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lunedì 8 aprile 2013

Dice che 'sta chiesa l'hanno fatta i fruttaroli


La chiesa di S.Maria dell'Orto, nome bizzarro dal retrogusto campagnolo, nasce dalla venerazione per un'immagine sacra originariamente presente sul muro di un orto di Trastevere, ritenuta miracolosa in virtù di una "procurata guarigione" concessa su richiesta a un contadino malato. A differenza della maggior parte delle altre chiese, sfoggio artistico e celebrativo della potenza di vescovi e cardinali, possiamo considerare S.Maria dell'Orto come una vera e propria opera del "popolo". Ad occuparsi della costruzione e delle committenze artistiche furono infatti le corporazioni di arti e mestieri che, avvalendosi esclusivamente dei propri mezzi economici, fecero praticamente a gara fra loro per arricchire la chiesa di maestose opere d'arte. Al suo interno una carrellata di targhe marmoree esplicitano di volta in volta la committenza delle varie Università di fruttaroli, pollaroli, molinari, ortolani e pizzicaroli (detto proprio alla romana), dove il termine università non sta più ad indicare gli infausti luoghi dove imploravamo i nostri esaminatori per la conquista di un 18, ma riprende il suo significato originario di aggregazione, in questo caso di lavoratori. E se la denominazione pizzicaroli fa sorridere i non romani, allora date un occhiata alla "resurrezione" del transetto di destra, dove un "resurexit aleluja aleluja" scritto senza neanche una doppia, celebra la nostra parlata in tutta la sua meravigliosa strascicatezza.


Le stesse corporazioni di mestiere avevano sede nella chiesa (praticamente una confindustria) e diedero successivamente origine alla costituzione di una confraternita religiosa. Uno dei suoi compiti era quello di occuparsi della gestione dell'adiacente ospedale, i cui locali vennero successivamente chiusi e convertiti in una manifattura di tabacchi: mossa paradossale almeno quanto potrebbe esserlo trasformare un centro culturale nella casa del grande fratello. I simboli delle università sono nascosti un pò ovunque in una riuscitissima commistione tra sacro e gastronomico e si esplicitano principalmente all'interno della meravigliosa tarsia in marmo policromo nella volta centrale, circondata da un festone di frutta fresca. Ma il vero capolavoro comunicativo è il simbolo dell'Ave Maria che campeggia sulla vetrata dell'abside, dove le lettere A e M sono composte da un trionfo di pomodori e peperoni, per una sacralità che metaforicamente..se ripropone.


La confraternita è tuttora esistente e si occupa della manutenzione della chiesa e delle sue opere d'arte, ma soprattutto del recupero e della diffusione della propria tradizione storica. Ed è proprio grazie a loro se oggi possiamo ancora assistere all'anacronistica magia di un giovedì santo illuminato dalle candele di un'antica tradizione ormai perduta: la macchina delle quarantore. Espressione che non fa riferimento all'usanza odierna di sostare "quarantore" in macchina al casello della Roma-l'Aquila la domenica pomeriggio, ma alle famose quaranta ore di veglia tra il mezzogiorno del venerdì santo e l'alba della resurrezione di Cristo (evitiamo battute con alba e resurrezione e citazioni di George Romero). Le macchine in questione, scenografici catafalchi lignei destinati a sorreggere centinaia di candele, erano tradizionalmente conosciute come "opere effimere", ovvero montate solo in occasione dell'evento per pochissimi giorni l'anno e subito dopo smontate, senza per questo perdere la loro attrattiva di eccezionali opere d'arte e di ingegno. Quella di S.Maria dell'Orto, struttura Ottocentesca di legno intagliato e dorato, è l'unica del genere ad essere ancora allestita nella nostra città. Durante una suggestiva cerimonia le 213 candele vengono accese dai confratelli stessi che, vestiti delle loro tuniche azzurre, si aggirano tra i bracci di un enorme candelabro in equilibrio tra scale e insidiose propaggini lignee, ardua impresa che suscita tutta l'ammirazione di chi, come me, avrebbe bisogno di una dispensa papale ad hoc che sdogani l'improperio ecclesiastico in caso (certo) di inciampo a caduta libera sull'altare. La macchina viene poi lasciata accesa fino alla mezzanotte in una chiesa aperta fino a tardi e avvolta nel chiarore di un atmosfera di grande fascino.


Ma di ligneo e prezioso non c'è solo la macchina. Alcune guide riportano la presenza di un curioso tacchino ligneo, insensato manufatto più volte citato come bizzarra attrazione. Dopo aver fatto tre volte il giro della varie cappelle alla ricerca del pennuto simulacro, mi sono deciso a chiedere lumi al un gruppetto di confratelli addetti alla distribuzione di brochure informative a offerta libera. Prima risposta: "eh no! quello sta in restauro, l'hanno portato via". A seguire: "Sta in una stanza, però non si può entrare, dovrebbe chiedere un permesso..." (qualcuno non me la racconta giusta) si inserisce nella conversazione un terzo confratello "ma lei che cosa sta cercando scusi?" , dove l'oggetto della domanda passa in secondo piano rispetto al senso globale del "cerchi rogne?". Conclude un altro: "in realtà non c'è niente da vedere, è brutto". Insomma nell'ordine, si nicchia sulla presenza effettiva del manufatto, ci si contraddice con una presunta inaccessibilità, e si chiosa con un chiaro invito a desistere. Insomma questo fottuto tacchino sembrerebbe una sorta di  misterioso Santo Graal di cui si vuole occultare l'esistenza al genere umano, il che non fa che accrescere la mia curiosità in maniera ancora più morbosa. O forse semplicemente un confratello l'ha fatto cadere spolverando le mensole in sacrestia e stanno cercando di parargli il culo (come diciamo a Roma, insieme a  resurexit aleluja co 'na R sola). Chiaramente il primo sospettato è ai miei occhi colui che l'ha definito brutto, cosa che avrei fatto anch'io al suo posto. Resta il fatto che adesso in cima alla mia lista personale delle cose da fare prima di morire troneggia: vedere il tacchino ligneo. Cito dall'opuscolo ufficiale, che tra l'altro descrive l'oggetto della mia ossessione mentre "fa la ruota con un'apertura alare di circa 150 cm":  "attualmente il tacchino ligneo è temporaneamente ospitato in un altro locale". Indeterminatezza di tempi e di luoghi che non fa altro che infittire il mistero. 
Nella magia di questa luce anche i peperoni della vetrata acquistano un che di mistico, talmente mistico che usciti da lì a tarda ora, nel cuore di Trastevere, non possiamo fare a meno di concludere la nostra veglia in trattoria. Peccato che in seguito la digestione richiederà qualcosa in più delle canoniche quarantore.


la chiesa di S.Maria dell'Orto si trova a Trastevere in via Anicia 10 ed è aperta nei giorni feriali dalle 08:00 alle 13:00 e la domenica e festivi dalle 10:00 alle 12:00.

lunedì 17 settembre 2012

Dice Pietro: "Quo vadis, domine?" ('ndo vai, Signò?)

Se due linee di metro messe in croce non possono certo definirsi rappresentative di un underground metropolitano degno di questo nome, la prospettiva cambia completamente quando andiamo a considerare le oltre sessanta catacombe che si diramano per centinaia di kilometri nel sottosuolo romano: una serie apparentemente infinita di percorsi sotterranei che farebbe venire il mal di testa persino a Lara Croft (ma purtroppo decisamente poco pratici ai fini della mobilità pubblica di cittadini e pendolari). Le catacombe di San Sebastiano sulla via Appia antica, situate al di sotto dell'omonima Basilica intitolata al martire, sono tra le uniche cinque regolarmente aperte al pubblico.

L'attuale Basilica risale al XVII secolo e venne riprogettata sulla base del precedente edificio Costantiniano, opportunamente innalzato nel IV secolo D.C. sul luogo dove secondo tradizione riposarono per un certo periodo le spoglie degli apostoli Pietro e Paolo e del martire Sebastiano. Ed è proprio a quest'ultimo che venne dedicata la Basilica in un crescendo di popolarità che lo vide protagonista come santo taumaturgo, nemico delle pestilenze, nonchè terzo patrono della città di Roma. L'iconografia rinascimentale ce lo consegna nei panni (succinti) di un giovanotto bello e prestante che, legato ad una colonna così come mamma l'ha fatto, viene trafitto dalle frecce in una celebre rievocazione del suo primo scenografico martirio (dico primo perchè in quel caso scampò alla morte in seguito alle cure della vedova Irene, per poi essere definitivamente giustiziato con un meno pittoresco bastonamento). 

