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lunedì 14 ottobre 2013

Dice che da vicino nessuno è normale

"Visto da vicino nessuno è normale". Lo scopriremo durante questa difficile visita al complesso di S.Maria della Pietà, l'ex manicomio di Roma definitivamente chiuso nel troppo recente 1999 in seguito alla definitiva applicazione della legge Basaglia del 1978. Tra i viali alberati del parco, riconvertito in area verde oggi frequentata da joggers e famigliole, si impone la presenza di quei 34 decadenti padiglioni, e sembra impossibile non percepire il dolore di chi ha vissuto questi luoghi sulla propria pelle. Riportare la normalità lì dove la normalità non c'è mai stata, una contraddizione che stride e affascina allo stesso tempo. E' ora di abbandonare il maledettissimo politically correct e parlare di pazzi e di follia, perchè chi pazzo non ci è entrato, lo è certamente diventato una volta varcata questa soglia. E questo a causa di una legge sopravvissuta troppo a lungo ( legge Giolitti del 1904) che obbligava all'internamento persone ritenute "socialmente pericolose o di pubblico scandalo" (e quindi anche orfani, omosessuali o ragazze madri), un'aberrazione che poneva l'accento sul "comportamento" e la conseguente separazione dal corpo sociale, ma non sulla cura del disagio. Una legge volta a segregare, eliminare, annullare l'essere umano, portarlo al di fuori della società affinché venisse definitivamente rimosso (come quei bambini di strada rastrellati e rinchiusi in occasione delle pulizie generali per il santo giubileo del 1950).

Mi è stato fatto notare tra amici che sarebbe più corretto da parte mia parlare di "persone con disagi psichici", ma in certi casi di terminologicamente corretto non c'è assolutamente un cazzo, e solo il termine pazzia può definire a 360 gradi chi ha subito questo inferno, chi ha concepito certi meccanismi, chi è riuscito a mantenere la lucidità e un sentimentio umano nonostante tutto (penso al grande Adriano Pallotta, ex infermiere del S.Maria della Pietà e memoria storica di questi luoghi). Pazzia come violenza, a volte come genialità di un'espressione artistica, e fortunatamente pazzia di chi in tempi insospettabili ha avuto il coraggio di mettere ogni cosa in discussione contro tutto e tutti. A partire dallo psichiatra Franco Basaglia, che con le sue idee rivoluzionarie e incentrate sulla storia e l'individualità del singolo, ha portato a quello sconvolgimento finalmente confluito in una legge che porta il suo nome, per la chiusura dei manicomi e per un approccio volto al reinserimento e non all'esclusione sociale. Ma oltre e insieme a lui c'era anche chi portando avanti le stesse idee aveva molto più da perdere e da rischiare. Come l'infermiere Adriano Pallotta, fautore del cosiddetto blitz al padiglione 16, quando, in anticipo sulla legge e con un vero e proprio atto rivoluzionario scaturito da riunioni segrete e violente discussioni interne, vennero ufficialmente richieste e fatte approvare poche fondamentali regole per cominciare a rendere più umani e sopportabili quei luoghi senza vita: dalla conquista di una maniglia per aprire la porta, al sollievo di un attività ricreativa, per uomini ormai ridotti a zombi come semplici occupanti di uno spazio chiuso. Verso di lui c'è l'ammirazione per il coraggio, ma soprattutto per l'intelligenza e la lucidità di un uomo che, parte integrante di quel mondo chiuso all'esterno, è riuscito nonostante tutto a concepire che le cose sarebbero potute essere anche diverse da quello che erano.


Tutto questo ci viene raccontato all'interno del padiglione 6 nel nuovo "museo laboratorio della mente". Il museo è un piccolo gioiello per innovazione e metodologia, grazie anche alle sorprendenti installazioni realizzate dallo studio Azzurro. Devo ammettere che solitamente divento allergico al solo sentire parlare di "installazioni", termine che mi riporta alla mente sedicenti artisti fancazzisti e figli di papà che il più delle volte concettualizzano il nulla assoluto mettendo insieme rifiuti urbani, tracce audiovisive distorte e oggetti esposti nella solitudine di uno spazio che potrebbe essere occupato molto più funzionalmente da qualche cassa di birra. E mentre il pubblico si atteggia ad esperto, i veri grandi artisti del passato si rigirano nella tomba. Ebbene al museo della mente ho deciso di ricredermi completamente abbandonando ogni mio pregiudizio con tanto di mea culpa, di fronte alla rara eccezione di "installazioni" (mi costa dirlo) non solo dotate di un significato profondo e perfettamente condivisibile, ma dove la funzionalità della sperimentazione si accompagna ad una cura estetica di grande impatto.

Ed è attraverso di esse che si svolge la prima parte del percorso, dove prima ancora di "assistere" come spettatori morbosi e commossi alle storie tragiche di chi ha vissuto in questi padiglioni, saremo costretti a concentrarci su noi stessi e sui meccanismi della nostra mente, in un costante parallelismo fra le nostre percezioni e quelle di chi ha davvero varcato questa soglia, fisica e mentale. Si parte con la cosiddetta "camera di Ames" e le sue alterazioni percettive, per stabilire quel principio che dovrà accompagnarci durante tutta la nostra esperienza: la mente lavora in modo assolutamente pregiudiziale. Assistendo ad un effetto ottico di tipo spaziale, capiremo che è più semplice distorcere la realtà piuttosto che mettere in discussione i modelli così come abbiamo imparato a percepirli sin dall'infanzia. Lo stereotipo e il pregiudizio come pericolosa autodifesa. E così si procede in una reintepretazione delle patologie psichiche (l'illogico assedio di voci e parole, lo sdoppiamento della propria immagine riflessa, il dissociamento espressivo di chi parla senza riuscire ad ascoltare e viceversa) con pezzi di noi che ritornano nelle stanze successive, sotto forma di parole o immagini precedentemente registrate.

A questo punto saremo sufficientemente pronti ( e scossi psichicamente) per varcare la soglia della follia, una follia più subdola di quella sfoggiata in macchina o al telefono poco prima di entrare. Ci prestiamo quindi alla foto segnaletica per un ingresso simbolico tra le figure di questo passato, per poi successivamente ritrovare il nostro volto confuso tra quelli degli ex pazienti su uno schermo che controlleremo da seduti dondolandoci avanti e indietro, affinchè persino la fisicità gestuale della follia entri a far parte di noi. E se vorrete sperimentare le famose "voci nella testa", basterà accomodarsi con i gomiti appoggiati su un tavolo (ben posizionati sul punto di emissione) e le mani a coprire le orecchie, per lasciarvi deliziare da un'inquietante sequela di "nonsense" sparata direttamente nel vostro canale uditivo, dalla lista delle spesa alla quintessenza dei deliri paranoici. L'effetto acquista un senso anche visto dall'esterno: gli osservatori potranno sperimentare la vostra figura con la testa stretta fra la mani come quella di un paziente che voglia fermare questa oppressione interna, con voi stessi che diventerete parte attiva dell'installazione mentre interpretate la (vostra?) pazzia.

