precedente. Un breve sterrato ci guida fino alla riva del fiume, dove troveremo ormeggiata la colorata struttura in legno e lamiera dell'Anaconda. Una struttura a due facce: da un lato ristorante, dall'altro punto d'approdo, partenza e preparazione dei fratelli Alfredo e Cesare Bergamini, gli ultimi (o forse sarebbe meglio dire gli unici) esponenti della pesca fiumarola delle anguille. Pescatori di terza generazione e custodi dei segreti del biondo Tevere, fedele compagno di una vita, i fratelli si sono organizzati in una piccola cooperativa familiare che dagli "ameni" lidi di Castel Giubileo si è infine spostata sulle rive selvagge di Mezzocamino. La pesca fiumarola si articola in due fasi: il pomeriggio vengono calati i cosiddetti "martavelli", reti-trappole d'artigianato frutto di una tecnica sapientemente tramandata di padre in figlio, mentre la mattina è dedicata alla raccolta e al recupero di reti e pescato: le famose ciriole (anguille in romanesco) destinate infine al ripopolamento degli allevamenti di anguille nelle vasche di Comacchio. Specifico la destinazione d'uso per dissipare il dubbio di chi si stesse chiedendo con una smorfia di terrore se il ristorante includa nel menù i frutti della pesca del fiume Tevere (e la mente corre al mitologico pesce-ratto di Fantozziana memoria). E in ogni caso non azzardatevi a parlare di Tevere inquinato ai fratelli Bergamini!


E' facile incontrare i fratelli al loro ritorno nel tardo pomeriggio, quando la luce del sole raggiunge la sua perfezione cromatica e l'arrivo delle barchette all'approdo dell'Anaconda ci riporta ad un malinconico passato, con i gatti che accorrono in cerca di ricompense, mentre Aironi Cinerini e Martin Pescatori volteggiano impavidi tra scarichi abusivi e cementificazione selvaggia, che in questo tratto di fiume ci appare miracolosamente e illusoriamente lontana ( o forse è solo ben nascosta dalla vegetazione sulla riva). Stupisce infine la presenza delle Nutrie, che molti ricorderanno nei pomeriggi di infanzia al laghetto di Villa Pamphili, dal quale vennero misteriosamente deportate con conseguente disperazione dei centinaia di bambini abituati a cadere nell'acqua nel tentativo di nutrirle. Questa ambigua parente del castoro riappare a noi nell'età del disincanto in cui è facile scambiarla per una zoccola di fogna ingigantita dagli effetti dell'inquinamento, finchè la vista del suo simpatico musetto ci riporta gradualmente a sfumare dall'iniziale "mortacci sua che sorcio!", alla nostalgia e alla curiosità. La contemplazione di questo acquerello romano anticipa la cena nel ristorante delle simpatiche sorelle, che hanno da poco preso in gestione questo angolo di anacronistica bellezza. A loro va sicuramente il merito di aver valorizzato la storia di una tradizione, e tra aneddoti e vecchi articoli sparsi ovunque c'è sempre qualcosa da imparare. La cucina e il personale sono rigorosamente romaneschi, perchè in fondo non sta scritto da nessuna parte che in un ristorante sul fiume non si possa mangiare una carbonara o due salsicce (e meno male, direbbe lo stesso di prima, preoccupato di un'eventuale cucina di fiume...Tevere).

Alcune sere l'Anaconda sembra quasi trasformarsi in una balera di fiume, con la musica dal vivo che sulle note di un agghiacciante repertorio nazional popolare che spazia dalla Pausini a Cocciante, ci riporta all'atmosfera delle feste di piazza in occasione della sagra della porchetta. Ma il raccordo è sempre sulle nostre teste, a ricordarci l'inesorabilità dell'indomani mattina, quando stressati, svogliati e incazzati dovremo transitare nuovamente tra le sue corsie, e ripensando alle facce serene di Cesare e Alfredo viene spontaneo pensare per un momento che forse, per questa vita, non c'abbiamo capito proprio un cazzo.


mercoledì 21 dicembre 2011

Dice che al Mandrione

Esistono paesaggi urbani che non potremmo trovare in nessun altro posto del mondo, vere e proprie scenografie metropolitane scolpite da una storia millenaria che non conosce interruzioni, in cui la "Roma eterna" non si coglie più nell'immobile monumentalità di un passato ancora in piedi, ma al contrario nella costante mutazione di una città che ha continuato a trasformare se stessa e il suo patrimonio in un alternarsi di splendore e miserie: la borgata del Mandrione è il risultato di tutto questo. Antichi acquedotti Romani e Rinascimentali, linee ferroviarie, tracce di campagna e schegge di borgata si incrociano e si accavallano in un'orgia architettonica senza tempo, dove la magnificenza delle antiche opere idrauliche si fonde con l'ingegno della povertà delle recenti baraccopoli, regalando nuova vita e nuova funzionalità alle vestigia del nostro passato. Questo viaggio nella stratificazione storica e antropologica si snoda lungo il percorso dell’omonima via del Mandrione e l’ultimo tratto della via Casilina vecchia, dove il confine tra la città e la campagna è un illusione che si ripete ad ogni svolta.