Rappresentato originariamente come un vecchio barbuto, Sebastiano subì un notevole rifacimento del look durante il Rinascimento, probabilmente ispirato alla leggenda dove il santo appare al vescovo di Laon sotto le sembianze di un giovane efebo. Gli artisti rinascimentali lo trasformano dunque  in un sensuale e muscoloso ragazzotto, nella cui rappresentazione pittori e scultori dai più svariati orientamenti sessuali sfogarono con estrema dedizione il proprio culto per la bellezza delle forme anatomiche maschili. I turbamenti di Oscar Wilde al cospetto di una spassionata raffigurazione pittorica, opera del maestro Guido Reni, sancirono definitivamente il suo ingresso nell'olimpo dell'iconografia gay maschile, al fianco di più attuali personaggi come Madonna e Lady Gaga (e in quanto alla prima non mi riferisco ovviamente alla sua collega dei piani alti). La meravigliosa statua di Giuseppe Giorgetti, che da sola vale la visita della Basilica, collocata sul sarcofago all'interno della cappella dedicata, risponde esattamente ai suddetti canoni rappresentativi, e non stupisce che a realizzarla fu proprio un allievo del Bernini, già maestro di erotiche ambiguità nella realizzazione del suo capolavoro dedicato a S.Teresa D'Avila. E mentre vi invito ad approfondire per fatti vostri la produzione artistica legata al santo che, da Reni al Mantegna, fino alle psichedeliche rappresentazioni anni Settanta, si è reso protagonista di un eccezionale percorso iconografico in bilico tra sacro e profano, sposterò la vostra attenzione sul lato opposto della navata alla scoperta dei tesori della cappella delle reliquie. Tra queste potremo osservare nientedimento che un esemplare originale delle frecce che contribuirono a ridurre il povero Sebastiano "quasi ericius..." (ovvero, come scrisse l'autore della Passio in una scontatissima similitudine da seconda elementare, come un riccio ricoperto di aculei) e la porzione della colonna a cui venne legato.

Tra le reliquie si distingue una lastra di pietra accompagnata dalle parole "Quo Vadis", che riporta bene impresse delle curiose impronte di piedi sandalati. Narra la leggenda che l'apostolo Pietro, in fuga da Roma per sfuggire al martirio, incontrò Cristo sulla via Appia all'altezza dell'incrocio con la via Ardeatina, e così come è consuetudine in ogni incontro casuale, e a maggior ragione trattandosi di una persona defunta, lo accolse spontaneamente con la domanda "Quo vadis, Domine?" (Dove vai, Signore?). Rispose Gesù con nonchalance "Sto andando a Roma a farmi crocifiggere una seconda volta" (e dici niente!). La sottile risposta aveva il chiaro obiettivo di colpevolizzare l'apostolo per la propria vigliaccheria, essendo la corretta interpretazione la seguente: "tu scappi, e invece guarda un pò: io vado ad affrontare la morte". Che poi detto fra noi per uno già morto ce vole poco. Ad ogni modo Pietro colse il senso della frecciata e umiliato tornò indietro, dove fu infine martirizzato, probabilmente pensando che in un prossimo incontro avrebbe fatto meglio a farsi i sacrosanti affari suoi. In ricordo dell'episodio e come testimonianza dell'apparizione (o più semplicemente per essere finiti entrambi in un cantiere di rifacimento del manto stradale) rimasero impresse sulla strada le impronte dei piedi di Gesù. Il calco era originariamente conservato nella chiesa del Quo Vadis, edificata sul luogo dell'apparizione, e al cui interno viene oggi conservata solamente una copia dell'originale. E se ad Hollywood  se la tirano per la celebre passeggiata delle star con i calchi delle impronte dei più grandi attori del secolo (Mickey Mouse compreso), noi romani non siamo certo da meno e alle impronte di George Clooney rispondiamo nientedimeno che con quelle di Gesù Cristo!

Ma le sorprese non sono finite e in un'altra piccola (e a dire il vero piuttosto svilente) nicchietta scopriamo l'ultimo "ritrovato" capolavoro di Gian Lorenzo Bernini, quel "Salvator Mundi" scolpito prima della dipartita dell'artista e del quale si persero le tracce a partire dal 1773. Scovato nei  meandri del monastero della Basilica dopo lunghe peripezie e finti ritrovamenti bufala, è stato infine rimesso in esposizione solo a partire dal 2006, e colpisce in effetti che sia stato collocato nel primo scomparto libero della basilica con la stessa cura con cui sistemeremmo l'ennesimo soprammobile di troppo regalatoci a Natale.

Per coloro che non soffrono di claustrofobia (o di attacchi di panico alla scoperta del prezzo del biglietto: 8 euro, sinceramente ben spesi) la visita deve obbligatoriamente proseguire nel sottosuolo, lungo quel percorso sotterraneo, ma soprattutto temporale, che a partire da una vecchia cava di pozzolana, e passando per un'antica necropoli pagana, ci accompagnerà alla scoperta del culto segreto dei primi cristiani. Esplorare questi cunicoli tempestati di loculi, e riflettere sul fatto che si tratti solamente di una porzione infinitesimale di quell'immenso labirinto che corre sotto i nostri piedi, dà quasi un senso di vertigine, ed è eccitante pensare di potersi perdere tra centinaia di chilometri solo azzardando un fuoripista non consentito (autocitazione con link a tradimento), prendendo una diramazione a caso alle spalle della nostra guida. Il percorso obbligato si articola lungo tre tappe fondamentali, la prima delle quali è la cripta originaria dove venne collocata la tomba di San Sebastiano (perfettamente allineata con l'attuale sistemazione del sarcofago in superficie all'interno della basilica). La seconda tappa è la più stupefacente: ci ritroviamo infatti al cospetto di tre antichi mausolei pagani perfettamente conservati nelle loro decorazioni a stucco originali. L'effetto è quello dell'ingresso in una piccola città sotterranea. Il sorprendente stato di conservazione, che senza alcun bisogno di successivi interventi di restauro hanno riportato intatte fino a noi magnifiche volte decorate da raffinati stucchi e pitture originali raffiguranti banchetti funebri e antiche leggende pagane, è dovuto al conseguente interramento del complesso effettuato dai primi cristiani al fine di creare le basi per una costruzione successiva, terza e ultima tappa del nostro percorso sotterraneo. In cima ad una scala scopriremo infatti ciò che rimane della cosiddetta Triclia, ambiente sacro (originariamente coperto da una tettoia) destinato alla celebrazione di banchetti funebri dedicati alla memoria dei santissimi Pietro e Paolo. Sulla parete superstite possiamo oggi divertirci a interpretare i numerosi graffiti originali lasciati sulle mura dai devoti pellegrini di un tempo, degni antenati dei writers di oggi.

Vi consiglio questo viaggio nella storia in abbinamento a una passeggiata sulla via Appia Antica , che proprio a partire dalla Basilica di San Sebastiano si esprime in uno dei suoi tratti più affascinanti. Parleremo di questa strada unica al mondo e dei suoi innumerevoli tesori in altri post in futuro. Per il momento godetevela senza meta e senza preoccupazioni, e nel caso doveste incrociare una faccia conosciuta sulla via, tirate dritto e non fate domande!

La Basilica e le Catacombe di S.Sebastiano si trovano in Via Appia Antica 136 e sono visitabili dal lunedì al sabato tra le 9:00 e le 12:00 la mattina e tra le 14:00 e le 17:00 il pomeriggio.

p.s.
Grazie a Claudia e Luca per avermi accompagnato in questo itinerario! :)

mercoledì 13 giugno 2012

Dice..che c'entra Torquato Tasso coi Templari?