La seconda parte della visita riproporrà la ricostruzione (e la conservazione) di alcuni ambienti originari, dallo studio medico, luogo di speranza e umiliazione, alla farmacia, alla cosiddetta camera di contenzione, la stanza dove il paziente veniva legato al letto con delle fasce per un tempo variabile tra poche ore a qualche anno (sì, addirittura anni), il tutto per comportamenti arbitrariamente non graditi. E se la vista della camera di contenzione non fosse di per sé abbastanza forte, il fatto di spiarla in solitudine attraverso un foro sulla porta vi regalerà l'effetto speciale aggiuntivo di farvi sentire degli stronzi morbosi. Infine il refettorio, luogo di comunione e di consumo dei pasti, rivive in una raffinata trovata multimediale come archivio documentaristico. Ed è così che toccando alcuni documenti apparentemente dimenticati su un tavolaccio di legno, si apriranno le storie, le interviste e le testimonianze di chi questo mondo, da vittima o carnefice senza alcuna distinzione di ruoli, l'ha vissuto durante tutti questi anni. Si ricostruisce così il mosaico di una vera a propria città autosufficiente dove gli attori si muovono in gruppi: i medici intoccabili e distanti, gli infermieri divisi tra umani e aguzzini, i pazienti  scrupolosamente classificati per genere e caratteristiche comportamentali, e infine le suore gendarmi. Grazie a queste testimonianze si cerca di restituire l'unicità e l'individualità ad ogni singola persona. Si restituisce all'uomo la sua storia, quello che veramente conta nell'approcciarsi con il diverso da noi, a tutti i livelli. Fa quasi sorridere che proprio durante una visita che vuole sconfiggere ogni stereotipo, ritorna nelle frasi, nei racconti, nelle testimonianze, forte e tragicomico, lo stereotipo delle suore implacabili e crudeli, quelle che ordinavano l'elettroshock, che punivano i pazienti, che vessavano gli infermieri. L'unico gruppo dei quattro tra i quali sembra non emergere nessuna individualità positiva, uno stereotipo che nemmeno il mito di miss Pony in Candy Candy  è riuscito a scalfire dai lontani giorni dell'asilo, e che in questo caso sembra trovare la sua rassicurante conferma. 

Le installazioni, i documenti, i filmati, gli oggetti personali accatastati nella ricostruzione di quella che veniva definita "la fagotteria", ovvero il luogo dove i pazienti venivano spogliati di ogni effetto personale (che banalità sarebbe dire "e anche della loro dignità") per mettersi nella mani di un folle esperimento collettivo, tutto contribuisce a sorprenderci, emozionarci, farci sorridere (perchè no?) e prenderci a pugni. Ma forse l'effetto non sarebbe stato la stesso senza la preziosa presenza di Adriano Pallotta, il rivoluzionario infermiere di cui vi ho parlato. Lo rivediamo alternativamente tra i filmati e poi in carne ossa davanti a noi, a raccontarci le stesse storie e a trasmetterci la stessa emozione. Sembra quasi che sia un effetto voluto, in continuità con quel gioco di voci, immagini e parole che ritornano e rimbalzano da una stanza all'altra con risultati percettivi differenti. Adriano è sullo schermo, nella stanza, nel filmato multimediale, e di nuovo fuori a fumarsi una sigaretta e a scherzare con noi. Sto impazzendo davvero? Mi sono venuti gli occhi lucidi e questo in un museo non succede.

E' difficile rimanere lucidi e corretti parlando di una visita così emozionante. Chi si aspettava (chi mi ha chiesto) che aiutassi a far conoscere questo luogo straordinario raccontandolo con distacco e la giusta dose di politically correct rimarrà deluso. Sono certo che tornerò nuovamente, ancora e ancora, morbosamente attratto dal mistero della psiche, dalla percezione forte di un dolore vissuto (perchè siamo così?) e più semplicemente dalla normale attrattiva di un museo così ben organizzato e all'avanguardia, incredibilmente ancora troppo nascosto e sconosciuto. Come disse Basaglia ispirato dalle parole di un uomo che dopo anni di segregazione dal mondo era terrorizzato all'idea di "entrare fuori", è ora di far cadere le barriere mentali e fisiche per poter infine "entrare fuori e uscire dentro".
Se vi perdete questa visita siete dei pazzi, e affanculo il politically correct.


Il museo laboratorio della mente è situato nel padiglione 6 del comprensorio di S.Maria della Pietà, in Piazza S.Maria della Pietà 5, ed è visitabile dal lunedì al venerdì tra le 9:00 e le 17:00 e il sabato tra le 9:00 e le 13:00. Ingresso 5 euro, tel.0668352927. 

Ringrazio Antonella per avermi fatto conoscere questo posto, Alessandro Rubinetti per avermici portato fisicamente in una delle sue passeggiate teatrali e Adriano Pallotta (chiedete di lui) per i suoi racconti e la sua grande umanità.


martedì 19 febbraio 2013

Dice che 'sta città "non s'ha da fare"!


Esistono diversi modi per entrare a curiosare nella vita privata di un artista: attraverso l’interpretazione delle sue opere, sfogliando l’ultimo numero di Novella 2000 o molto più efficacemente introducendoci all’interno della sua abitazione. Ma non temete: ciò che può suonarvi come un’istigazione a delinquere è in realtà un semplice invito a scoprire una delle tante case museo presenti a Roma, che, complice la quasi totale assenza di visitatori, offrono l’opportunità di fare un salto nel tempo immergendosi completamente nell’atmosfera e nei segreti della vita di un artista, che il più delle volte è prima di tutto un uomo di un altro secolo. Tra queste la più sorprendente è sicuramente la casa museo di Hendrik Christian Andersen, un vero e proprio palazzetto degli inizi del Novecento immerso nella tranquillità residenziale del quartiere Flaminio. Ma chi era Hendrik Christian Andersen? Pittore e scultore, nato in Norvegia nel 1872 ed emigrato con la sua famiglia ancora bambino negli Stati Uniti, Hendrik decide di trasferirsi a Roma durante il classico viaggio di formazione in Europa, una sorta di tappa obbligata per gli artisti d'oltreoceano. Intorno a lui ruotano tutta una serie di personaggi degni di una trama da serial televisivo: il fratello pittore Andreas, morto in giovane età, la ricca cognata Olivia, vera e propria mecenate e finanziatrice dei due fratelli artisti e poveri in canna, lo scrittore Americano Henry James, il suo “maturo” amante nonchè protagonista di un appassionato scambio epistolare, l’onnipresente madre Helene (da cui il nome Villa Helene) e la giovane governante Lucia, in seguito adottata dalla madre, e ultima usufruttuaria della villa, da lei stessa magicamente trasformata in bordello per onorare la memoria artistica della propria famiglia adottiva.


All’ingresso del palazzo, come in una moderna trasposizione del caro vecchio concetto di casa-bottega, veniamo immediatamente accolti dagli ampissimi ambienti del pianoterra che ospitano lo studio di scultura e la galleria d’esposizione, scenario surreale di una collezione apparentemente interrotta. Una sorta di classicismo filtrato all’americana si fonde con i temi  ridondanti e involontariamente propagandistici di inizio secolo che fanno perno sulla gagliardia fisica, la maternità e l’intelletto, consegnandoci un risultato indubbiamente monumentale, ma decisamente discutibile secondo gli snobissimi gusti dell’intellettuale europeo nel quale ci siamo momentaneamente incarnati. La visione d’insieme è grottesca e straniante, ma allo stesso tempo ipnotizzante quasi quanto un momento di brutta televisione. Questi candidi giganti abbandonati sotto il grande lucernario, preziosa fonte di luce per accompagnare i lavori in corso, sembrano avere preso forma appena ieri, e quasi ci si aspetta che da un momento all’altro entri l’autore per chiederci cosa ne pensiamo (fortunatamente non è così e non saremo costretti a mentire).


Passando dallo studio alla galleria, vera e propria sala di rappresentanza per l’esposizione delle opere finite, inizieremo finalmente a comprendere il disegno di una mente lucidamente geniale nel suo folle e megalomane progetto, a cui l’intera produzione artistica era destinata: la costruzione di un’utopica città ideale. Tutte le sue sculture vennero infatti pensate e realizzate per la decorazione degli edifici di una fantomatica città mondiale delle arti, delle scienze e del pensiero filosofico e religioso. L’idea incontrò inizialmente il favore di Mussolini, il quale successivamente troppo preso dagli improrogabili impegni bellici, perse interesse nel progetto condannandolo così all’oblio e al naufragio. L’area individuata per la realizzazione di questo centro mistico-scientifico era quella tra Maccarese e Fiumicino (lo sbocco al mare era infatti una parte integrante, allo stesso tempo simbolica e strutturale, dell’intero progetto): quella stessa zona successivamente santificata da gitanti in canotta, dove l’unico connubio tra scienza e filosofia si è risolto nella ricerca dell’ombra in pineta per la pennichella post pic-nic. Ed è lì che diventa entusiasmante scoprire i disegni, i progetti e le mappe di quello che sarebbe potuto essere e che (purtroppo o per fortuna) venne costruito solo nella mente di un’artista. Quasi ci sentiamo delle spie a sfogliare l’imponente volume illustrato “Creation of a World Center of Communication”, opera magna che ripercorre la genesi di questa città ideale a partire dalle concezioni urbanistiche delle più antiche civiltà. E guardando le sculture e i progetti non possiamo fare a meno di pensare alle scenografie del kolossal in bianco e nero "Cabiria".