La zona venne occupata dagli sfollati del bombardamento di San Lorenzo del 1944, che proprio sotto gli archi dell'acquedotto Felice trovarono rifugio e ispirazione architettonica. Con l'aiuto di travi e lamiere gli archi dell'acquedotto vennero convertiti in veri e propri spazi abitativi, dando vita ad una piccola comunità con pacchetto completo di orticelli, bande di monelli scalzi e puttane di quartiere al seguito. E mentre case-grotta, case-sassi e case-barche attirano l’attenzione e la curiosità dei turisti di tutto il mondo tra l'Olanda e la Lucania, solo a Roma avrete modo di scoprire ciò che resta di quelle che potremmo battezzare case-baracche-acquedotto: più baracche che case, ma con il merito di un'ingegnosità che va ben oltre il risultato estetico. Questa convivenza tra sfollati, zingari e puttane negli anni 50 fu ovviamente una folgorazione per Pier Paolo Pasolini, che in onore di tanta sporca decadenza spese fiumi di pellicola e di inchiostro per celebrare la vita del Mandrione e dei suoi giovanissimi abitanti: " (...) la pura vitalità che è alla base di queste anime, vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto." 

La parte più raccolta è l’ultimo tratto verso la via Casilina, dove tutto sembra convergere verso un ideale centro di equilibrio: le strade e i binari si rincorrono in maniera sempre più serrata sotto gli archi dell'acquedotto Felice, e tra il via vai di ciclisti e l'onnipresente abbaiare di sottofondo, il Mandrione si trasforma in borghetto di artigiani, carrozzieri e falegnami. Un piccolo orto di campagna atterrato nella metropoli da chissà dove diventa parchetto per far pisciare i cani, centro di aggregazione sociale e luogo di bivacco gastronomico con tanto di panche, griglia per la braciolata e terrazza con vista sulla ferrovia, un spazio metafisico dove il lento strisciare dei treni scandisce un tempo che quassù sembra aver deciso di scorrere con un ritmo proprio, parallelo e rallentato.

Pochi metri più avanti l’illusione continua nel regno del "marmocemento", dove nonostante abbiate mancato l'appuntamento con lo spacciatore del parchetto, inspiegabilmente appariranno di fronte a voi la bocca della verità e una miniatura del Colosseo. Geloso del proprio status di rappresentante della città eterna, il Colosseo è forse li a ricordarci che anche lui, come gli acquedotti del Mandrione, ha il suo sporco passato di pascolo per vacche e cava di marmi papalina che lo ha tenuto in vita, ed è ingiusto pensare che sia sempre rimasto li solo come un bel pezzo da museo. In realtà questa bizzarra visione si spiega con la presenza dell'adiacente fabbrica "Roma Antica", una fucina di evocativi manufatti in marmocemento tra il kitsch e il pretenzioso, in cui statue classiche e fontane gareggiano per eccesso di pomposità alla ricerca di una collocazione in qualche "sobrio" giardino Romano.
Con i binari che scompaiono all’orizzonte e gli acquedotti che sembrano non avere fine viene da chiedersi dove sia finita la città, che quasi sembra farsi da parte per lasciare spazio a questo gioco di equilibri senza tempo. Il continuo incrociarsi, apparire, sparire crea una vertigine che lascia un vuoto allo stomaco, e quando il vuoto si trasforma in languore e il languore in fame nera è segno che è arrivato il momento di fare un salto in zona "Certosa"” per approdare in una delle ultime trattorie romanesche: l'Osteria da Betto e Mary.

Li dove il bagno si chiama "cesso" e il vino della casa stordisce con la violenza di un cazzotto in faccia, è possibile ritrovare i sapori perduti dell'autentica cucina Romana. Tra rutti, stornelli e pianti di infanti disperati a squarciare l'aria e le membrane del timpano, un piatto di pajata e un fiasco di vino rosso vi riconcilieranno con le atmosfere delle vere borgate Romane. Per un esperienza veramente hardcore non dovete assolutamente perdere i pranzi sociali a 10 euro ogni ultima domenica del mese, dove in compagnia degli abitanti della zona potrete unire l'utile al dilettevole contribuendo alle piccole battaglie sociali del quartiere e soprattutto alla difesa del vostro colesterolo. E se al secondo piatto di trippa sentirete crescere in voi un senso di colpa (e probabilmente non solo quello), consolatevi pensando che la vita è sempre meglio godersela: in fondo da queste parti di eterno rimangono solo gli acquedotti!

"Betto e Mary" si trova in via dei Savorgnan 99


martedì 3 maggio 2011

Dice che al vino e "al resto" ci pensa la garbata ostella (II parte)

Segue la seconda parte dell'itinerario alla scoperta della Garbatella (leggete la prima parte se non l'avete ancora fatto).

Dopo avervi abbandonato per tre giorni in un estenuante aperitivo all' "acino brillo", prima di riprendere il nostro percorso sarà innanzitutto opportuno tastarvi il polso e accertarmi che siate ancora vivi. Fatto questo, vi invito a rimettervi in marcia per proseguire nell'esplorazione del quartiere, alla scoperta delle bellezze che la nostra garbata ostella tiene ancora in serbo per noi.

Prima di lasciare piazza Sant'Eurosia e i suoi dintorni, vi suggerisco di volgere la vostra attenzione al famoso lotto 24 confinante con la Piazza, altrimenti detto lotto delle "casette modello". Questo vero e proprio laboratorio di sperimentazione urbana, venne edificato nel tempo record di soli 5 mesi in occasione del XII Congresso Internazionale delle Abitazioni e Piani Regolatori del 1929 (pensate che palle), con lo scopo di celebrare le potenzialità estetiche di stampo razionalista applicate alla funzionalità dell'edilizia popolare, il tutto ovviamente a fini dimostrativi e propagandistici. Venne quindi indetto un vero e proprio concorso a cui parteciparono i più importanti architetti della "scuola Romana". Tra questi si distinse e si accaparrò il titolo di vincitore (stop al televoto) l'architetto Mario De Renzi, con l'esecuzione del cosiddetto villino Palladiano all'angolo tra via delle Sette Chiese e via Borri, così come ricordato sulla lastra posta ai piedi del cancelletto di ingresso. Il risultato di questo esperimento è un'isola urbanistica a se stante, dalle architetture sobrie e lineari, che si inserisce con la sicurezza dell'abito "casual" in questo contesto a tratti esageratamente neobarocco e a tratti eccessivamente troppo ministeriale. Sempre nelle adiacenze della piazza, esattamente sul lato opposto, non mancate di fare un salto alla cosiddetta "chiesoletta" di garbatella, dedicata ai Santi Isidoro ed Eurosia e molto cara agli abitanti del quartiere, in particolare legati al suo oratorio, luogo di aggregazione di generazioni di ragazzi tra partite di pallone, prime canne e interminabili sfide a biliardino (il capitano della Roma Di Bartolomei si formò proprio su questo campetto).