A voler cercare un legame tra Torquato Tasso e i Cavalieri dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro, il pensiero corre immediatamente alla "Gerusalemme Liberata", celebre componimento epico del poeta che proprio dei cavalieri Crociati cantava le gesta che portarono alla conquista del Santo Sepolcro. Ed è in virtù di questo vincolo poetico che il Tasso e i Crociati si riscoprono oggi insoliti coinquilini all'interno dell'incantevole chiesa di S.Onofrio, che dalle alture del Gianicolo domina la città custodendo gelosamente i propri segreti, la poesia di un grande autore e un pezzo di storia che, perdendosi nelle nebbie leggendarie delle prime crociate, resiste ancora oggi in perfetto e affascinante anacronismo con il presente di una città che non conosce confini tra passato e futuro. Il complesso ecclesiale, edificato sul luogo di un precedente romitorio dedicato appunto a S.Onofrio, risale al 1439 ed è direttamente collegato al lungotevere attraverso la suggestiva e omonima salita di S.Onofrio, opera urbanistica realizzata dopo circa un secolo sotto Papa Leone X, perfettamente adatta a sperimentare un gravosissimo trekking urbano in pendenza per tutti coloro che con un lampo di genio abbiano scelto di parcheggiare a valle piuttosto che direttamente sul Gianicolo.


Come anticipato, la storia di questo luogo è legata innanzitutto alla figura di Torquato Tasso, che nel 1595 si spense in una delle stanze del convento dopo aver scelto di trascorrere in questo angolo di quiete l'ultimo periodo della sua vita borderline. Come spesso accade, genio e creatività vanno a braccetto con la follia, e il nostro Torquato in quanto a manie di persecuzione, attacchi di insicurezza al limite del morboso (in visita alla sorella nascose la propria identità per annunciarle la propria morte, desideroso di assistere a una reazione addolorata) ed esplosioni di ingiustificata violenza alla corte Estense, non si fece mancare proprio nulla. Come artista dei nostri tempi avrebbe certamente vestito i panni di una rockstar con problemi di droga e alcolismo, assiduo frequentatore di programmi di rehab nelle più esclusive cliniche per VIPs. Ma a quel tempo bisognava accontentarsi di ospedali religiosi e conventi, e fu così che il nostro Torquato Tasso dopo un primo soggiorno forzato all'ospedale di S.Anna, fece la sua ultima e definitiva tappa a Roma proprio al convento di S.Onofrio sul Gianicolo. E' dunque all'interno della chiesa, nella prima cappella sul lato sinistro (nella prima a destra non perdete invece una meravigliosa Annunciazione di Antoniazzo Romano), che possiamo ammirare l'imponente monumento funebre dedicato al poeta. Il luogo, al pari del cimitero di Pere-Lachaise a Parigi con le studentesse in perenne pellegrinaggio alla tomba di Jim Morrison, divenne meta di poeti e personalità artistiche, tra i quali si annoverano il fosco Goethe e l'allegro Giacomo Leopardi. Scrisse il Leopardi in proposito: "fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l'unico piacere che ho provato in Roma". Sono certo che Giacomo non abbia avuto il tempo di provare una Gricia o un Cacio e Pepe, piaceri che avrebbero certamente allungato la sua lista, ma ammirando il delizioso giardino panoramico, dove oggi troneggia una fontana costruita proprio in onore dell'anniversario della morte del Tasso, possiamo in parte comprendere le sue emozioni suscitate da quest'angolo di quiete e bellezza sospeso sui tetti di Roma.


Esattamente alle spalle del panorama, attraversando l'atrio di ingresso, accederemo ad un piccolo e splendido chiostro architettonicamente arricchito da una galleria superiore porticata, dove ancora una volta potremo sorprenderci di quanta pace e semplice armonia possa nascondersi nel cuore di una metropoli impazzita, a due passi dai famelici e impuniti parcheggiatori abusivi del vicino ospedale Bambin Gesù. Le lunette affrescate in occasione del giubileo del 1600, raccontano episodi della vita di S.Onofrio, in cui non ci vengono risparmiate le consuete derive nel trash tanto care all'aneddotica agiografica, su tutti la cerva bianca che per tre anni nutrisce S.Onofrio col suo latte.
Tornando nuovamente nell'atrio di ingresso ci troveremo di fronte ad un portone sulla cui sommità troneggia lo stemma dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro. Il 15 agosto del 1945 Papa Pio XII concede infatti all'Ordine la chiesa e il cenobio di S.Onofrio, con la scusa di un felice e a suo parere appropriato accostamente con il Tasso, ormai così legato al nome della chiesa e autore di quell'opera che proprio dei cavalieri del Santo Sepolcro esaltava le gesta. Fu così che l'ordine divenne custode, oltre che della chiesa, anche di un piccolo e prezioso museo dedicato al poeta che, nascosto oltre la porta "stemmata", è divenuto negli anni sempre più inaccessibile. Si vocifera (espressione ben più aleatoria del consueto "dice che") che il cosiddetto museo Tassiano sia visitabile ogni martedì pomeriggio tra le 16:00 alle 18:00, e trovandomi appunto sul posto di martedì alle 16:05 ora locale, devo ammettere di essermi sentito estremamente ottimista riguardo alle possibilità di accesso al suo interno. In realtà, dopo la scampanellata di rito, vengo gentilmente invitato a contattare la sede principale dell'Ordine in via della Conciliazione per inoltrare una richiesta di permesso speciale che possa garantire la visita al luogo, la cui concessione (come tende geneticamente a sottolineare ogni Romano addetto ad una qualsiasi mansione da sportello pubblico, che preveda il rilascio di un qualsivoglia pezzo di carta al questuante di turno)  viene fatta apparire come impresa estremamente difficile e dalle dubbie possibilità di riuscita (il tutto accompagnato da un'eloquente alzata dell'intera arcata sopraccigliare).


Avendo tempo da perdere e un post da scrivere mi reco dunque in picchiata per la salita di S.Onofrio (infinitamente più apprezzabile percorsa in discesa)  diretto verso la sede centrale dell 'Ordine. A ricevermi è un Custode del Santo Sepolcro Amatriciana style (non che mi aspettassi una solenne tunica crociata, ma la canotta bianca attillata sulla panza si è rivelata decisamente sotto le aspettative), il quale recitando un estratto in versi dalla "Gerusalemme Liberata" si è premurato di comunicarmi che "Aò, nun devi chiede a noi, manco c'avemo le chiavi!". A nulla sono valse le mie rimostranze sul triste rimpallo da una sede Crociata all'altra in perfetto stile ufficio postale. "Devi da parlà co Benito su alla chiesa! (azz..) Lo deve capì che so loro i custodi!" (Benito e i Templari...Voyager avrebbe di che speculare per decine di puntate). A questo punto mi muovo deciso a fare una piazzata al cospetto dei Cavalieri dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che messo in questi termini mi fa sentire molto eroe, e stando a quanto racconta Dan Brown, anche piuttosto a rischio! In realtà la facilità con cui chiedendo del signor Benito vengo accolto all'interno senza neanche la soddisfazione di incazzarmi, mi fa ben comprendere come tutta la pantomima della richiesta di permessi speciali sul genere Area 51 altro non  fosse che un arguto sistema Templare per evitare di avere visitatori rompicoglioni tra i piedi.

Alla fine è proprio il gentilissimo Signor Benito che mi accompagna alla scoperta di questo piccolo scrigno di ricordi e poesia, dove il vissuto di pochi semplici cimeli trasmette tutta l'emozione di trovarsi in presenza di un grande artista, tra gli artefici del nostro patrimonio letterario. Tra prime edizioni, manoscritti, oggetti personali, e un leggio originale di sua appartenenza, spicca una maschera di cera modellata sul viso del defunto Torquato ad immortalarne le fattezze ad imperitura memoria. La visita, forse anche per la soddisfazione di essere riuscito nell'impresa, si rivela decisamente emozionante. C'è anche un piccolo aneddoto che lega S.Onofrio alla figura del Tasso. La più piccola delle tre campane della chiesa, la preferita del poeta, fu quella che per sua espressa richiesta ne accompagnò con i rintocchi la dipartita. Si dice che nel corso del celebre assedio di Roma del 1849, Garibaldi si recò sul posto per requisire le campane di tutte le chiese sulla linea delle operazioni allo scopo di farne cannoni, e venuto a conoscenza della storia si commosse a tal punto che decise di risparmiare fra tutte solamente la piccola campana del Tasso.