Proseguendo al primo piano verremo introdotti nell’appartamento privato dell’artista ( e in seguito “pensione” a luci rosse grazie alla romanesca vena imprenditoriale della sora Lucia Andersen), oggi spesso sede di mostre temporanee. Molto più della mostra di turno a colpirci sono le atmosfere arricchite dalle autentiche decorazioni liberty, che ci riportano al tempo e ai personaggi di questa lunga storia fatta di sogni e amori impossibili, personaggi che, forse in maniera leggermente inquietante, ritroviamo scolpiti nei volti di pietra che decorano la facciata esterna dell’edificio. E così anche la stanza più spoglia, quella dove è parcheggiata la macchinetta automatica delle bevande, diventa allo stesso tempo la più intima, con una collezione originale di foto di Hendrik e della sua famiglia, dei suoi successi lavorativi, dei suoi momenti sia intimi che professionali. Alla fine del giro quasi ci sembra di conoscere tutto di lui: abbiamo ammirato le sue opere e gli strumenti di lavoro, il progetto-sogno di una vita, i suoi libri, i volti dei suoi familiari e delle persone amate, abbiamo percorso le stesse stanze, e soprattutto ci siamo illusi di vivere nel suo tempo per il breve momento di una visita. Uscendo sul terrazzo non possiamo fare a meno di riflettere: non sapevamo nemmeno chi fosse Hendrik Christian Andersen, e appena dopo meno di un'ora ci sembra di aver attraversato la sua vita come in un film. La cosa più sconvolgente? Non abbiamo nemmeno pagato il biglietto.


Il Museo Hendrik Christian Andersen su trova in via Pasquale Stanislao Mancini 20 ed è aperto dal martedì alla domenica tra le 9:30 e le 19:30. L'ingresso è gratuito!

mercoledì 9 gennaio 2013

Dice che a Dragona ce trovi pure l'uovo di dinosauro


Quest'oggi ho deciso di accompagnarvi in un'insolita gita fuori porta, dove per "porta" intendiamo i confini del Grande Raccordo Anulare, e per "fuori" tutte le possibili accezioni di tale espressione, a partire da un sempre stimolante "fuori" dalla quotidianità, dalla logica e dalla nostra dimensione, per concludere infine con un meno rassicurante "fuori" di testa. Ci troviamo a Dragona, nome che riporta alla mente le atmosfere magiche di una letteratura fantasy da Terra di Mezzo, in realtà comunissima frazione del più sterile hinterland metropolitano, fatto di anonime stradine residenziali martoriate dalle classiche buche di ordinanza made in Rome. Ed è proprio tra le palazzine di Dragona che si nasconde il Museo Agostinelli, luogo che nonostante la categorizzazione museale sfugge a qualsiasi definizione e che ci viene presentato nell'omonima brochure come "la più ampia raccolta al mondo di Arti, Tradizioni e non solo...", confermando in questo modo l'evidente difficoltà di classificazione della nostra meta.


Il museo nasce dalla mente del proprio fondatore, Domenico Agostinelli, commerciante d'arte e restauratore che, nel corso dei suoi viaggi intorno al mondo a partire dagli anni Cinquanta, ha lasciato che la sua canonica attività professionale degenerasse in una compulsiva raccolta e catalogazione di ogni sorta di oggetto o testimonianza, dando il via ad un mostruoso numero di collezioni dei generi più disparati, che come in un processo di implosione del big bang sono confluite nel piano terra di questa palazzina di Via Donato Bartolomeo. Le circa quattrocento collezioni dichiarate sembrerebbero riassumere tutte le conquiste del genere umano, dalle monete alla carta igienica, passando per flipper, immagini sacre, orologi e mappamondi. Tra marionette e raccolte di necrologi anche l'occulto trova il suo spazio in una nicchia popolata di teschi e bambole vodoo, mentre nella stanza della musica un'orgia di strumenti, spartiti e busti di compositori celebri vi stordirà con un silenzioso, ma piuttosto caotico concerto visivo. Ed è per questo che ho amato subito questo (non) luogo. L'impressione è quella di oscillare tra l'ingresso nel paese delle meraviglie di Lewis Carrol e quello in un incubo di Dario Argento, e non potrete che lasciarvi entusiasmare e tramortire dalla molteplicità di stimoli di un mondo dove sembra non esserci rimasto un solo centimentro quadrato di spazio libero di superficie.


A me piace immaginarlo come il paradiso degli oggetti smarriti, un romantico limbo dove potrete infine riabbracciare e ricongiungervi con i circa centodiciotto ombrelli sperduti irrimediabilmente in giro durante tutto il corso della vostra esistenza. E se è vero che nella mente di un genio c'è sempre un fondo di follia, non possiamo che definire geniale questa raccolta: nell'apparente disordine ogni cosa è in realtà meticolosamente catalogata per scomparti, e solo dopo essere stati catapultati in questo vortice a prima vista insensato, la vostra mente, come per un meccanismo di autodifesa, e con lo stesso processo per cui gli occhi si abituano lentamente al buio, inizierà a distinguere un filo conduttore. E così tra cartelli scritti a mano, scatole e cassetti tutto sembra ricomporsi in una logica sfuggente, per poi scomporsi improvvisamente in una nuova ricerca senza riferimenti,  fino a quando rivivrete quella stessa paranoica sensazione (di quella volta ad Amsterdam) che siano gli oggetti a trovare voi. Si narra che in questo caos siano custodite delle autentiche chicche, come un uovo di dinosauro, i capelli di Garibaldi e una lettera autografata di Maria Antonietta. Devo ammettere di non aver chiesto lumi ai gentili proprietari per individuarne la collocazione nonostante fossi partito già informato sui fatti e deciso a prenderne visione, ma devo riconoscere come la cosa sia passata in secondo piano una volta scoperto che l'eccezionalità del posto non era certo dovuta alla presenza di questi sparuti cimeli, ma all'esistenza stessa di questa creatura multiforme nella sua interezza, dove tra meteoriti e animali imbalsamati, l'autenticità di un singolo oggetto diventa l'ultima delle preoccupazioni.


Questo passare dall'incredulità all'entusiasmo, per poi concludere con una leggera nota malinconica e una raucedine da polvere, rende la scoperta del museo Agostinelli una vera e propria esperienza multisensoriale. In questo generale sbandamento anche lo spazio diventa un concetto relativo, e quelle che da fuori sembrano due o tre sale di un piano terra delle dimensioni di un negozio, si trasformano all'interno in uno sconfinato susseguirsi di ambienti dove il concetto di vuoto è bandito da ogni categorizzazione mentale. Alcune zone rimangono off-limits, mentre in altre è specificato che si può accedere solo accompagnati. Il motivo sta nella presenza di numerosi oggetti potenzialmente fragili o pericolosi, come una collezione di taglienti bisturi chirurgici che, come spiega la proprietaria alimentando un brivido sulla schiena e una goccia di gelido sudore sulla fronte, nel caso qualcuno ne afferrasse uno e ZAC (accompagnato da un convincente mimo del taglio della gola) potrebbe trasformarsi in un problema. Se tutto questo sembra avere poco senso, in realtà il museo Agostinelli rappresenta anche una miniera di materiali ad uso e consumo di registi teatrali e cinematografici (si fanno i nomi di Avati, Zeffirelli e Tornatore), una specie di cilindro magico dove è possibile reperire gli strumenti per dare vita con verosimiglianza a qualsiasi tipo di scenografia.


I membri della famiglia estremamente gentili e disponibili, l'ingresso gratuito e la possibilità per gli appassionati di scatenarsi in un delirio fotografico senza restrizioni rendono questa visita, oltre che speciale nel suo genere, anche estremamente piacevole e rilassata. Sempre che essere fissati da decine e decine di bambole di porcellana appostate ad ogni angolo non rappresenti un problema per la serenità della vostra successiva attività onirica. Unico effetto collaterale al momento dell'uscita è una certa spossatezza come da postumi di un viaggio nel tempo, con il cervello sul punto di soccombere alla molteplicità di informazioni diverse, coattivamente assorbite nel giro di un paio d'ore...o forse erano solo pochi minuti?