Vale sicuramente la pena dare un'occhiata alla simpatica meridiana posta sul muro della chiesa ed incisa su una lastra di marmo. Oltre ad indicarci le ore comprese tra le 10:00 e le 15:00, con quel mix di sacro e profano tipico del disancantato modo di fare dei Romani, prima ci invita a riflettere con "Insegnaci o Signore a contare i nostri giorni" e poi a sbevazzare impunemente con "È sempre l'ora per un buon bicchier di vino". Che è un pò in effetti lo stesso ragionamento fatto da me quando ho cominciato a sospettare di non capirci un cazzo di come leggere una meridiana. A questo punto, seguendo gli insegnamenti del Signore, se i tempi coincidono con quelli della cena (o del pranzo), prima di passare sotto l'arco di via Rubino vi consiglio caldamente una sosta nella trattoria "tanto pe magnà", situata al civico 9/15 di via de Jacobis.
Come sempre più spesso accade, questi leggendari posti dove "se magna bene e se spende poco" sono diventati le nuove frontiere del radical chic, e attori e politici sempre più numerosi cedono al richiamo del piattone di carbonara in trattoria, secondo la nuova moda degli pseudo-vip che tra una scappata al Billionare e una seratina ad Arcore, non dimenticano i piaceri semplici e genuini del popolo a cui "si mischiano" per benevolenza e ritorno d'immagine ( lo dico con impercettibile vena polemica). 
A proposito di ciò mi è capitato di avvistare il presidente della regione Renata Polverini, che in un geniale seppure involontario atto di autoironia, ha scelto di portare il suo staff a cena proprio qui, nel posto che porta il nome dell'obiettivo primario della sua carriera politica, nonchè del vero e proprio leit-motiv della sua attività in regione: "TANTO PE MAGNA' ", appunto! Il sito web della trattoria è una celebrazione dell'essenzialità e del minimalismo: una pagina sola, poche cazzate e informazioni rigorose. In ogni caso le promesse vengono mantenute e questo ci piace molto, quasi quanto le polpette al sugo, la ricottina fresca dell'antipasto e l'immancabile gricia.

Soddisfatti e avvinazzati potrete riprendere il giro, imboccare via Rubino sotto l'arco, e godervi una piacevolissima passeggiata lungo questa amena stradina alberata, resa ancora più piacevole nelle serate primaverili dall'intensità del profumo dei fiori ( e se anche sentiste profumo di violette non aspettatevi di veder sbucare Padre Pio da qualche cortile). A metà strada un simpatico murales vi inviterà a soffermarvi per un ripasso completo della filmografia del grande Alberto Sordi. Prima di raggiungere Piazza Sapeto, vi suggerisco di curiosare nell'ultimo condominio a sinistra, dove, soprattutto nelle mattinate di sole, avrete la possibilità di godervi tutto il fascino di un intero cortile adibito a stenditoio, allestito con una variopinta esposizione di panni e lenzuola stesi ordinatamente ad asciugare. Confesso di provare una specie di attrazione morbosa per i caratteristici scorci di panni stesi al sole, umile spettacolo del quotidiano che grazie a quella commistione di semplicità, freschezza e rassicurante malinconia riesce comunque a suscitare un'emozione. Piazza Sapeto ci appare come un' autentica scenografia teatrale, in cui i palazzi sono le quinte di un palcoscenico che si apre inaspettatamente su un panorama metropolitano, lontano anni luce dallo splendore mozzafiato delle vedute del Gianicolo, ma con il fascino underground che solo le  periferie delle grandi città possono offrire. Al posto di una più classica cupola rinascimentale, la protagonista di questo scorcio urbano è la torre dell'orologio dell'albergo Rosso, uno dei quattro alberghi sorti alla fine degli anni trenta come ulteriore espressione architettonica del quartiere, e destinati ad ospitare temporaneamente gli sfollati del centro storico in camerate e spazi comuni.

A questo punto, nel caso abbiate esagerato con il vino di "tanto pe magnà", vi invito alla cautela nello scendere la scalinata di via Angelo Orsini, alla fine della quale, probabilmente complice l'alcol, troverete estremamente romantico il colpo d'occhio che vi si offrirà quando vi volterete alle vostre spalle. Al lato c'è la piccola fontana Carlotta, detta anche fontana degli innamorati in quanto storico luogo di incontro dei fidanzatini per i loro convegni d'amore prima della guerra:  un volto femminile incorniciato da lunghi capelli, da cui zampilla un getto d'acqua fresca, al tempo importante fonte di approvigionamento di acqua potabile per gli abitanti del quartiere.
L'immagine complessiva ci riporta a quegli acquarelli sul genere "Roma sparita", che lasciano un sorriso ebete sul volto ed una piacevolissima nostalgia, canaglia (come direbbe Albano) almeno quanto gli stronzissimi e scivolosi sanpietrini bagnati alla base della fontana.  Scesi dalla scalinata girate a destra per via Roberto De Nobili e proseguite fino a piazza Geremia Bonomelli.
A prima vista lo slargo non ha nulla di attraente, e prima che possiate pensare che vi abbia condotto in un posto totalmente inutile perchè ormai a corto di cartucce, vi segnalerò due piccole curiosità.