Una volta usciti dalla chiesa si può concludere la passeggiata risalendo il Gianicolo sulle tracce dei personaggi di questa storia, e passando per quel che resta della celebre quercia del Tasso, arriveremo infine sulla vetta del colle, dove la statua di Garibaldi e i busti degli eroi dell'unità di Italia, sentinelle del panorama più bello del mondo, sono li a ricordarci che ogni tanto, e per quanto difficile possa sembrare in questi tempi di mediocrità e cafoneria, un rigurgito di sano patriottismo possa farci solamente un gran bene.


La Chiesa di S.Onofrio si trova in Piazza di S.Onofrio 2 al Gianicolo ed è aperta tutti i giorni (escluso Agosto) dalle 9:00 alle 13:00. Per la visita del Museo Tassiano, generalmente ammessa il martedì tra le 16:00 e le 18:00, vi consiglio comunque di telefonare. Se qualcuno fosse veramente interessato mi contatti e vedrò di procurare il numero del signor Benito con il quale sarà possibile concordare una visita.
Infine come sempre vi ricordo l'uscita del libro intitolato "Roma Fuoripista", che vi accompagnerà alla scoperta dei migliori itinerari nascosti nel consueto stile "Dice che a Roma". Per ordinarlo on-line o per consultare la lista delle librerie dove trovarlo vi rimando al link http://www.romafuoripista.com/

domenica 1 aprile 2012

Dice che gli affreschi c'hanno i sottotitoli in romanesco

Non tutti sanno che accanto ai celeberrimi Pietro e Paolo, santi patroni ufficiali della città di Roma, viene annoverata anche una certa Francesca Romana nel ruolo di compatrona e santa protettrice degli automobilisti. E mentre tutti riconosciamo la legittimità dei patroni del ponte di Giugno in virtù dell’agognata chiusura di scuole e uffici, e di una festa un po’ paesana sulle rive del Tevere illuminata da scenografici fuochi d’artificio, con evidente ingratitudine ci dimentichiamo di rendere omaggio alla povera Francesca in occasione del ben più sobrio e purtroppo lavorativo 9 Marzo. Un'innocente discriminazione dovuta al fatto che da sempre, e senza eccezione per i santi, a noi romani ci si conquista con "fancazzismum", panem et circensem. In realtà, proprio in occasione del 9 marzo, ricorrenza della morte della pia donna, il monastero delle Oblate a Tor de' Specchi apre ogni anno le sue porte al pubblico per svelare un pezzo di storia a cavallo tra Medioevo e Rinascimento: una storia fatta di santità, vita quotidiana del tempo e un pizzico di antico dialetto volgare Romanesco.

La vita di Francesca è la vita di una donna che in giovanissima età, e nonostante la sua fortissima e precoce vocazione, venne data in sposa a un ricco bovattiero di Trastevere, il quale ebbe la sfortuna di rimanere infermo a seguito di una ferita procuratasi nel corso di una delle tante faide che caratterizzavano la vivace vita cittadina dell’epoca (come sempre sponsorizzate dalle famiglie Orsini e Colonna). Durante tutta la sua vita, tra l'altro funestata dalla perdita di ben due figli, Francesca si destreggiò tra dedizione familiare, doveri casalinghi e una totale devozione a Dio (con la sola eccezione di una disastrosa performance in economia domestica, esemplificata dall’episodio in cui decide di svuotare i granai del suocero per sfamare i poveri della città, supponiamo con sommo disappunto del parente). Gli effetti collaterali di una vita in perenne tensione tra compulsivo senso del dovere familiare e perenne insoddisfazione degli istinti vocazionali, si esemplificarono probabilmente nelle celebri visioni e cosiddetti stati d’estasi che ci vengono tramandati dalla sua ricca agiografia. Il nodo di questo difficile equilibrio tra vita coniugale e richiami ascetici, venne finalmente sciolto quando, dopo 28 anni di unione, il marito Lorenzo Ponziani si arrese alla castità della moglie aprendole in questo modo la strada per l'agognata carriera monastica. Il monastero delle Oblate è il risultato dello sviluppo della casa-torre che Francesca acquistò per ritirarsi infine con le sue prime 13 adepte-consorelle. Le opere che vi attendono all’interno valgono certamente lo sforzo di una lunga coda all’ingresso in occasione dell'apertura speciale, quando con  un misto di scocciatura e sorpresa vi chiederete in maniera più che legittima: "ma solo io nun conoscevo 'sta Francesca?".

Superato l’atrio di ingresso, dove un antico sarcofago romano fungeva da mangiatoia per il mulo della santa (alla faccia nostra che ancora mangiamo nei piatti di Ikea!), il passaggio attraverso la cosiddetta Scala Santa costituirà l'illusorio attraversamento di un suggestivo varco temporale, che nel giro di pochi gradini ci trasporterà direttamente in pieno XV secolo. Immediatamente alla nostra sinistra scopriremo l’antico oratorio del Monastero, un vero e proprio gioiello di arte Medievale in cui lungo tutte le pareti, sovrastate da un soffitto ligneo originale di mirabile fattura, si snodano una serie di affreschi attribuiti ad Antoniazzo Romano sulla vita e le opere della Santa, in cui i primi accenni di prospettiva cominciano a sancire il passaggio verso un nuovo modo di rappresentare il mondo. La narrazione delle opere di Francesca ci offre un prezioso spaccato dell’epoca circoscritto all’ambito cittadino della Roma del Quattrocento, in cui le didascalie in antico dialetto volgare romanesco, oltre a fornirci l'occasione per un divertentissimo esercizio interpretativo che ci accompagnerà nella lettura di ogni singolo episodio, ci rivelano al tempo stesso il contesto culturale di un mondo e di un'epoca perfettamente rappresentata nei piccoli dettagli della vita quotidiana.

Oltre a miracoli più canonici e di elevato spessore morale come la resuscitazione di un neonato “affocato” durante la notte, Francesca si dedica anche a esercizi meno impegnativi come curare il bullo colpito alla testa dopo una rissa o sanare il giovane con il piede in cancrena a seguito di un colpo d'ascia autoinflittosi durante l'operazione del taglio della legna..e chissà che anche lei non abbia pensato fra sè e sè: ma guarda che coglione! (Uno chiamato Iuliano tagliando le legna se tagliavo quasi tucto lo pede difra spatio de cinque mesi lo pede selli fractoavo recomandandose alla beata Francesca essa toccandolo subito fu sanato). Il miracolo del vino, cavallo di battaglia di Gesù magistralmente eseguito in occasione delle celebri nozze di Cana, viene ripetuto dalla Santa in una versione leggermente diversa, e probabilmente persino più efficace: a fronte di un Gesù che "si limita" infatti a trasformare l'acqua in vino, Francesca si spinge oltre facendo direttamente apparire dal nulla il dolce nettare all'interno di una botte testè svuotata (Avendo la beata Francesca data alli poveri una bocte de vino. puoi miracolosamente fu trovata la dicta bocte piena de buono et optimo vino). Spicca infine una coloratissima rappresentazione dell' inferno strutturato secondo i canoni danteschi della divina commedia, protagonizzato da una grottesca figura demoniaca accomodata a ricevere "quelli che so presentati a Satanasso".

Una volta tornati sulla scala santa, gli ultimi tre gradini sanciranno il passaggio dalle didascaliche descrizioni del quotidiano all'immaginario paranormale delle lotte della santa contro i demoni, rappresentate lungo la parete dell'antico refettorio. La scelta stilistica di una monocromia in grigio-verde, con l’unica eccezione del rosso acceso delle fiamme sprigionate dalla bocca e dalle orecchie dei diavoli, si presenta ai nostri occhi come del tutto moderna e raffinata.
Le storie sono sempre accompagnate dalle solite didascalie che ci raccontano episodi sul genere di “Como li maligni spiti stracciarono alla beata Francesca certi libri de oratione et da puoi strascinaro essa beata con grande terore fore della sua cella”. Elemento ricorrente è la figura dell’angelo custode, che nonostante venga costantemente raffigurato in inutile immobilismo sulla scena del sopruso, con un intervento finale salva Francesca quando le cose iniziano a mettersi male: Como la beata Francesca stando in oratione nella soa cella li vennero certi demonii e con certi nervi de animali la battierono tanto crudelmente in muodo che se non fussi lo angelo perche continuamente con essa era assai piu la molestavano (un po’ la stessa struttura narrativa che ritroviamo nei telefilm e nei cartoni animati con lo yattaman di turno che interviene all’ultimo minuto per salvare i "buoni" dai "cattivi").
Come in tutti i pellegrinaggi che si rispettino è quasi d'obbligo un giro nella cella della santa dove sono custodite la macabra reliquia di uno stinco e qualche colorato capo d’abbigliamento. Purtroppo il chiostro, i giardini e il refettorio rinascimentale non sono stati in questa occasione aperti al pubblico: un motivo in più per tentare di contattare le Oblate per telefono o via mail con la richiesta di una visita privata più esaustiva e possibilmente meno affollata (oblate@tordescpecchi.it, tel. e fax: 06 6797135).