Il museo Agostinelli si trova a Dragona in via Donato Bartolomeo 48 ed è visitabile dalle 8:30 alle 13:00 e dalle 16:00 alle 19:00 (chiuso sabato pomeriggio, festivi e ad agosto). Tel: 06/5215532


mercoledì 29 agosto 2012

Dice che dalla stazione di Porta S.Paolo si viaggia..nel tempo


L'estate sta finendo (involontaria citazione trash anni Ottanta) e, complice la paventata crisi economica, moltissimi tra i romani hanno scelto per quest'anno di limitarsi ad un pendolarismo estivo di consolazione verso gli ameni lidi di Ostia Beach. Nel corso dell'ultimo secolo la linea ferroviaria Roma-Ostia lido della stazione di Porta San Paolo ha consentito a generazioni di bagnanti di transumare verso l'agognato refrigerio del litorale metropolitano, lungo questa mitica tratta che rimane tutt'oggi un'esperienza obbligata per ogni vero romano, e che varrebbe la pena affrontare anche solo per osservarne la variegata umanità che ne popola allegramente banchine e vagoni munita di pranzi al sacco, materassini oversize e ombrelloni contundenti: una versione decisamente più estiva e colorata rispetto alle grigie tonalità di solitudine che siamo abituati ad incontrare nei convogli metropolitani in orario di ufficio. Per chi non lo sapesse, una volta attraversato il varco muniti di biglietto, c'è la possibilità di ingannare l'attesa con un rapido salto nel passato delle ferrovie metropolitane, attraverso una breve visita all'adiacente Parco Museo Ferroviario dell'Atac. Agli incazzatissimi utenti dei mezzi in questione, che contino di riuscire ad ammirare in loco una collezione di scalpi degli amici di Alemanno nepotisticamente infiltrati in azienda, dispiace comunicare che dovranno accontentarsi di una curiosa esposizione di tram e locomotori d'epoca, affiancati da tutta una serie di cimeli a tema rinvenuti tra depositi, stazioni e uffici amministrativi. 


Una volta entrati verremo accolti con sospetto e delusione da una serie di locomotori in disuso, e quelle che a prima vista ci appariranno come vecchie macchine arenate in un capolinea di periferia qualsiasi, si riveleranno in realtà essere dei piccoli gioielli d'epoca dai nomi altisonanti di Locomotore 05, Tram 404, ed Elettromotrice ECD21. La possibilità di salire a bordo per un viaggio temporale su binario è il classico bonus che farà sicuramente la differenza. Ed eccoci così montare all'interno del tram 404, classe 1939, un tempo operativo su quel percorso fatto di sogni e speranze che da Termini conduceva a Cinecittà. Tra i vecchi sedili in legno e la scoperta di dettagli d'epoca, una serie di vetrinette conservano documenti e scartoffie a tema tra i quali è doveroso segnalare l'originale di un certificato di richiesta di "prolungamento malattia" di un ex lavoratore, la cui presenza in sede di esposizione ci piace leggerla come autoironica celebrazione delle attitudini dei dipendenti pubblici. In poche parole la "cazzata" di un ex dipendente nostro antenato assurge alla dignità di documento storico che diventa pezzo da museo. Raccoglimento e devozione di fronte al cimelio sono richiesti ad ogni vero fancazzista che si rispetti.


Ancora più affascinante risulta l'esplorazione a bordo dell'elettromotrice ECD21 (per i profani una sorta di mix tra convoglio postale e treno passeggeri) in rappresentanza dei convogli della ferrovia Roma- Civita castellana-Viterbo. Il cosiddetto treno della Tuscia, oltre a sfoggiare la sua buca postale itinerante brandizzata "Regie Poste" sulla fiancata, destinata a  raccogliere la corrispondenza lungo le stazioni, ( ogni commento comparativo o riflessione sulle moderne tecniche di comunicazione suonerebbe banale e retorico, ma non resisto e devo farlo: "altro che le e-mail di oggi!"),  ci accoglie al suo interno in uno scomparto viaggiatori di terza classe dagli originali arredamenti lignei. Sarebbe certamente interessante approfondire i dettagli della cabina-sala macchine o l'interno del piccolo ufficietto adiacente allo scomparto bagagli, ma l'esperienza più significativa è certamente quella di sedersi al "proprio" posto, chiudere le tendine e immaginare una destinazione di sessant'anni fa per un viaggio nella storia che, complice la propria fantasia, pochi musei sanno ancora regalare. Se poi qualcuno dovesse sorprendervi mentre leggete il vostro libro comodamente seduti prendendovi per pazzo, è comunque un problema suo.


Tornati all'esterno possiamo chiedere al disponibilissimo e gentilissimo personale (e lo dico senza ironia) di condurci verso l'ex biglietteria estiva, testimone di un tempo in cui l'incremento dei viaggiatori su rotaia verso l'esotico lido di Ostia necessitava di sportelli aggiuntivi per la stagione calda, in linea con quella consueta efficenza di regime tuttora tristemente glorificata (ed effettivamente dei "treni in orario" la nostra storia ne avrebbe fatto volentieri a meno). All'interno è visibile un'ulteriore collezione di inutili e curiosi cimeli che, tra vecchi pacchi di biglietti inutilizzati e tessere ingiallite di ex dipendenti, potrebbero al limite destare interesse esclusivamente in un frequentatore accanito di mercatini delle pulci. E anche in questo caso saranno la fantasia e l'immaginazione a regalarci l'emozione più forte, quando tenteremo di rievocare una nostalgica cartolina d'epoca dove bagnanti del secolo scorso si accalcano in fila per un biglietto verso l'eccezionalità di una giornata al mare a quegli stessi sportelli ormai chiusi. Ma il cuore dell'esposizione e la vera sorpresa che ci riporterà alle nostre primitive pulsioni ludiche è la "stanza segreta" con il plastico dei trenini elettrici. Anche in questo caso sarà il custode di turno ad introdurci in una stanza dominata dal cosiddetto plastico Urbinati (dal nome dell'autore), rappresentante la stazione e la centrale elettrica di Osilo (che una googlata veloce collocherà in provincia di Sassari in Sardegna). L'accensione del plastico ferroviario ci lascerà incantati come bambini troppo cresciuti, mentre in un loop alienante continueremo a seguire il trenino che entra ed esce dalle gallerie, con un sorriso ebete dipinto sul volto e la conseguente e comprensibile commiserazione mista ad orgoglio negli sguardi del custode.

Alla fine della visita ci siamo meritati una serie di gadget da veri fedelissimi, tra i quali una T-shirt brandizzata Atac, che indossata in pandant con la relativa borsa di tela, potrebbe risultare un ottimo metodo per girare con i mezzi pubblici senza biglietto, nella speranza che l'ostentata devozione per il marchio ci aiuti a simpatizzare con il controllore di turno (come effetto collaterale potreste apparire perfetto capro espiatorio per un assalto di vecchine incazzate alla fermata dopo 50 minuti di attesa abbondante).

Il piccolo Museo del Trasporto si trova all'interno della stazione di Porta San Paolo ed è aperto ad ingresso libero (solo io ho pagato il biglietto per passare i tornelli?) dal lunedì al giovedì, dalle 9:00 alle 16:00 e il venerdì dalle 9:00 alle 13:00 


giovedì 2 agosto 2012

Dice che il principe era ossessionato dalle civette


Sarebbe certamente più logico raccontare la storia della Casina delle Civette andando di pari passo con quella dell'intero complesso di Villa Torlonia, l'eccentrica dimora del Marchese Giovanni Torlonia che alla fine del Settecento stabilì di meritarsi una fastosa residenza degna di un titolo nobiliare appena accaparrato, ma soprattutto delle proprie sconfinate e indecenti ricchezze accumulate in anni di speculazioni in combutta con gli occupanti Francesi. Tuttavia questo bizzarro edificio fantasy da sempre sembra vivere di vita propria, appartato dall'intero contesto residenziale esattamente come l'ambiguo erede della famiglia, Giovanni Torlonia Jr, che fino al giorno della sua morte avvenuta nel 1938 scelse proprio la Casina delle Civette come residenza privata ai margini del parco, per ritirarsi, così come recita l'iscrizione sulla porta di ingresso, in "Sapienza e Solitudine" (in parole povere "per cazzi suoi").