Innanzitutto, se guardiamo in alto sulla facciata del palazzo alla nostra sinistra, riconosceremo l'effigie della nostra beneamata ostella, protagonista nel precedente post dell'incipit di questo itinerario e simbolo stesso del quartiere. E' un busto di donna, che mostrandoci un seno scoperto, sembra invitarci maliziosamente a scoprire le sue grazie. E a noi piace pensare che in effetti ,se vogliamo davvero riconoscere la garbata ostella come personificazione del quartiere, quello che stiamo facendo è proprio scoprire le sue bellezze, in entrambi i casi neanche tanto nascoste, così come lei stessa ci invita a fare. Sempre sul muro dello stesso palazzo, un graffito di vernice rossa ci esorta con circa sessant'anni di ritardo a fare quelle che dovranno essere le nostre scelte politiche con un: "VOTA GARIBALDI LISTA 1" (Il volto di Garibaldi era l'emblema del Fronte Popolare in opposizione alla Democrazia Cristiana in occasione delle elezioni del 1948). Non si sa chi sia l'autore, ma è divertente immaginare che l'antenato di coloro che oggi verrebbero presi a calci nel culo per aver imbrattato le mura di un palazzo, abbia avuto le attenzioni di un restauro e di una pensilina a proteggere la sua personalissima, libera espressione.

Siamo quasi sul finale e vi garantisco che come in ogni spettacolo che si rispetti il bello deve ancora venire. Prendete via Basilio Brollo e girate a sinistra in via Rocco da Cesinale, seguendo l'anonimo tratto di strada che vi condurrà fino a piazza Longobardi. Lo spiazzo è dominato dall'elegante edificio che ospita l'asilo "casa dei bimbi", una delle poche costruzioni preesistenti al quartiere come villa e residenza di campagna ( a sua volta costruita sui resti di una Villa Romana di cui rimangono ancora tracce), e oggi conosciuta semplicemente come "la scoletta" dagli abitanti della zona. Da questo punto potete avviarvi verso il tratto più suggestivo e caratteristico, che scendendo per Via Giovanni Ansaldo e poi di nuovo a destra per via Randaccio culminerà nell'atmosfera incantata dell'omonimo Largo Randaccio. Insinuatevi nei cortili, tra nani da giardino e panni stesi ad asciugare (lo so è una fissa), piante che si arrampicano sui portici e palazzetti che sembrano piccoli castelletti in miniatura, dove al posto degli stemmi di famiglie nobiliari, compare il simbolo ICP (istituto case popolari) a ricordarci il paradosso di questo piccolo miracolo architettonico. L'estetica e la funzionalità, il passato e il presente politico, la semplicità popolare e le smanie intellettuali, sono quel continuo contrasto che rende unica questa piccola città nella città. Qui a largo Randaccio lascerò che vi perdiate per curiosare in giro. Concedetemi la piccola bastardata di avervi condotti per mano passo passo, per poi infine abbandonarvi tra i viottoli del quartiere, ben sicuro che alla fine converrete con me che perdersi un pò per la Garbatella è solo un'altra piacevolissima esperienza.
Il giro finisce qui..almeno per me ;)!

I contatti telefonici di "tanto pe magnà" (anche qui la prenotazione è d'obbligo) li trovate sulla pagina http://www.tantopemagna.it/

Grazie a Maurizio, Claudia e Luca per avermi accompagnato nelle mie esplorazioni del quartiere!



sabato 30 aprile 2011

Dice che al vino e "al resto" ci pensa la garbata ostella (I parte)

C'era una volta una bellissima ostessa. Nella sua locanda, adagiata sulla cima di uno sperone roccioso a sovrastare la basilica di S.Paolo, la fascinosa donna soleva accogliere con premura e dedizione i numerosi pellegrini che durante il celebre pellegrinaggio delle "sette chiese", decidevano di concedersi una sosta profana inebriandosi del vino e delle grazie dell'ostessa per riprendersi dalle loro sante fatiche. Si dice che la donna fosse a tal punto gentile e cortese che venne in breve soprannominata la "garbata ostella", ed è proprio a memoria delle sue garbate gesta (nel servire alla tavola come a letto) che la zona dove un tempo sorgeva l'osteria prese il nome di Garbatella.

E' un posto strano la Garbatella: la Roma e la romanità più autentica in un luogo che architettonicamente è quanto di più lontano ci sia dalla città che siamo abituati a conoscere. Passeggiare per il quartiere è una piacevolissima esperienza fatta di scoperte e familiarità. Ci si imbatte ancora nei veri Romani, con le trattorie veraci, i panni stesi, i bambini che giocano a pallone nei cortili, le signore affacciate alla finestra, e una genuina sinfonia di "aò" e "mortacci tua" come nostalgica colonna sonora di una Roma altrove sparita.
Il cuore del quartiere, la sua prima pietra e la genesi di uno stile architettonico soprannominato barocchetto Romano si ritrovano nell'incantevole piazzetta Brin. E' proprio qui che nacque la Garbatella, per ospitare operai e futuri lavoratori portuali in vista del grandioso progetto (mai realizzato) di costruzione di un canale navigabile parallelo al Tevere, che avrebbe dato vita a un importante porto commerciale alle porte della città (nell'attuale zona del Gazometro).