Chiudiamo con una piccola curiosità: tra le varie caratteristiche attribuite a S. Francesca Romana le viene riconosciuto anche il dono dell’ubiquità, in virtù della propria capacità di conciliare alla perfezione i suoi doveri di madre, moglie e benefattrice. E proprio per questo motivo è stata assurta in tempi più recenti al ruolo di santa protettrice delle automobili e dei mezzi di locomozione in genere (la conquista della nuova velocità assimilata alla capacità di essere ovunque nello stesso momento). In realtà, quotidianamente bloccati nel traffico della tangenziale alla velocità di 4 metri orari, oggigiorno non possiamo fare a meno di pensare che più che da una santa con il dono dell’ubiquità, noi automobilisti romani saremmo più correttamente rappresentati da una santa affetta da bradipismo letargico acuto.




venerdì 24 febbraio 2012

Dice che a messa se canta e se balla

Quante volte siamo rimasti sorpresi e delusi di fronte alla scoperta dell'improvviso "cambio di gestione" del nostro locale, ristorante o negozio preferito (senza contare le derive estremistiche di chi ha osato convertire una vecchia trattoria romanesca in un un disco-risto-pub-pizzeria-kebabbaro con karaoke)? Qualcosa di simile è avvenuto anche per la Chiesa della Natività di Gesù a Piazza Pasquino, per quanto almeno in questo caso possiamo sentirci di riconoscere con convinzione gli effetti positivi di un cambiamento, foriero di un'animazione decisamente più allegra. E in effetti il passaggio "di gestione" dalla Confraternita degli Agonizzanti alla comunità Congolese di Roma, già nel nome suggerisce un'evoluzione più ottimistica, soprattutto se consideriamo l'agonia come punto di partenza. Ai tempi in cui il buon vecchio Mastro Titta, celebre boia Romano, faceva perdere la testa a uomini e donne con un secco colpo d'ascia, la chiesa si trovava esattamente lungo quel percorso obbligato che portava i condannati a morte verso Castel Sant'Angelo, storico luogo di punizione e spettacolo collettivo, antesignano dei morbosi programmi di intrattenimento odierni sul genere "la vita (!?) in diretta". La Confraternita degli Agonizzanti si occupava quindi per l'occasione dell'esposizione del Santissimo Sacramento all'interno della chiesa, come personalissimo in bocca al lupo al "morituro", mentre sulla porta veniva affissa una tavolozza con il nome del condannato.

Da alcuni anni questa stessa chiesa è passata alla comunità Congolese di Roma, che si riunisce ogni domenica mattina alle 11 per celebrare la propria liturgia settimanale.
Se avete intenzione di assistere alle loro gioiose celebrazioni, prendete queste indicazioni con una certa libertà: per quella legge universale secondo cui la precisione negli orari è indirettamente proporzionale allo spostamento geografico verso sud, recandovi alle undici davanti alla chiesa rischiereste infatti di dovervi intrattenere in veste di parcheggiatori abusivi in attesa del comodo arrivo scaglionato di preti, musicisti, coriste e partecipanti. Con moltissima calma tra le undici e mezza e mezzogiorno avrà dunque inizio la messa, con la musica e il ritmo dei bonghi a diffondere nell'aria spensierate melodie, stimolando immediatamente quel classico buonumore da domenica mattina precorritore di una devastante fame chimica.
Per chi non fosse propriamente un fan della messa in genere, il fatto che il sermone venga ripetuto per ben tre volte in tre lingue diverse (Italiano, Francese e Lingala, idioma locale della Repubblica del Congo),  potrebbe rappresentare un elemento deterrente, e se finora avevate considerato imbattibile la vostra capacità di assentarvi mentalmente durante una predica domenicale, avrete modo di scoprire le nuove frontiere di un viaggio anarchico della mente durante il sermone in lingua Lingala. La liturgia è quella romana-latina...con l'aggiunta di quello che potremmo definire in tipico dialetto Lingala "una botta de vita". Canti e balli si alternano a momenti rituali dove il sottofondo di austera solennità lascia il passo a ritmi decisamente più "vacanzieri" (definizione del tutto impropria dettata dall'inconscio), in cui tutti collaborano battendo le mani e tenendo il tempo.

Il momento dell'offertorio si distingue per la concretezza di un'offerta fatta di veri e propri frutti della terra (frutta, verdure e pane), che vengono portati dai bambini a passo di danza verso l'altare: in realtà più che di una danza si tratta di movimenti rituali, parte integrante di una liturgia che la maggior parte di noi imbucati riduce semplicemente all'inflazionatissimo stereotipo dei neri che "hanno il ritmo nel sangue". Coloro che penseranno di assistere ad una specie di Sister Act, dovranno infatti accontentarsi di un momento di gioia ritmata e di semplice, rincuorante intimità. Di tanto in tanto si affacciano turisti incuriositi che si trattengono per alcuni minuti, il più delle volte rimanendo ai margini, confinati nelle retrovie come imbucati ad una festa in cui non si conoscono le regole di comportamento. Persino i gesti e le parole sembrano ritmati, e la sensazione è che nessuno sembri avere fretta di concludere in vista dei suoi impegni domenicali, soprattutto in considerazione del fatto che la messa della domenica E' l'impegno domenicale! E l'estrema cura ed eleganza nell'abbigliamento tradiscono l'importanza di questo appuntamento molto atteso.

A prescindere dal significato religioso, questa circostanza diventa soprattutto un momento importante di confronto e di sostenimento reciproco all'interno di una comunità straniera, in cui non mancano occasioni di coinvolgimento all'esterno nei momenti in cui si vuole porre all'attenzione pubblica i serissimi problemi di instabilità politica di un paese, spesso passati inosservati per la "colpevolezza" di una nazione poco strategica in quanto a fornitura di petrolio. Per quanto ci riguarda, complice la ripetitività dei vari passaggi nelle diverse lingue, l'apparente voglia dei presenti di godersi senza fretta l'occasione di incontro per un tempo estremamente dilatato, e una nostra compassata rigidità nel lasciarsi coinvolgere dal ritmo di gruppo, passato il primo momento di entusiasmo sarà difficile arrivare indenni fino alla fine. E così, possibilmente senza sbattere la porta, ci ritroveremo all'esterno prima del tempo, magari ripromettendoci che la prossima volta rimarremo più a lungo per vedere "come va a finire", e, cosa più importante, con il sorriso sulle labbra e un piacevole ritmo di bonghi nella testa ( anche se quello ce lo avremmo avuto in ogni caso dopo il consueto sabato sera...).

martedì 24 gennaio 2012

Dice che è la moschea più grande d'Europa

Nell’ambito di quell’eterna competizione dove le misure contano eccome, e che vede in questo caso protagonista la cupola di San Pietro nel difendere il suo record in altezza come dominatrice assoluta dello skyline Romano, è particolarmente ovvio come l’antagonista più temuto sia stato in passato il minareto della grande moschea di Roma. L’imponente edificio vide la sua genesi nei lontani anni sessanta, quando il re Faysal dell’Arabia Saudita, desideroso di raccogliersi in preghiera nel corso di una sua visita a Roma, si rese conto di come la città non fosse attrezzata per adempiere agli obblighi di una fede non esattamente condivisa dagli inquilini del Vaticano. In conseguenza dell’episodio, dietro formale richiesta e concreto stanziamento di fondi da parte del governo dell’Arabia Saudita, si avviò dunque quel lunghissimo percorso di progettazione e realizzazione della prima moschea di Roma, che solo nel 1995 riuscì infine a vedere la luce. Unici vincoli all’accettazione del progetto un minareto non troppo alto (e assolutamente meno dotato del cuppolone) e preferibilmente silenzioso. All’ombra del monte Antenne e a poca distanza dal regno dorato del quartiere Parioli venne dunque innalzata la più grande moschea d’Europa, nonchè l’unica ad essere priva di altoparlanti per il consueto richiamo alla preghiera. La struttura esterna riesce a combinare i dettami della tradizione architettonica Italiana di Paolo Portoghesi, nel suo ostentato razionalismo ministeriale anni ottanta (non cercate la definizione nei libri di architettura, l’ho creata in questo istante), con la più classica tradizione Islamica.