L'intero parco venne gradualmente trasformato in una specie di Disneyland per volere di Alessandro Torlonia a partire dal 1832, con la conseguente progettazione della Casina delle Civette che, originariamente realizzata come rifugio di montagna in lungimirante anticipo sulle attuali tendenze eco-chic, assunse in prima battuta l'evocativo nome di Capanna Svizzera. In pieno delirio da ecstasy erano sorte nel frattempo tutt'intorno finte rovine romane, obelischi rosa, villini medievali e persino una grotta moresca. Alla morte di Alessandro subentrò il nipote Giovanni, il quale tramite "magheggio" anagrafico riuscì ad ottenere il cognome della madre sposata ad un Borghese (nel senso della nobile famiglia dei Borghese) al fine di garantire continuità alla dinastia dei Torlonia: ed è così che facciamo la conoscenza di Giovanni Torlonia Jr. Il giovane principe decise dunque di spostare la sua residenza all'interno dell'ex Capanna Svizzera, che per suo gusto e volere subì una curiosa metamorfosi in villaggio medievale a seguito di tutta una serie di interventi architettonici che tra logge, loggette, torrette e porticati dai risvolti fiabeschi trasformarono in breve tempo il rifugio alpestre in castelletto. Non ancora soddisfatto, e coerentemente in linea con la sua fama di misantropo e amante dell'esoterismo, volle aggiungere un tocco personale all'intera costruzione, facendola dotare di elementi simbolici ricorrenti, oggetto delle sue personalissime ossessioni: prima fra tutte la civetta.


E mentre Giovanni sceglieva di vivere ai margini del parco in pieno isolamento liberty tra lumache, civette, trifogli e ancora civette, il corpo principale di Villa Torlonia venne affittato nel frattempo (1925) a Benito Mussolini alla simbolica cifra di 1 lira. All'apparenza semplici compagni di bonifica, in virtù del mastodontico intervento bonificatore operato dai Torlonia nella piana del Fucino in Abruzzo a partire da nonno Alessandro (opera che integrò la collezione di titoli familiari con "la fascia" di principe del Fucino), i due personaggi erano in realtà legati da tutta una serie di interessi che, in quanto rappresentanti del potere politico e finanziario del momento, furono alla base del loro "avvicinamento"; un avvicinamento talmente letterale da farceli infine ritrovare come improbabili vicini di casa. Cito dalla commemorazione dell'allora presidente del senato alla morte di Giovanni Torlonia Jr: "...(egli) rappresenta uno dei contributi più cospicui coi quali l'iniziativa di un privato abbia saputo assecondare l'azione generale del governo fascista per la redenzione del suolo d'Italia"! Alle spalle di cotanta redenzione agricola c'è tutta la storia di un famiglia di mercanti arricchiti, che tra speculazioni, matrimoni studiati a tavolino con le nobili famiglie romane e appropriazioni di titoli nobiliari e proprietà a fronte di prestiti non restituiti da parte di aristocratici in malora, divenne in breve tempo una vera potenza politica e finanziaria (la banca del Fucino è tuttora presieduta dai Torlonia).

E come sempre quando si parla di potere e finanza, non può ovviamente mancare l'elemento esoterico-massonico, in questo caso perfettamente e ripetutamente rappresentato nella quotidianità della dimora del principe. L'intervento più evidente e caratterizzante fu comunque la realizzazione di meravigliose vetrate liberty, dalla scuola del maestro Cesare Picchiarini, su disegni di quattro diversi artisti (Cambellotti, Bottazzi, Grassi e Paschetto), i cui lavori dotarono l'intero complesso di un patrimonio artistico senza precedenti fortunatamente sopravvissuto in parte fino ad oggi. Tra tutte si distingue la vetrata delle civette, su disegno di Duilio Cambellotti, ennesima rappresentazione dell'animale notturno, le cui fattezze vennero morbosamente riprodotte nelle fogge del mobilio della camera da letto. Non essendo rimasto quasi nulla dell'arredo orginario, possiamo oggi solamente immaginare le sembianze di una civetta ossessivamente ripetute su lampade, comodini e pomelli del letto, mentre rimane comunque al suo posto l'inquietante volo di pipistrelli a stucco sul soffitto del letto, come prova e a garanzia di una certa stravaganza del principe ai confini del "fuori de capoccia". Simbolo ambivalente sin dai tempi dell'antico Egitto, la civetta rappresenta da un lato la saggezza e l'illuminazione di chi possiede la capacità di scrutare attraverso le tenebre, ma è allo stesso tempo legata al tema opposto della morte e dell'oscurità: "sapienza e solitudine", appunto.


Il percorso ci guida attraverso i due piani della villa alla scoperta di ciò che rimane a seguito dell'eccellente lavoro di restauro che salvò l'edificio da un progressivo degrado, iniziato con l'occupazione delle truppe anglo-americane, proseguito con l'incuria e i saccheggi e terminato con il disastroso incendio del 1991. Dovremo dunque lavorare di fantasia, stimolati da quei piccoli meravigliosi dettagli superstiti e dalle descrizioni di ogni singolo ambiente, capaci di riportarci alle eleganti atmosfere vissute dall'inquietante erede dei Torlonia. E attraversando il fumoir (viene voglia di accendersi una sigaretta al solo nominarlo) e il salottino delle 24 ore, rappresentate sulla bellissima volta dipinta come 24 discinte fanciulle, per poi raggiungere il più intimo piano superiore, conosceremo passo dopo passo tutte le ossessioni e le simbologie in cui il principe Torlonia amava ritirarsi. Set perfetto per un horror di classe e allo stesso tempo romantico scenario di una passeggiata metafisica, quando la luce dell'esterno si colora attraverso le preziose vetrate inondando l'ambiente di soffuse tonalità pastello. I pochi manufatti originali sono arricchiti da un esposizione di bozzetti e riproduzioni di vetrate liberty, un percorso di nicchia che perde valore di fronte alla potenza comunicativa di un luogo allo stesso tempo misterioso e affascinante, capace di restituirci nel vuoto dei suoi ambienti quella meravigliosa qualità che sempre meno utilizziamo: l'immaginazione per riempirlo. E alla fine non potremo fare a meno di vedere il principe riposare sotto quel lugubre volo di pipistrelli.

La Casina delle Civette si trova all'interno del Parco di Villa Torlonia, con ingresso in via Nomentana 70 ed è aperta tutti i giorni escluso il lunedì dalle 9:00 alle 19:00.
E con questo "Dice che a Roma" (ovvero me medesimo) se ne va in vacanza fino a settembre. Per non sentire la mia mancanza come sempre la butto là..compratevi il libro "Roma Fuoripista"! Sul solito sito troverete la possibilità di prenderlo on-line e la lista delle librerie dove acquistarlo: www.romafuoripista.com

BUONE VACANZE A TUTTI!


giovedì 19 luglio 2012

Dice che all'EUR c'è una Roma "tarocca"

Come potremmo immaginare un museo di storia della civiltà romana in una moderna metropoli del 2012, in piena era multimediale? Proiezioni di filmati in 3D, percorsi interattivi multisensoriali, schermi touch screen ('tacci de chi?) di ultima generazione, ologrammi di Giulio Cesare in persona e "aò ce stanno pure le applicazioni da scaricare per lo smart phone?". Ma se andassimo a sostituire la definizione di "moderna metropoli del 2012" con "Roma", non dovremmo allora sorprenderci nel ritrovarci piuttosto all'interno di polverosi saloni di un museo dove il tempo sembrerebbe essersi fermato agli anni Sessanta, e in cui la storia di un'intera civiltà ci viene raccontata attraverso copie e calchi in gesso di monumenti celebri e minuziose ricostruzioni in scala realizzate all'inizio del secolo scorso. E sapete una cosa? Tutto ciò è infinitamente più entusiasmante! E se anche non proverete l'ebbrezza di ritrovarvi catapultati nelle atmosfere dell'antica Roma con l'ausilio di qualche proiezione in 4D, potrete comunque consolarvi con un salto alla fine degli anni '50 del secolo scorso, per un viaggio nel tempo decisamente più realistico.