L'idea era quello di creare una sorta di città giardino fatta di villini, orti e cortili, dove gli abitanti potessero rivivere in perfetto equilibrio con gli spazi e le proprie dinamiche sociali, a metà strada tra il modello delle nuove periferie inglesi e la vita nelle campagne da cui i nuovi lavoratori sarebbero venuti.
Lo stile iniziale di questo quartiere, inizialmente concepito come un piccolo borgo marinaro,  risulta sorprendentemente ricercato, con elementi decorativi di gusto medievale che si fondono a richiami barocchi, vestendosi di povero solamente nella scelta e nell'utilizzo di stucchi e materiali economici.
Questa volta ho deciso di condurvi passo passo lungo un vero e proprio itinerario. Il consiglio è di seguirlo in un tardo pomeriggio estivo, così che possa interrompersi con un aperitivo all'aperto che faccia da apripista ad una smodata indigestione di trippa alla Romana Garbatella-style..

Propongo di partire proprio da Piazza Brin, dove tutto è iniziato il 18 febbraio del 1920 e dove il re Vittorio Emanuele III pose la prima pietra del quartiere, così come recita la targa posta sulla facciata del bellissimo palazzetto ocra, archetipo del già citato barocchetto romano  «Per la mano augusta di S.M. il Re Vittorio Emanuele III l'Ente autonomo per lo sviluppo marittimo e industriale e l'Istituto delle case popolari di Roma con la collaborazione delle cooperative di lavoro ad offrire quieta e sana stanza agli artefici del rinascimento economico della capitale. Questo aprico quartiere fondano oggi. XVIII Febbraio MCMXX.». Dalla piazza iniziate il percorso verso sinistra costeggiando i giardini con la pista di pattinaggio fino all'incrocio con via delle Sette Chiese. Dopo aver cambiato idea circa una quindicina di volte su quale villino vorreste possedere, arrivati all'incrocio avviatevi in discesa lungo questo piacevole tratto pedonale. La strada costeggia un parchetto che, dietro il suo anonimo aspetto di giardinetto di periferia concepito al solo scopo di sollazzare cani e cannaroli, nasconde all'interno di un'insospettabile casupola dal tetto rosso erroneamente identificabile come cesso pubblico, l'ingresso ad un vero e proprio tesoro sotterraneo: le catacombe di Commodilla. Il sito archeologico è normalmente visitabile su appuntamento, ma considerato che il nostro itinerario di oggi nasce con l'unico intento di una disimpegnata passeggiata tra i cortili e l'obiettivo di un'abbuffata in trattoria, rimando a futuri post di più elevato livello culturale-storico la descrizione di questo sorprendente monumento sotterraneo.
Girate di nuovo a sinistra per via della Garbatella (all'angolo c'è la mia personalissima scelta di villino dei sogni) e poi subito a destra discendendo per via Luigi Orlando, percorrendo la quale, mentre curioserete tra giardini e cortili evitando possibilmente di collezionare il numero massimo consentito di  "che cazzo te guardi?," raggiungerete in breve piazza Bartolomeo Romano al cospetto del celebre teatro Palladium.

A questo punto un breve salto temporale ci trasporterà dall'amena concezione di città giardino del 1920, alle incombenti necessità abitative in pieno periodo fascista, quando lo sventramento del centro storico e il conseguente dislocamento di parte della popolazione in zone periferiche, assecondò una diversa funzionalità architettonica nello sviluppo di palazzine più grandi, in grado di accogliere un maggior numero di famiglie e dove il verde degli orti individuali venne sostituito da cortili comuni, stenditoi e asili nidi. L'esasperazione di questo processo lo ritroviamo nella costruzione dei famosi alberghi di piazza Michele da Carbonara, di cui parleremo nella seconda parte di questo lungo itinerario.

Il Palladium nacque come cinema rionale di quartiere nel momento in cui la Garbatella, sempre più meta di sfollati trapiantati dal centro storico, cominciò a sentire l'esigenza di sviluppare servizi pubblici e luoghi di intrattenimento sociale. Da cinema di quartiere è stato riconvertito nel tempo in sala concerti, discoteca rock e oggi teatro. Potrei vantarmi di avervi assisitito a un fantastica esibizione live dei Muse, ma a quel punto per onestà intellettuale sarei anche costretto ad ammettere di aver presenziato in tempi non sospetti ad uno dei primissimi concerti degli articolo 31. Erano ancora agli inizi, avevo solo 17 anni, J Ax non era ancora lobotomizzato..e per evitare di continuare a lungo, sull'eco delle mie inutili e balbettate giustificazioni vi invito a proseguire in salita per via Francesco Passino fino all'incrocio con via Vittorio Cuniberti.

Prendendo via Cuniberti entrerete ufficialmente nella zona delle cosiddette "case rapide", altro esempio di sperimentazione architettonica che prevedeva la costruzione in tempi brevissimi di abitazioni dallo stile molto più sobrio e realizzate con materiali più economici rispetto al lotto originario di Piazza Brin. Questa è a mio parere la zona più affascinante del quartiere: l'atmosfera è quella di un piccolo borghetto fuori città, con le sue casette basse, i soliti cortili e il rumore della televisione e delle stoviglie riposte dopo il pranzo a rivelare una rassicurante quotidianità oltre le finestre aperte. E come in una antica Pompei potrete divertirvi a scovare tracce di "affreschi" giallorossi, testimonianze indelebili dell'ultimo scudetto della Roma, quando Garbatella e Testaccio si trasformarono in un vero e proprio monumento celebrativo a due colori.