Il venerdì è il giorno di preghiera in cui la moschea prende vita assalita da migliaia di fedeli Musulmani di ogni nazionalità. Per l’occasione viene allestito lungo il perimetro esterno un colorato mercato, punto di incontro della comunità nel solco della consolidata tradizione di mangiare insieme dopo la preghiera. Da alcuni anni il mercato è divenuto oggetto di polemica tra comune, municipio, vigili e abusivi in una gazzarra tutta Italiana dove la ricerca di una regolarizzazione soddisfacente per tutti, si perde nei paradossi di una burocrazia che come al solito assume le sembianze del mitologico cane che si morde la coda senza risolvere un cazzo. Nel frattempo, fra cicliche retate e regolarizzazioni a singhiozzo la festa continua, e se volete cedere alla tentazione di provare gli autentici sapori della cucina tradizionale, tra cous cous e carne d’agnello, mischiandovi alla coivolgente atmosfera di una città Mediorientale, il mercato del venerdì rimane comunque il posto giusto. Al centro del dibattito di cui sopra, il fatto che cibi cotti e serviti direttamente in strada rappresentino la violazione di ogni principio igienico, argomentazione che per noi Romani cresciuti per generazioni con i mitici panini con la salsiccia dello “zozzone” (una sorta di ufficioso franchising delle camionette notturne), si rivela decisamente poco incisiva.

Se oltre all’unto del kebab siete interessati anche agli aspetti più culturali, sappiate che la moschea si concede ai visitatori ogni mercoledì e sabato mattina fra le nove e le undici e trenta, ad esclusione del periodo del Ramadan.
Percorrendo il lungo corridoio oltre la scalinata si rimane un po’ dubbiosi e incuriositi da una scelta architettonica difficilmente classificabile, mentre attraversando una lunga serie di colonne a calice di gusto apparentemente postmoderno, solo a tratti riusciamo a riconoscere gli elementi appartenenti a quell’immaginario decorativo che possa soddisfare le nostre aspettative di esotismo orientale. Una volta giunti nel cortile ci accorgiamo di come i due stili sembrino infine convergere tra loro, e mentre ancora ci chiediamo se ci si trovi nel patio dell’Alhambra o degli uffici postali di piazza Bologna, il portale davanti a noi scioglie ogni dubbio e ci invita ad entrare. L’impatto è di quelli che lasciano a bocca aperta, e quasi ci dimentichiamo dell’obbligo di lasciare le scarpe all’ingresso. Ci si ritrova improvvisamente immersi in una soffusa luce azzurra che, con chiari rimandi alla moschea blu di Istanbul, ci avvolge in un contesto decorativo povero di immagini e ricchissimo di suggestioni. Una guida del posto è sempre disponibile ad accogliere i visitatori, per rispondere alle domande e dare qualche informazione ai più curiosi. Nel nostro caso, dopo una brevissima introduzione tecnica ricca di notizie interessanti, il nostro affabile Cicerone del Sudan si è lanciato in un monologo estremamente complesso, che passando attraverso filosofici tentativi di indottrinamento, si è infine arenato sull’annosa questione della cattiva influenza delle donne dei calciatori sulla riuscita del campionato (prendendosela misteriosamente in particolare con quelli del Napoli).

Ad arginare il fiume di parole, la rasserenante visione di una selva bianca di colonne a tre steli, raffinato richiamo ad un oasi di palme, che si slancia verso l’alto in un elegante gioco di architetture dalle linee concentriche. Ai lati della sala la nostra attenzione viene invece attirata dai matronei, veri e propri soppalchi riservati alle donne, secondo il principio islamico di separazione dagli uomini nel momento della preghiera. Il bagno con la vasca per le abluzioni, tappa necessaria prima dell’uscita, è direttamente collegato con la sala principale, ed è li che ci scopriamo infine profondamente provinciali nel nostro rimanere affascinati di fronte alla visione di un comune cesso pubblico, semplicemente adattato alle diverse esigenze di una tradizione che prevede il rituale  lavaggio purificatore prima del momento della preghiera. Dettagli lontani dal nostro quotidiano che ci sorprendono nei posti (e nei momenti) più impensati. All’interno della struttura è presente anche un importante Centro culturale Islamico, dove oltre a una biblioteca e a un centro congressi, è ospitata anche una scuola di lingua araba aperta a tutti con le lezioni del sabato mattina. Le difficoltà dell’idioma rappresentate dalla celebre espressione “ma che parlo arabo?” potrebbero farci dimenticare il piacere di avvicinarci a una lingua così strettamente connessa al proprio universo culturale e il cui apprendimento, lungi dal prepararci a una conversazione nella prossima vacanza sul mar Rosso, diventa l'occasione per imparare a conoscere la ricchezza di questa affascinante cultura, celata dietro la raffinata eleganza della propria arte calligrafica. La visita è finita e mentre ci allontaniamo osservando il minareto che si staglia sull’enorme cupola di piombo, mi torna in mente la divertente risposta della guida alla nostra domanda: “ma si sente il canto del Muezzin?” “No, quello dava fastidio a Maurizio Costanzo”. Scherzosa battuta che nasconde un’inquietante verità sull’Italia di oggi.

mercoledì 4 gennaio 2012

Dice che a Mosca...

Tra le decine di cupole che contraddistinguono il sempre splendido e pressoché inalterato skyline Romano da qualche secolo a questa parte, con la coattissima eccezione del grattacielo Eurosky in zona EUR, abbiamo assistito negli ultimi anni alla comparsa di nuove forme architettoniche, frutto di quel lento processo di arricchimento culturale che nel corso del tempo ha positivamente coinvolto la nostra città.


Le cupole dorate della Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, chiesa ortodossa di Roma dipendente dal patriarcato di Mosca, rappresentano certamente uno degli esempi più interessanti: un autentico angolo di Russia a poche centinaia di metri dal celebre cuppolone di S.Pietro. La chiesa è stata inaugurata ufficialmente nel 2009 all’interno del parco di Villa Abamelek, già sede dell’ambasciata Russa nel territorio Italiano, dopo circa un secolo di richieste e tentativi, effettuati in più occasioni da parte della comunità ortodossa locale: più o meno la stessa tempistica necessaria ad ottenere un visto di ingresso per la Russia e dunque perfettamente in sintonia con l’agilità burocratica che, secondo un certo stereotipo politicamente (neanche troppo) scorretto, contraddistingue i nostri amici Sovietici. Dopo aver percorso una tortuosa stradina residenziale a ridosso dei binari della stazione di S.Pietro, in un itinerario che farebbe impazzire anche i navigatori satellitari di ultimissima generazione, ci si scontra improvvisamente con il candore di una struttura dai contorni fiabeschi, dove il bianco e il verde acqua si combinano tra riflessi dorati, sorprendendo il visitatore più sprovveduto con l’impressione di essere finito al cospetto di un’eccentrica magione di qualche stravagante personaggio con manie di grandezza.