Ci troviamo in uno dei musei dell' EUR, quartiere Mussoliniano per eccellenza progettato in occasione dell'esposizione universale del 1942 ed espressione più rappresentativa dell'architettura razionalista, i cui lavori furono interrotti in occasione della seconda guerra mondiale. L'edificio dallo scenografico colonnato venne dunque completato solo nel 1952 ed inaugurato ufficialmente tre anni dopo come Museo della Civiltà Romana. In questa sorta di  imponente magazzino finale confluirono dunque tutta una serie di copie tarocche sottoforma di calchi in gesso, riproduzioni plastiche e modellini in scala frutto di due precedenti allestimenti. Una parte dei materiali proviene infatti dalla grande esposizione universale del 1911, che vide Roma in un fermento senza precedenti (o forse dovrei dire senza posteriori) nella realizzazione di imponenti scenografie all'aperto, tra le quali spiccava una celebrazione della Roma antica alle terme di Diocleziano. Il materiale venne successivamente depositato nei magazzini dell'ex pastificio Pantanella a Circo Massimo prima di essere riordinato nell'attuale museo. Il secondo allestimento riguardava invece la Mostra Augustea della Romanità (1937) al Palazzo delle Esposizioni di Roma, che secondo il consueto e delirante accostamento tra imperialismo fascista e imperialismo Augusteo, esaltava a scopi propagandistico-autoreferenziali la figura dell'algido imperatore di Roma in occasione del bimillenario della sua nascita.

La collezione si sviluppa lungo due percorsi tematici consecutivi: la prima parte prevede una sintesi della storia di Roma a partire dalle sue origini, dove riproduzioni parziali a grandezza naturale (il pronao del tempio di Augusto ad Ankara) si alternano a modellini in scala dei monumenti più rappresentativi, dal plastico della fastosa Villa Adriana di Tivoli, passando per un Circo Massimo e un Colosseo a misura di casa delle bambole, con la conseguente suggestione di un utilizzo meno didattico da parte dei più piccoli (ad esempio come dependance della casa di Barbie per qualche macabro gioco che veda le bionde amiche della Mattel sbranate dai criceti al centro dell'arena). Molto interessante la ricostruzione delle battaglie più famose attraverso una serie di raffigurazioni e modellini che farebbero sbavare qualsiasi appassionato di giochi di ruolo vecchia maniera. La seconda parte del percorso presenta invece una panoramica dei vari aspetti della vita quotidiana, dalla letteratura, alle abitudini alimentari, al commercio, con la riproposizione di ambienti e strumenti d'uso comune minuziosamente riprodotti. L'onnipresente font "Mostra" (il carattere utilizzato nella stampa fascista) ci accompagna lungo tutto l'allestimento in questo percorso con doppia chiave di lettura, dove potrete scegliere di seguire il filone della conoscenza della civiltà romana, così come suggerisce il nome stesso del museo, o quello, parimenti affascinante, della scoperta di questa curiosa produzione di architettura tarocca da esposizione universale di inizio secolo.

In questa eccezionale carrellata di falsi e ricostruzioni, eseguiti perlopiù con materiali poveri, spicca una serie di calchi della colonna di Traiano, frutto di una serie di riproduzioni volute da Napoleone III e successivamente disposti a fini espositivi lungo l'inquietante corridoio sotterraneo al neon (al di sotto del colonnato esterno). Un vero e proprio fumetto post-industriale dove avremo l'opportunità di leggere l'eccezionale descrizione della battaglia di Dacia.
Un altro elemento che ci riporta a qualche decina di anni addietro è la situazione strutturale del complesso, che in prossimità di un intervento di recupero già iniziato, ci avvolge in una nostalgica atmosfera di trascuratezza, tra tinteggiature smorte alle pareti e una totale assenza di aria condizionata (geniale la mia idea di visitarlo in piena ondata Minosse, in uno scenario estivo da Roma deserta alla "un sacco bello" di Verdone). In questo contesto si inserisce perfettamente l'aneddoto di un invasione di termiti in pieno stile B-movie che a metà degli anni Ottanta divorò gran parte dell'esposizione lignea.

Ad ogni modo il pezzo forte di tutta la collezione, quello che spazzerà via tutti i nostri sogni coltivati fino a quel momento di portarci a casa la riproduzione del Circo Massimo come pista per le automobiline o l'intera ricostruzione in scala della Roma arcaica come base per un presepe da competizione, è certamente l'imponente plastico in scala 1:250 della Roma dei tempi di Costantino. Eccoci finalmente al cospetto di un'opera d'arte originale, nata dalla collaborazione fra l'architetto Italo Gismondi e l'esecutore artigiano Pierino Di Carlo, visibile percorrendo un ballatoio sopraelevato che ne abbraccia l'intero perimetro. L'accurata ricostruzione si basa sulle fonti dell'eccezionale Forma Urbis dell'archeologo Rodolfo Lanciani, e si vocifera che venga tuttora aggiornata sulla base degli ultimi ritrovamenti (detto fra noi ce credo poco). Ad ogni modo l'impatto è di grande effetto e questo volo d'angelo sulla Roma Imperiale riuscirà ad entusiasmarci nonostante l'avvilente contorno di pareti giallognole sul genere palestra di scuola media. Una fantastica esperienza per gli amanti della visuale dal finestrino dell'aereo, con il valore aggiunto di un salto nel passato: prendetevi tutto il tempo per ammirarla e scoprirla in ogni suo dettaglio.

All'uscita, dopo aver scavalcato i custodi comprensibilmente rifugiatisi nel portico di ingresso per sfuggire alle temperature proibitive dell'interno, mi ritrovo nuovamente sull'assolata piazza G.Agnelli, sovrastato dalle strutture razionaliste del monumentale palazzo commissionato dalla FIAT (appunto, piazza Agnelli). Una famiglia di Olandesi, giunta misteriosamente fin qui, è in attesa di entrare mentre il capofamiglia sistema il parasole sul parabrezza della macchina (gran paraculata, penso pregustando i 60 gradi che mi aspettano all'interno del mio abitacolo). Mi chiedo se riusciranno a cogliere l'atmosfera e il contenuto di questa visita o ne usciranno semplicemente delusi per tanta trascuratezza, dopo un'impietosa comparazione con gli scintillanti musei del Nord Europa. Io, neanche a dirlo, ne esco sudato ma entusiasta.
E se posso darvi un consiglio, datevi una mossa prima che un riuscitissimo intervento ristrutturale lo trasformi nell'ennesimo efficientissimo museo.


Il Museo della Civiltà Romana si trova in Piazza G.Agnelli 10 all'EUR ed è aperto dal martedì alla domenica dalle 10:00 alle 14:00

mercoledì 13 giugno 2012

Dice..che c'entra Torquato Tasso coi Templari?


A voler cercare un legame tra Torquato Tasso e i Cavalieri dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro, il pensiero corre immediatamente alla "Gerusalemme Liberata", celebre componimento epico del poeta che proprio dei cavalieri Crociati cantava le gesta che portarono alla conquista del Santo Sepolcro. Ed è in virtù di questo vincolo poetico che il Tasso e i Crociati si riscoprono oggi insoliti coinquilini all'interno dell'incantevole chiesa di S.Onofrio, che dalle alture del Gianicolo domina la città custodendo gelosamente i propri segreti, la poesia di un grande autore e un pezzo di storia che, perdendosi nelle nebbie leggendarie delle prime crociate, resiste ancora oggi in perfetto e affascinante anacronismo con il presente di una città che non conosce confini tra passato e futuro. Il complesso ecclesiale, edificato sul luogo di un precedente romitorio dedicato appunto a S.Onofrio, risale al 1439 ed è direttamente collegato al lungotevere attraverso la suggestiva e omonima salita di S.Onofrio, opera urbanistica realizzata dopo circa un secolo sotto Papa Leone X, perfettamente adatta a sperimentare un gravosissimo trekking urbano in pendenza per tutti coloro che con un lampo di genio abbiano scelto di parcheggiare a valle piuttosto che direttamente sul Gianicolo.