Percorrete tutta la strada attraversando la silenziosa e suggestiva piazzetta Giovanni Masdea, e all'incrocio con Via Magnaghi, vi suggerisco una breve deviazione a destra verso Piazza Sauli. Una volta attraversati gli archi potrete infatti ammirare un interessantissimo esempio di architettura razionalista "di stato" nell'affascinante edificio che ospita la scuola "Cesare Battisti", con la sua bella torre traforata  (che fa molto New York anni '30) e le quattro aquile littorie, superstiti sentinelle di un tempo fortunatamente andato, rimaste a sorvegliare quello che è oggi uno dei quartieri storicamente più "rossi" della nostra città.
Tornando indietro per via Magnaghi, ripassando nuovamente sotto gli archi, continuate il precedente percorso girando a destra su via Giovanni da Montecorvino, da dove proseguirete fino a scendere i pochi gradini con vista che vi condurranno in Piazza Giovanni da Triora. Per dovere di cronaca, e in pieno tradimento di me stesso e della mia ripromessa di non nominare la sciagurata famiglia televisiva, mi trovo costretto ad informarvi che il Roma club Garbatella in fondo alle scale è conosciuto (e riconvertito) ahimè come bar dei Cesaroni, simpatici a me personalmente quanto un gatto attaccato ai coglioni (licenza poetica in rima ispirata dall'atmosfera goliardica del quartiere), e questo per via del suo utilizzo come location per l'omonima serie televisiva. Dimenticate in fretta questo scomodo dettaglio e proseguite per via Giustino de Jacobis fino a piazza Sant'Eurosia.

A questo punto è arrivato il momento di fermarsi per un aperitivo all'aperto nel wine-bar della piazza (l'Acino Brillo), magari contemplando il suggestivo arco di ingresso di via Rubino, in attesa che da un momento all'altro spunti Nanni Moretti in sella alla sua vespa (lo so è un clichè, ma glielo dovevo come par condicio per aver nominato i Cesaroni). Siamo giunti a metà del nostro percorso e non abbiamo ancora messo niente sullo stomaco.

Il tempo di qualche campari e un paio di prosecchi, e quando la fame si farà sentire, tornerò con la seconda parte di questo itinerario.

La visita alle Catacombe di Commodilla, situate in Via delle Sette Chiese 42, è possibile previo appuntamento con permesso della Pontificia Commissione di Archeologia sacra ( mei cojoni ci sta tutto) al numero di tel. 06/735824

Sempre in via delle Sette Chiese, al numero 68,  vi consiglio la pizzeria "i tre gatti". Aprendo il menù potreste sperimentare l'impulso di produrvi in una vile fuga accompagnata da imprecazioni varie alla vista dei prezzi delle pizze. In realtà scoprirete trattarsi di maxi pizze (tra l'altro molto buone) bi o più gusti per 2/3  persone. Se poi aggiungete la cortesia della proprietaria, degli ottimi antipasti misti (scordatevi i fritti, qui parliamo di cose serie tipo ricotta fresca e trippa al sugo) e un conto più che onesto allora mi ringrazierete per la dritta.

lunedì 28 marzo 2011

Dice che la scampagnata la famo in città

Con l'arrivo della primavera e il risveglio degli appetiti (in realtà mai sopiti) siamo entrati ufficialmente nella stagione delle gite fuori porta. Ci sono solo alcune lievi controindicazioni: l'alzataccia domenicale per raggiungere a tempo debito il ristorante in questione e l'inevitabile incolonnamento di macchine al ritorno su una consolare a caso, con l'aggravante della pesantezza post digestiva e l'effetto subdolo del vinello di campagna a minare i nostri più elementari processi psicomotori. Eppure a volte ci dimentichiamo che Roma ha il privilegio di ospitare all'interno della sua stessa area metropolitana intere zone di campagna incontaminata, dove a un passo dallo skyline periferico dei nuovi quartieri satellite, è possibile illudersi di rivivere il mito perduto dell' Arcadia tra pecore, cavalli, merde di vacca e sapori genuini (infelice accostamento, mi rendo conto).

Questa parte dell'agro Romano che vi invito a conoscere è la riserva di Decima-Malafede, una sorprendente area naturale protetta, istituita nel 1996 ed interamente compresa nel comune di Roma. E finchè il nostro rispettabilissimo palazzinaro Roberto Carlino (proprio lui, quello che non vende sogni ma solide realtà), dall'alto della sua carica di presidente alla commissione ambiente della regione Lazio, non deciderà di metterci le mani per qualche rifinitissimo complesso immerso nel (fu) verde, vi consiglio una passeggiata alla scoperta di una parte della nostra città e del nostro passato agricolo capaci di conservarsi ancora immutati nel tempo (Il che vi sarà di aiuto anche per riprendervi dallo sgomento di sapere tale immobiliarista a capo della commissione ambiente della nostra regione,  che sarebbe un pò come mettere la Franzoni alla commissione famiglia o Manuela Arcuri alla cultura). Per raggiungere la riserva dovrete prendere la Pontina nella carreggiata più esterna in direzione di Pomezia, fino a che, un paio di kilometri dopo aver superato il raccordo (all'altezza di Spinaceto), svoltando a sinistra tra una serie di brutture architettoniche e capannoni commerciali vi ritroverete catapultati in pochi secondi in uno scenario completamente diverso e inaspettato, con un contrasto così forte e immediato da lasciare quasi un senso di nostalgia per quello che temiamo di poter ancora perdere del nostro sempre più precario patrimonio naturalistico.
Proseguendo su via di valle Perna, ormai in aperta campagna, e con l'aiuto di qualche cartello, arriverete fino al complesso "agricoltura nuova" e alla storica torre di Perna, dove se avrete saggiamente evitato quelle fatidiche giornate da esodo di massa tipo pasquetta, 25 aprile o "prima domenica di sole dell'anno", sarete persino in grado di parcheggiare la macchina fuori da un fosso ed accingervi ad esplorare la zona circostante.