L’impatto ad effetto è amplificato dal contrasto con le palazzine anni sessanta che premono ai confini del complesso religioso, quasi a rivendicare la loro preesistenza nei confronti di questo nuovo arrivato, colpevole di accentuarne al massimo la loro mediocre anonimità. Per chiunque abbia avuto a che fare con il paese in questione o quantomeno con il suo consolato, traumatizzato dall’esperienza di una burocrazia infernale che si esprime in un incubo di cellulosa, divieti e paradossi logistici di ogni tipo, il vero miracolo di Santa Caterina verrà riconosciuto nell’assoluta facilità di accesso, e questo nonostante l'edificio si trovi compreso nel territorio dell’ambasciata Russa. A completare il quadro, il gentilissimo personale del segretariato al piano terra, si renderà immediatamente disponibile per una visita al di fuori dell’orario delle funzioni, inviandovi una persona di fiducia ad aprire le porte. Nel nostro caso siamo stati addirittura premiati con l’effetto speciale dell’apparizione di una contadina Russa del secolo scorso, che come materializzatasi dalle nebbie delle steppe Sovietiche col suo fazzoletto nero legato in testa, ci ha silenziosamente condotto alla scoperta dell’interno della chiesa.

L’interno è molto semplice e luminoso. Colpiscono i dettagli di un architettura sacra a cui non siamo abituati e che racconta una religiosità affine, ma allo stesso tempo diversa dal fin troppo familiare Cattolicesimo Romano: innazitutto l’assenza completa di sculture, considerate in passato come uno scomodo retaggio del paganesimo, mentre l’espressione artistica più evidente è quella delle icone, autentici oggetti sacri legati a rigidissimi canoni di rappresentazione, che ben lontani da quel mondo di committenze mercenarie e lotte fra artisti primedonne che contraddistinse l’irripetibile produzione artistico religiosa del Cattolicesimo dal Rinascimento in poi, diventano veri e propri simboli in cui "leggere" l’essenza del divino ( le icone si scrivono, non si dipingono!).

Le influenze Orientali, espresse al massimo nel portale dorato dell’iconostasi (la barriera che separa la navata dal santuario) ci riportano alle origini Bizantine di una religione che nel 1054 prese ufficialmente la sua strada per colpa di una congiunzione grammaticale di troppo. Se infatti volessimo semplificare in maniera selvaggia le ragioni del grande scisma tra la chiesa d’Oriente e la chiesa d’Occidente, è sufficiente ricordare l’episodio della famosa aggiunta nel “Credo” della formula filioque (E dal figlio), infilata a tradimento dalla chiesa Romana nell’originaria professione di fede, per contrastare le cosidette eresie ariane del tempo che tendevano a negare la divinità del Cristo. Fu così che, mentre per gli ortodossi lo spirito santo rimase creato unicamente dal padre, la chiesa cattolica, sotto la spinta decisiva di Carlo Magno, allargò i poteri a tutti i membri della sacra famiglia con il clamoroso “e dal figlio”, scatenando tutto il casino di cui sopra con la conseguente separazione delle due confessioni. Avremmo voluto approfondire tutto questo, ma l’impossibilità di comunicazione con l'interlocutrice autoctona, dovuta principalmente alla nostra conoscenza pressochè nulla della lingua Russa, ha impedito ogni sorta di interazione, riportandoci nuovamente a riflettere sull’affascinante (e a tratti inquietante) questione di come taluni membri di comunità straniere, riescano a sopravvivere quotidianamente senza il bisogno di conoscere una singola parola della lingua locale.

Una volta tornati all’esterno vale la pena salire la scalinata che sale ai confini di Villa Abamelek per ammirare la contrapposizione fra le due cupole, antagoniste e vicine, in un sorprendente panorama che solo pochissimi Romani conoscono. Il verde acqua del tetto di Santa Caterina si perde nell’azzurro del cielo romano, in un contrasto talmente netto da farla assomigliare ad una di quelle sfere di vetro con la neve finta appoggiata li per caso, e quasi viene voglia di girarla per poter assistere all'illusione di un suggestivo inverno Moscovita. Prima di tornare verso l’uscita non potrete resistere alla tentazione di arrampicarvi sulla collinetta laterale, dove una croce ortodossa, decisamente più tecnica della croce cattolica nel suo sfoggio di ben tre bracci orizzontali, si staglia sul panorama Capitolino a baluardo di un’identità religiosa, che dopo lungo tempo ha finalmente trovato il suo posto sotto il cielo di una Roma (un po’ più) aperta.
Con buona pace del padre...e del figlio!

mercoledì 20 luglio 2011

Dice che alla Magliana c'è una chiesa lounge

Ho sempre nutrito forti dubbi rispetto ai risultati estetici delle chiese moderne, generalmente in bilico fra l'anonimo e l'orrendo. Se invece parliamo della Chiesa del Santo Volto di Gesù, nonostante mi senta in dovere di lasciare in sospeso il mio giudizio personale, posso tranquillamente ammettere che al concetto di "stile moderno" si accompagna eccezionalmente in questo caso anche quello di espressione artistica, per quanto nei limiti della nostra epoca e con risultati a prima vista più consoni a un museo, un auditorium o un lounge bar.

Al progetto di due architetti (Piero Sartogo e Nathalie Grenon) hanno infatti partecipato ben otto artisti di prestigio, in un ritorno a quella commistione tra funzionalità architettonica e contributo artistico che ormai da secoli mancava nella realizzazione dei luoghi di culto. Vi invito quindi ad una passeggiata alla Magliana nuova per un'escalation di reazioni che, partendo dall'istintivo rifiuto, e passando per l'ironia e la curiosità, potrebbe addirittura concludersi con l'apprezzamento e l'ammirazione verso questo risultato di sperimentazione ibrida tra chiesa e galleria d'arte.
Per quanto ci si sforzi di dichiarare chiavi di lettura a sfondo religioso per spiegare alcune scelte prettamente artistiche (il corridoio esterno a V che si apre come in un abbraccio verso il figlio di dio, la vetrata circolare che riprende la forme del cosmo illuminato di luce mistica, "queshto Crishto che si immola" e così via ) risulta abbastanza evidente come tutta questa pantomima abbia l'unico scopo autoreferenziale di produrre arte ad uso e consumo di un pubblico laico che sappia apprezzare l'indubbio valore di un'opera moderna.
E in effetti per chi si approccerà con la curiosità del visitatore del MACRO, le proprie aspettative verranno sicuramente soddisfatte: pareti blu elettriche, sedili minimal, cristi serigrafati e un interessantissima via crucis da gustarsi come fosse un esposizione monografica permanente di opere contemporanee su formelle di ceramica smaltata.

I confessionali, segnalati da una targa in stile ufficio amministrativo, vi accoglieranno in due minuscoli ambienti blu elettrico dove un'inquietante riproduzione fotografica serigrafata del volto di Cristo, assisterà allo sciorinamento delle vostre malefatte dall'alto di un oblò. Dopo esservi affacciati all'interno sono certo che anche voi proverete l'impulso irrefrenabile di entrare a confessare tutti i vostri peccati con in sottofondo un pezzo dei Massive Attack. Dispiace pensare che le signore del quartiere, dopo essersi raccolte in preghiera in questa atmosfera lounge, debbano uscire a comprare le paste della domenica nel ben più anonimo bar pasticceria all'angolo, e quasi verrebbe voglia di caricarsele tutte in macchina e dare continuità alla loro esperienza con un aperitivo al Singita di Fregene.

Appena fuori dai confessionali, in opposizione all'immensa vetrata circolare che illumina a giorno l'intera aula liturgica, noterete il curioso dipinto murale di Marco Tirelli, intitolato "luci dalle tenebre" (a proposito! Non ho ancora restituito a Blockbuster l'ultimo capitolo della saga di Star Trek) raffigurante la terra circondata dalle tenebre originarie, a loro volta immerse nel blu profondo dell'abisso cosmico. In definitiva una serie di cerchi concentrici, il cui risultato finale da vita a quello che sembrerebbe essere il logo perfetto per un' impresa di costruzioni aerospaziali.