Come anticipato, la storia di questo luogo è legata innanzitutto alla figura di Torquato Tasso, che nel 1595 si spense in una delle stanze del convento dopo aver scelto di trascorrere in questo angolo di quiete l'ultimo periodo della sua vita borderline. Come spesso accade, genio e creatività vanno a braccetto con la follia, e il nostro Torquato in quanto a manie di persecuzione, attacchi di insicurezza al limite del morboso (in visita alla sorella nascose la propria identità per annunciarle la propria morte, desideroso di assistere a una reazione addolorata) ed esplosioni di ingiustificata violenza alla corte Estense, non si fece mancare proprio nulla. Come artista dei nostri tempi avrebbe certamente vestito i panni di una rockstar con problemi di droga e alcolismo, assiduo frequentatore di programmi di rehab nelle più esclusive cliniche per VIPs. Ma a quel tempo bisognava accontentarsi di ospedali religiosi e conventi, e fu così che il nostro Torquato Tasso dopo un primo soggiorno forzato all'ospedale di S.Anna, fece la sua ultima e definitiva tappa a Roma proprio al convento di S.Onofrio sul Gianicolo. E' dunque all'interno della chiesa, nella prima cappella sul lato sinistro (nella prima a destra non perdete invece una meravigliosa Annunciazione di Antoniazzo Romano), che possiamo ammirare l'imponente monumento funebre dedicato al poeta. Il luogo, al pari del cimitero di Pere-Lachaise a Parigi con le studentesse in perenne pellegrinaggio alla tomba di Jim Morrison, divenne meta di poeti e personalità artistiche, tra i quali si annoverano il fosco Goethe e l'allegro Giacomo Leopardi. Scrisse il Leopardi in proposito: "fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l'unico piacere che ho provato in Roma". Sono certo che Giacomo non abbia avuto il tempo di provare una Gricia o un Cacio e Pepe, piaceri che avrebbero certamente allungato la sua lista, ma ammirando il delizioso giardino panoramico, dove oggi troneggia una fontana costruita proprio in onore dell'anniversario della morte del Tasso, possiamo in parte comprendere le sue emozioni suscitate da quest'angolo di quiete e bellezza sospeso sui tetti di Roma.


Esattamente alle spalle del panorama, attraversando l'atrio di ingresso, accederemo ad un piccolo e splendido chiostro architettonicamente arricchito da una galleria superiore porticata, dove ancora una volta potremo sorprenderci di quanta pace e semplice armonia possa nascondersi nel cuore di una metropoli impazzita, a due passi dai famelici e impuniti parcheggiatori abusivi del vicino ospedale Bambin Gesù. Le lunette affrescate in occasione del giubileo del 1600, raccontano episodi della vita di S.Onofrio, in cui non ci vengono risparmiate le consuete derive nel trash tanto care all'aneddotica agiografica, su tutti la cerva bianca che per tre anni nutrisce S.Onofrio col suo latte.
Tornando nuovamente nell'atrio di ingresso ci troveremo di fronte ad un portone sulla cui sommità troneggia lo stemma dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro. Il 15 agosto del 1945 Papa Pio XII concede infatti all'Ordine la chiesa e il cenobio di S.Onofrio, con la scusa di un felice e a suo parere appropriato accostamente con il Tasso, ormai così legato al nome della chiesa e autore di quell'opera che proprio dei cavalieri del Santo Sepolcro esaltava le gesta. Fu così che l'ordine divenne custode, oltre che della chiesa, anche di un piccolo e prezioso museo dedicato al poeta che, nascosto oltre la porta "stemmata", è divenuto negli anni sempre più inaccessibile. Si vocifera (espressione ben più aleatoria del consueto "dice che") che il cosiddetto museo Tassiano sia visitabile ogni martedì pomeriggio tra le 16:00 alle 18:00, e trovandomi appunto sul posto di martedì alle 16:05 ora locale, devo ammettere di essermi sentito estremamente ottimista riguardo alle possibilità di accesso al suo interno. In realtà, dopo la scampanellata di rito, vengo gentilmente invitato a contattare la sede principale dell'Ordine in via della Conciliazione per inoltrare una richiesta di permesso speciale che possa garantire la visita al luogo, la cui concessione (come tende geneticamente a sottolineare ogni Romano addetto ad una qualsiasi mansione da sportello pubblico, che preveda il rilascio di un qualsivoglia pezzo di carta al questuante di turno)  viene fatta apparire come impresa estremamente difficile e dalle dubbie possibilità di riuscita (il tutto accompagnato da un'eloquente alzata dell'intera arcata sopraccigliare).


Avendo tempo da perdere e un post da scrivere mi reco dunque in picchiata per la salita di S.Onofrio (infinitamente più apprezzabile percorsa in discesa)  diretto verso la sede centrale dell 'Ordine. A ricevermi è un Custode del Santo Sepolcro Amatriciana style (non che mi aspettassi una solenne tunica crociata, ma la canotta bianca attillata sulla panza si è rivelata decisamente sotto le aspettative), il quale recitando un estratto in versi dalla "Gerusalemme Liberata" si è premurato di comunicarmi che "Aò, nun devi chiede a noi, manco c'avemo le chiavi!". A nulla sono valse le mie rimostranze sul triste rimpallo da una sede Crociata all'altra in perfetto stile ufficio postale. "Devi da parlà co Benito su alla chiesa! (azz..) Lo deve capì che so loro i custodi!" (Benito e i Templari...Voyager avrebbe di che speculare per decine di puntate). A questo punto mi muovo deciso a fare una piazzata al cospetto dei Cavalieri dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che messo in questi termini mi fa sentire molto eroe, e stando a quanto racconta Dan Brown, anche piuttosto a rischio! In realtà la facilità con cui chiedendo del signor Benito vengo accolto all'interno senza neanche la soddisfazione di incazzarmi, mi fa ben comprendere come tutta la pantomima della richiesta di permessi speciali sul genere Area 51 altro non  fosse che un arguto sistema Templare per evitare di avere visitatori rompicoglioni tra i piedi.

Alla fine è proprio il gentilissimo Signor Benito che mi accompagna alla scoperta di questo piccolo scrigno di ricordi e poesia, dove il vissuto di pochi semplici cimeli trasmette tutta l'emozione di trovarsi in presenza di un grande artista, tra gli artefici del nostro patrimonio letterario. Tra prime edizioni, manoscritti, oggetti personali, e un leggio originale di sua appartenenza, spicca una maschera di cera modellata sul viso del defunto Torquato ad immortalarne le fattezze ad imperitura memoria. La visita, forse anche per la soddisfazione di essere riuscito nell'impresa, si rivela decisamente emozionante. C'è anche un piccolo aneddoto che lega S.Onofrio alla figura del Tasso. La più piccola delle tre campane della chiesa, la preferita del poeta, fu quella che per sua espressa richiesta ne accompagnò con i rintocchi la dipartita. Si dice che nel corso del celebre assedio di Roma del 1849, Garibaldi si recò sul posto per requisire le campane di tutte le chiese sulla linea delle operazioni allo scopo di farne cannoni, e venuto a conoscenza della storia si commosse a tal punto che decise di risparmiare fra tutte solamente la piccola campana del Tasso.

Una volta usciti dalla chiesa si può concludere la passeggiata risalendo il Gianicolo sulle tracce dei personaggi di questa storia, e passando per quel che resta della celebre quercia del Tasso, arriveremo infine sulla vetta del colle, dove la statua di Garibaldi e i busti degli eroi dell'unità di Italia, sentinelle del panorama più bello del mondo, sono li a ricordarci che ogni tanto, e per quanto difficile possa sembrare in questi tempi di mediocrità e cafoneria, un rigurgito di sano patriottismo possa farci solamente un gran bene.