Agricoltura nuova è un interessante esempio di cooperativa Agricola, nata da un occupazione abusiva di terreni infine ottenuti in concessione, e il cui scopo, oltre a quello di tutelare l'area dall'edificazione selvaggia, consiste nel portare avanti un progetto agricolo tanto semplice quanto prezioso come quello di produrre alimenti sani e genuini direttamente per il consumatore finale. Ed è così che oggi,  in questo piccolo villaggio-fattoria nato sotto l'ombra della torre di Perna, possiamo ritrovarci a fare acquisti in un piccolo supermercato di prodotti a Km zero, a deambulare barcollando dopo aver pranzato nelle grandi sale stile mensa sociale dell'ottimo ristorante, o a scegliere un cavallo per una passeggiata presso il maneggio del posto.
La Torre di Perna, nata come torre di avvistamento a protezione e controllo delle strade che portavano al vicino castello di Decima, divenne nel 1600 una sorta di castelletto-casale inserito nell'omonima tenuta di Perna, di proprietà di Pompeo Colonna, ed è oggi la sede della Casa del Parco.
Il consiglio è di arrivare in mattinata per godersi una passeggiata lungo il sentiero natura, che partendo dalla fattoria vi guiderà giù lungo la valle, accompagnati da una serie di cartelli esplicativi che vi illustreranno le caratteristiche della flora e della fauna del posto.

Il sentiero parte attraverso un allevamento di api in arnie, dove, soprattutto se avrete evitato di spalmarvi la crema di cera d'api per rimediare agli effetti distruttivi dei bagordi del sabato, vi renderete conto di come la natura possa rivelarsi del tutto rassicurante quando è possibile sperimentarla nel suo contesto; e se anche siete soliti scatenare scene di panico con morti e feriti per colpa di un'ape infame entrata dal finestrino della macchina, riuscirete ad attraversare beatamente il ronzio di migliaia di api intente nel loro lavoro, ormai distanti anni luce dal familiare, ma ben più inquietante sottofondo di motori dalla strada. Dopo essere scesi nella valle il percorso risale attraverso un bosco di querce fino a raggiungere una collinetta ben arata. Da lì lasciate spaziare lo sguardo tra la valle sottostante, la torre di Decima in lontananza, l'odiata statale pontina e il profilo dei casermoni di Spinaceto, che sono li a ricordarci che in fondo questa campagna sconfinata è stata solo un'illusione, e che proprio per questo vale la pena che venga preservata più a lungo possibile.
Il ritorno e la salita sono il preludio al tipico pranzo della domenica. L'antipasto è già in tavola e il menù è fisso e abbondante. Alla fine appesantiti da un paio di chili e alleggeriti di 25 euro vino compreso, non resta che buttarsi nell'erba, sollevati al pensiero che tanto la strada per tornare a Roma non è lunga, perchè anche se non sembra, a Roma ci siamo già.
Alla faccia di Roberto Carlino e di tutti i palazzinari.

Il sito dell'agriturismo è http://www.agricolturanuova.it/ , dove trovate anche le indicazioni per raggiungere il posto e i menù della domenica! Se andate senza prenotare siete senza speranza.

giovedì 9 dicembre 2010

Dice che il giardino del paradiso sta giusto dietro ar kebabbaro

Ho scelto di condividere con voi la prima dritta gastronomica di questo blog partendo da terre e sapori lontani: mettete quindi da parte per un giorno code alla vaccinara, amatriciane e trippa alla romana e preparatevi alla scoperta della più autentica cucina Mediorientale della città. Siamo al confine tra quartiere Monti ed Esquilino e il locale che vi invito a scoprire è lo "Shawarma Station" di Via Merulana: non è un ristorante e non è nemmeno il classico kebabbaro take away, di quelli che spuntano in ogni angolo di Roma riciclandosi all'occorrenza come pizzerie al taglio.
"Shawarma station", punto di riferimento della locale comunità Mediorientale (la cui cospicua presenza è certamente garanzia di originalità) è infatti una specie di mensa o tavola calda, dove muniti del vostro bravo vassoio potrete scorrere lungo il bancone scegliendo e sperimentando tra un invitante varietà di autentici piatti della tradizione. Il posto è conosciuto come Libanese, ma il personale e le ricette spaziano dall' Egitto alla Siria. Per questo motivo, con la stessa innocente scioltezza con cui categorizziamo sotto la voce "er cinese" qualsiasi titolare di occhio a mandorla, dal Thailandese al Vietnamita, passando per il monaco Tibetano, propongo quindi di rimanere sul vago riferendoci a quest'ottimo locale di cucina etnica con un generico "dall'arabo".


Se siete stanchi del classico kebab (e ve ne perdereste uno veramente ottimo) potete sempre scegliere di provare tra le altre cose il migliore hummus che possiate trovare a Roma (crema di ceci), degli ottimi warak dawali  (involtini di riso in foglie di vite), un abbondante porzione di felafel o diverse varietà di riso (consigliato quello con mandorle e uvetta) e cous cous. Per concludere infine con un'interessantissima scelta di dolci. La saletta che vi accoglierà per farvi accomodare dopo il pagamento di un conto sorprendentemente basso, vi catapulterà al centro di un'autentica ambientazione da vera bettola turca o libanese. E se qualcuno dei vostri commensali, che avrete portato a forza per colpa dei consigli del sottoscritto, proverà a storcere la bocca, potrete tranquillamente affermare senza paura di essere contraddetti che comunque "è un sacco tipico". In ogni caso sono certo che nessun amante di questo genere di cucina potrà rimanere deluso.