Decisamente interessante è la già menzionata carrellata di ceramiche smaltate realizzate da Mimmo Paladino per una personalissima reinterpretazione della Via Crucis. Per quelli che come me non avessero familiarità con i concetti di arte moderna e di stile naif contemporaneo, confrontare la lettura tradizionale di ogni episodio e tappa della via crucis con questa rilettura decisamente più libera, può trasformarsi in uno stimolante e divertente approccio creativo (sono convinto che ci sia creatività anche nella fruizione passiva dell'arte) verso uno stile generalmente poco accessibile, di cui anche da profani riuscirete ad apprezzarne la sorprendente vitalità ed inventiva. 
La grande vetrata circolare taglia a metà la semicupola creando un confine netto tra interno e esterno, e riprendendo quindi quel contrasto e commistione fra luci e ombre che ricorre in tutta la struttura. Le linee essenziali delle panche, lungi dal rendere fredda e distante l'atmosfera del luogo, ci riportano in realtà alla familiarità, al calore e alla cocente incazzatura di un pomeriggio all'Ikea. Dell'esterno vi colpiranno l'effetto moresco della semicupola appoggiata direttamente sull'edificio e una cancellata dall'andamento "tribale" (personalissima quanto inappropriata definizione che voglio anarchicamente concerdermi). In ogni caso sono certo che ognuno di voi scoprirà il proprio dettaglio personale, che vi incuriosirà e vi farà sorridere per quell'eccesso di audacia e innovazione destinati con azzardo e creatività a questa chiesa di quartiere popolare.

Per quanto mi riguarda ho trovato divertente un cartello posto nelle adiacenze dell'area esterna destinata ai bambini "la parrocchia declina ogni responsabilità per eventuali incidenti che ACCADONO nell'area giochi". Dichiarazione che riporta alla mente le parole di Gesù nel nuovo testamento "lasciate che i bambini vengano a me"..e a cui in questo caso verrebbe da aggiungere "se poi se fanno male cazzi loro". Indubbiamente un pensiero profondamente moderno.
La Chiesa del Santo Volto di Gesù si trova in Via Caprese 1 all'angolo con Via della Magliana nuova ed è generalmente aperta tra le 8:00 e le 18:30. Per andare sul sicuro meglio andare il sabato o la domenica mattina dopo la messa.
Fa parte del complesso anche la canonica, interessante in particolare per le scelte cromatiche degli interni, la quale rimane separata dalla chiesa attraverso l'efficace scelta architettonica di un corridoio a V.

venerdì 27 maggio 2011

Dice che sta in estasi religiosa...dice lei..

Se da sempre le statue sono sinonimo di mutismo e immobilità, allora vale certamente la pena andare a scoprire, in uno dei maggiori capolavori di Lorenzo Bernini, la capacità di trasformare un blocco di marmo in un'esplosione di sensi, dove il movimento, la fisicità e finanche la risonanza di un gemito, ci colpiranno con tutta la forza espressiva del barocco, lasciandoci ammirati, confusi e con la strana sensazione di risultare persino un pò indiscreti: stiamo parlando dell'estasi di S.Teresa D'Avila.

Per interpretare l'ambiguo mistero di questa eccezionale opera d'arte, o almeno per cercare di darle un senso e una lettura personale, dovrete recarvi nella chiesa di S. Maria della Vittoria in via XX Settembre, così chiamata in onore dei vittoriosi risultati in ambito bellico ottenuti da Cristiani contro Protestanti in occasione del match della Montagna Bianca, durante il campionato della guerra dei trent'anni. E fu proprio per celebrare questi "pii avvenimenti" che la chiesa venne riccamente e sfarzosamente decorata alla maniera barocca, così come ci appare oggi in tutto il suo splendore. Molti di voi la ricorderanno inoltre come una delle tappe del sopravvalutato romanzo "Angeli e Demoni", nel passo in cui il celebre investigatore Robert Langdon, interpretato da Tom Hanks nell'omonimo blockbuster americano, accorre sul tardivamente previsto luogo del delitto per ritrovarsi ovviamente a festa terminata di fronte ad uno dei cardinali, vittima predestinata, appeso in catene sopra una catasta infuocata e marchiato a fuoco con la scritta "FIRE" (un plauso alla focosa coerenza).

L'opera oggetto della nostra visita è collocata in una delle cappelle del transetto sinistro della chiesa, e più precisamente nella cappella funeraria della famiglia Cornaro, la cui decorazione fu commissionata all'artista dallo stesso Cardinale Federico Cornaro. Ci troveremo davanti ad una vera e propria rappresentazione scenica, dove il Bernini, mettendo a frutto tutta la sua esperienza nel campo come realizzatore di imponenti scenografie teatrali, ricostruisce lo spettacolo dell'estasi con protagonisti dell'azione la Santa e un sadico cherubino. Per completare la metafora del palcoscenico, Bernini non ci risparmia nemmeno gli effetti speciali delle luci dei riflettori, utilizzando l'artificio barocco di una finestrella nascosta, attraverso la quale la luce naturale del giorno, irradiandosi lungo una struttura artificiale di raggi di bronzo, riproduce un suggestivo effetto di illuminazione sugli "attori" al centro della scena. A chiudere il quadro troviamo persino la riproduzione del pubblico (la famiglia Cornaro) che assiste distrattamente allo spettacolo dalle altezze di un palchetto teatrale. Per comprendere il senso di quest'opera e le sue possibili letture, sarà bene riprendere il passo dai diari della Santa a cui l'artista si ispirò per la realizzazione del suo capolavoro.

"Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. II dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata. Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l'angelo estrasse la sua lancia, rimasi con un grande amore per Dio. » (Santa Teresa d'Avila, Autobiografia, XXIX, 13).  La Santa ci appare decisamente dotata di quella maestria descrittiva che farebbe invidia a Barbara Cartland e a tutte le più spudorate autrici di romanzi rosa della celebre collana Harmony nell'esplicitazione di tali sensuali atmosfere. E chi l'avrebbe mai detto, inoltre, che il mitico Mario Brega in "un sacco bello" di Verdone si sarebbe avventurato in una citazione Teresiana, riferendosi con leggiadria e cognizione di causa alla figura soprannaturale dell'angelo dotato di "spada de foco", accompagnando il tutto con un gesto non riportabile in forma letteraria, ma che sono certo molti di voi staranno in questo momento reinterpretando di fronte allo schermo del pc.

In effetti già ai suoi tempi molto si discusse sulla figura di questa santa, istitutrice dell'ordine delle monache e dei frati Carmelitani Scalzi, e fondatrice indefessa di conventi e case per il suddetto ordine con ritmi al limite della bulimia edilizia. Lei stessa soleva sottoporsi a mortificazioni corporali dettate dai sensi di colpa insinuati in lei da chi non vedeva nelle sue esperienze mistiche un accezione del tutto spirituale. In ogni caso la complessità della sua figura, al confine tra forza carismatica ed estrema fragilità fisica e mentale, dove la linea di demarcazione tra le fantasie sessuali di una giovane donna e l'esperienza del divino è labile e confusa, ispirarono al nostro Bernini una delle più emozionanti e vitali opere d'arte, proprio nel momento in cui, sotto il Pontificato di Innocenzo X, le sue quotazioni di artista cominciavano lentamente a scendere.

L'interpretazione del passo è magistralmente riprodotta nel dettaglio, con la Santa adagiata su una nuvola, che come una macchina teatrale la trasporta verso l'alto, e in cui  tutto il tormento, l'estasi e l'abbandono del corpo vengono trasferiti sull'effetto disordinato e scomposto dell'ampia veste, appena scostata dal giovane cherubino che con un sorriso perverso le punta la lancia pronto a mirare sul cuore. La bocca socchiusa e gli occhi al cielo sono la perfetta rappresentazione di quel "sacro erotismo" che molte altre volte ritroviamo nell'esperienza di tante celebri mistiche. A chiudere la scena abbiamo infine i membri della famiglia Cornaro, che in una perfetta istituzionalizzazione dell'arte del voyeurismo, assistono all'evento da un palchetto teatrale che affaccia direttamente sull'altare della cappella, trasformato da Bernini in palcoscenico per l'occasione. Appagati da tanta bellezza (e comunque sempre meno appagati della Santa), confusi tra erotismo e sacralità, indecisi fra le più nobili intenzioni e la voluta malizia dello scultore, probabilmente lascerete lo spettacolo senza essere riusciti a comprenderne davvero il significato, ma come dice la nostra S.Teresa in una frase a effetto da bacio Perugina "La cosa più importante è non pensare troppo e amare molto; per questo motivo fate ciò che più vi spinge ad amare". Insomma chissenefrega, andate a casa in buona compagnia e godetevi anche voi la vostra personalissima estasi.

La Chiesa di S. Maria della Vittoria si trova in via XX Settembre 17 ed è aperta tutti i giorni dalla 9:00 alle 12:00 e dalle 15:30 alle 18:30.