La Chiesa di S.Onofrio si trova in Piazza di S.Onofrio 2 al Gianicolo ed è aperta tutti i giorni (escluso Agosto) dalle 9:00 alle 13:00. Per la visita del Museo Tassiano, generalmente ammessa il martedì tra le 16:00 e le 18:00, vi consiglio comunque di telefonare. Se qualcuno fosse veramente interessato mi contatti e vedrò di procurare il numero del signor Benito con il quale sarà possibile concordare una visita.
Infine come sempre vi ricordo l'uscita del libro intitolato "Roma Fuoripista", che vi accompagnerà alla scoperta dei migliori itinerari nascosti nel consueto stile "Dice che a Roma". Per ordinarlo on-line o per consultare la lista delle librerie dove trovarlo vi rimando al link http://www.romafuoripista.com/

lunedì 30 aprile 2012

Dice che a Trastevere c'è un varco temporale

Per gli irriducibili sostenitori dei rimedi della nonna, complottisti dello strapotere delle lobbies farmaceutiche e del loro lucido progetto di sterminio del genere umano, una visita all'antica spezieria di S.Maria della Scala a Trastevere non potrà che riconciliare gli animi con l'antica e nobile arte dei trattamenti naturali. Un gioiello settecentesco cristallizzato nel passato che, celato all'interno del convento dei Carmelitani Scalzi al centro della molesta movida trasteverina, ci tramanda la storia della più antica farmacia romana, originata da un semplice orticello nato ad esclusivo uso e consumo della comunità dei frati e ben presto trasformatasi in punto di riferimento medico-sanitario dell'intera comunità cittadina e internazionale (oltre che meta delle prestigiose visite di cardinali, principi e re). L'autorevole reputazione del luogo era certamente dovuta alla figura di Fra Basilio della Concezione, medico e botanico celebrato nell'affresco di ingresso, del quale si conserva nella farmacia  il prezioso volume intitolato "trattato delli semplici": un erbario finemente rilegato in cui sono conservati tra le pagine gli esemplari essiccati di ogni pianta, con relativa descrizione delle proprietà benefiche. Un pregevole lavoro di botanica che, dietro la curiosa apparenza di lavoretto delle medie redatto da un occhialuto scolaretto nerd,  rappresenta la sintesi della preparazione e della conoscenza di un indiscutibile maestro. Fu proprio Fra Basilio l'ideatore di due rimedi tra i più celebri messi in produzione dai solerti frati farmacisti: l'acqua pestilenziale, ritenuta efficace contro la trasmissione e il contagio della peste, vero e proprio flagello del passato, e la più "rassicurante" acqua di melissa, definita come "calmante sovrano negli accidenti isterici" in virtù dei suoi effetti sedativi sul sistema nervoso; in poche parole la pozione che non dovrebbe mai mancare nel cruscotto di ogni automobilista romano.

A partire da papa Pio VIII, le stesse famiglie pontificie presero l'abitudine di affidarsi ai preparati farmaceutici di Santa Maria della Scala, e il crescente apprezzamento degli alti vertici ecclesiali nei confronti delle erbe di Fra' Basilio, fece guadagnare in breve tempo alla spezieria l'appellativo di "farmacia dei papi", nonchè la totale e agognata esenzione dal pagamento delle tasse. Detto questo, mi sento in dovere di invitarvi a scartare l'idea di mettervi a "rollare" una canna d'erba per il nostro Benedetto XVI, nella vana speranza di guadagnarvi in questo modo l'esenzione dall' IMU prossimo venturo: l'apprezzamento a cui mi riferivo era infatti quasi certamente rivolto ad altro genere di erbe.Per avere accesso alla spezieria è necessario telefonare allo 065806233 e prenotare un appuntamento per il sabato mattina, esclusivo giorno di visite. All'orario convenuto verrete accolti da uno dei frati, solitamente un giovane Indiano, il quale, non è chiaro se a causa di personalissimi vuoti lessicali o per tenere desta l'attenzione dei visitatori mattutini, durante il corso della spiegazione vi inviterà a terminare le frasi con i vocaboli che di volta in volta non gli sovvengono, innescando in questo modo il germe di una feroce competizione fra i visitatori in una sorta di quiz televisivo a sfondo medico. All'apertura delle porte non potrete fare a meno di esibirvi in un lungo "oooh" di meraviglia alla vista di un autentico locale settecentesco dove ogni più piccolo e insignificante dettaglio sembra essere rimasto esattamente al proprio posto da più di due secoli a questa parte, regalandoci l'impagabile illusione di vestire i panni di privilegiati viaggiatori del tempo.

All'ombra di un finto drappeggio affrescato che corre lungo il perimetro del soffitto nella sua morbida illusione barocca, torchi, setacci, imbottigliatrici e torrette di distillazione sono tutti ordinatamente riposti negli antichi scaffali lignei, mentre l'interno di una vetrina che farebbe impallidire "l'opera" del più quotato "visual merchandiser" milanese (er vetrinista..pe' capisse) ci presenta un'articolata esposizione dall'andamento "ramificato" di barattoli officinali che, progettata allo scopo di non celare alcun articolo alla vista, può leggersi allo stesso tempo come una simbolica rappresentazione dell'albero della vita, richiamo all'affascinante connubio fra natura e alchimia. All'interno di un enorme vaso in ceramica sotto la finestra, accanto all'ingresso del piccolissimo laboratorio, è conservata niente di meno che la mitica Theriaca, potente antidoto contro i veleni la cui formulazione risale addirittura ad Andromaco il Vecchio, medico di Nerone; una miscela di ben 54 ingredienti tra i quali si distingue quello di "carne di vipera maschio", informazione che ci spinge a non approfondire la natura dei rimanenti 53. Al lato del bancone della vendita, dietro il quale un ritratto di S.Teresa D'Avila sorveglia a vista i movimenti di cassa, si apre una sorta di ufficio amministrativo dove possiamo ammirare tra le altre cose un pregevole armadio dalla raffinata decorazione pittorica, al cui interno una collezione di scatole in legno di sandalo (paraculissima trovata antitarlo) custodisce le diverse erbe atte alla preparazione dei medicamenti nella loro forma naturale originaria. L'esterno delle ante è decorato con i ritratti celebrativi dei grandi padri della medicina (Ippocrate, Galeno, Avicenna), mentre l'interno nasconde le effigi dei visitatori più vip, i cui altisonanti nomi di Vittorio Emanuele I e consorte, Umberto I principe di Piemonte ed Elena duchessa d'Aosta, contribuirono indubbiamente ad accrescere il prestigio dell'elegante laboratorio settecentesco. Anche qui la sensazione è che ogni cosa sia stata lasciata al proprio posto, nell'illusoria attesa della riapertura al giorno successivo.

Nei locali esterni è possibile infine visitare la distilleria risalente all'Ottocento dove, in virtù dell'antico sodalizio tra frati e liquori, la produzione di alcolici dalle conclamate proprietà digestive avveniva secondo i consueti ritmi certamente più consoni a una distilleria clandestina dei tempi del proibizionismo americano che a un convento di Carmelitani Scalzi.
Al termine della visita, finalmente usciti in strada, vi ritroverete nuovamente catapultati nella piacevole atmosfera di un sabato mattina trasteverino, e inondati da un sole che avreste certamente apprezzato ad un'ora più tarda e con la testa che ancora vi batte in conseguenza dei bagordi del venerdì sera, vi pentirete infine di non aver posto alla vostra guida la domanda più importante di tutte: per caso Fra Basilio aveva trovato anche il rimedio definitivo per il dopo sbornia mattutino?

Concludo come sempre con il suggerimento di acquistare e regalare ai vostri amici (tanto voi già me leggete aggratise, anche se il libro si sà, è tutta un altra cosa..) il volume fotografico "Roma Fuoripista", una selezione dei migliori itinerari dal blog, che potrete trovare a Roma presso la "libreria del viaggiatore" in via del Pellegrino, La libreria "Altroquando" in via del Governo Vecchio e l'"Art Studio Cafè" in Via dei Gracchi. I "fuori porta" possono invece ordinarlo sul sito http://www.romafuoripista.com/  e riceverlo direttamente a casa con dedica su richiesta (dice "che me frega mica sei Baricco").
Buon primo maggio!