Una volta saziato il vostro appetito, il muso unto di hummus e il kebab che continuerà a riproporsi inesorabilmente nel corso della giornata, daranno la giusta continuità tematica alla visita, appena dietro l'angolo, del più grande esempio d'arte Bizantina presente a Roma: la cappella di S. Zenone, definita giardino del paradiso per la ricchezza dei suoi mosaici, e la cui contemplazione vi trasporterà immediatamente nelle atmosfere della ricca Bisanzio. Questo vero e proprio capolavoro artistico è situato all'interno della basilica di S. Prassede, una chiesa che troverete interessante, oltre che per la suddetta cappella, anche per la sua truce storia e due singolari curiosità.
La basilica venne edificata nell'818 per volere di papa Pasquale I allo scopo di accogliere le reliquie della santa, sui resti di un preesistente titulus praxedis: una sorta di chiesa privata che corrispondeva all'abitazione della famiglia di Prassede dove venivano accolti e battezzati i cristiani perseguitati nel II secolo A.C.


La biografia della santa ci è stata tramandata attraverso uno dei cosiddetti ”passionari” Romani del V secolo, fantasiose biografie di martiri che conobbero larga diffusione nell’alto medioevo come letture edificanti e spunti di riflessione per i fedeli del tempo, evidentemente appassionati di letteratura pulp. La leggenda si tinge immancabilmente di rosso nel momento in cui, durante l' ennesima ondata persecutoria, l'imperatore Antonino Pio ordina la strage di un buon numero di cristiani, accoliti della chiesa di Prassede. Cosa fa la santa a questo punto? Pensa bene di raccogliere devotamente con una spugna tutto il sangue versato dalle vittime del martirio e gettarlo come reliquia (insieme ad altri resti umani) nel pozzo della sua chiesa/abitazione.
Un disco di porfido rosso all'inizio della navata centrale sta proprio ad indicare il punto in cui era situato il pozzo (e secondo altre versioni lo stesso disco è il coperchio con cui venne sigillato) dove la Santa soleva strizzare la sua spugna intrisa del sangue dei martiri uccisi. A questo punto è lecito chiedersi cosa sarebbe successo se a quel tempo fossero esistiti i frigoriferi e soprattutto se la santa ne avesse posseduto uno, ma prima di inoltrarci in questi scenari da mente criminale con il rischio di esporre questo blog ad irrevocabile oscuramento, ma soprattutto  per evitare di ritrovarci Bruno Vespa con il plastico della casa di Prassede (e relativo pozzo) nella prossima puntata di porta a porta, lascerei in sospeso l’argomento e vi inviterei a scoprire piuttosto le meraviglie di questa basilica.


Di sicuro impatto è il ciclo di mosaici che nella zona del presbiterio rivestono il catino absidale, l'arco absidale e l'arco trionfale della chiesa. Se con questo pensate di trovarvi di fronte ad una delle più pregevoli espressioni dello stile Bizantino Romano, aspettate allora di ammirare l'interno del cosidetto "sacello" di san Zenone, la piccola cappella che si apre sulla navata destra della basilica. La cappella fu dedicata dallo stesso Papa Pasquale I all'omonimo martire in onore della defunta madre Teodora. Completamente rivestito di mosaici, il sacello di S. Zenone rappresenta il più prezioso esempio di arte bizantina originale presente a Roma, e proprio in virtù della ricchezza delle sue decorazioni è conosciuto come giardino del paradiso.
Vi consiglio di arrivare muniti di moneta da cinquanta centesimi, un piccolo obolo che vi darà modo illuminare i mosaici per goderveli in tutto il loro splendore, ed evitare così di fare le poste alla turista giapponese di turno nell'attesa che apra per voi il suo borsellino di Hello Kitty. Potreste rimanere ore ad ammirare ogni singolo dettaglio di questo incantevole, minuscolo spazio.

L'ultima sorpresa la troverete nella nicchia che si apre alla destra del sacello e che è a sua volta collegata alla navata centrale. Al suo interno è infatti custodita nientedimeno che una porzione della colonna della flagellazione di Cristo, trasportata a Roma direttamente da Gerusalemme nel 1223.
A questo punto bisognerebbe aprire un intero capitolo sul culto e il commercio delle reliquie diffusissimo in tutto il medioevo, fatto nella stragrande maggioranza dei casi di falsi e pacchi clamorosi (il monastero o la chiesa detentrice di reliquia - testa, unghia o mignolo sinistro che sia - entrava infatti nel circuito dei pellegrinaggi sviluppando in questo modo il proprio "business turistico" e le conseguenti entrate finanziarie) . Basti pensare alle migliaia di frammenti della croce sparsi in tutte le chiese del mondo che da soli sarebbero sufficienti per costruire una copia in legno a grandezza naturale della torre Eiffel. Ma a noi, che come i pellegrini di un tempo vogliamo lasciarci affascinare da questi oggetti intrisi di leggenda, piace pensare che effettivamente, qui a due passi dal kebabbaro più buono di Roma, sia conservata una parte della colonna originale dove Gesù in persona subì il maritirio della flagellazione.
Alla fine del giro, una volta usciti da questo scrigno di tesori e di arte bizantina e con il kebab ancora ben piazzato sullo stomaco, sono certo che ricorderete questo connubio tra shawarma e mosaici come il vostro breve e personalissimo viaggio nelle atmosfere di Istanbul al centro di Roma.
E soprattutto a meno di 10 euro, monetina da 50 centesimi inclusa!
Shawarma Station si trova in Via Merulana 271 ed è aperto tutti i giorni (prezzo medio meno di 10 euro).
La chiesa di Santa Prassede ha invece il suo in ingresso in via di S.Prassede 9/a ed è visitabile dalle 7:30 alle 12:30 e il pomeriggio dalle 16:00 alle 18:00
Vista la prossimità con Piazza Vittorio (vedi post precedente) vi consiglio vivamente di unire le due cose.