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giovedì 4 ottobre 2012

Dice che s'è fatta l'ora di pulire il bagno


Generalmente identifichiamo il passato di Roma con le vestigia della monumentalità imperiale o religiosa (che poi sempre imperiale è), ma c'è un altro passato che non dobbiamo assolutamente sottovalutare: quel passato recente in cui riecheggiano ancora le storie di generazioni appena precedenti la nostra. Storie che alcuni ricordano ancora in prima persona e che non ci vengono raccontate sulle pedanti pagine di un testo storico, ma attraverso la voce della gente comune, o come in questo eccezionale caso, grazie alla filmografia degli anni più felici del nostro cinema. Spesso i due passati si accavallano o si confrontano come se fossero uniti da una linea sottile, e accade che il meno potente dal punto di vista iconografico, per quanto prezioso, rischi di soccombere alla fine più atroce e svilente: abbandonato al degrado e all'incuria. La Casa del Passeggero, ex albergo diurno all'incrocio tra via del Viminale e via delle Terme di Diocleziano, ci appare oggi come una discarica urbana, appena ingentilita dalle forme liberty di inizio secolo scorso. Un raffinato covo di immondizia, "contessa miseria" dell'architettura romana di un tempo, inspiegabilmente avviata verso la più assurda cancellazione (e grazie a Carmen Consoli per la definizione).


Piccolo capolavoro del "barocchetto romano", realizzata nel 1920 dall'architetto Oriolo Frezzotti, si distingue immediatamente per quella sinuosa tettoia in vetro e ferro battuto, che messa a protezione dello scalone di ingresso interrato, appare come precaria cornice di una facciata composta con angeli in pietra e bassorilievi di bronzo, in un armonico insieme che invita a sognare di un passato avvolto da vapori e profumo di acqua di colonia (in realtà c'è tanfo di piscio, quindi levatevi dalla faccia l'espressione estatica). Sulla ringhiera di ingresso troneggia la sigla Caspas, esotica abbreviazione di "Casa del Passeggero", ad indicare la sua funzione di albergo diurno a due passi dalla stazione Termini, punto di arrivo prediletto per ogni viaggiatore bisognoso di un bagno o più semplicemente di qualche ora di riposo. Un moderno stabilimento termale, sorto per caso o volontà proprio nei luoghi in cui un tempo si estendeva ciò che rimane delle maestose terme di Diocleziano (la linea sottile che lega tra loro i passati di Roma).


Doccia, barbiere, manicure e pedicure erano solo alcune tra le prestazioni offerte, oltre ad un efficiente servizio di dattilografia per chiunque avesse avuto bisogno di una lettera scritta a macchina. E non erano solo i viaggiatori ad usufruirne: in un tempo piuttosto recente dove il bagno in casa era un optional (con l'unica eccezione del minimo indispensabile per le evacuzioni di base), erano in tanti gli abitanti dei quartieri limitrofi a desiderare"il lusso" di un momento di benessere tra i vapori di un bagno caldo. Lo stesso genere di  lusso che noi oggi ricerchiamo nelle Spa, dove tra sadici massaggi con pietre bollenti, bagni nella cioccolata o pediluvi nel vino (che spreco) non saprebbero più che inventare per soddisfare la richiesta di un pubblico ormai abituato alla vasca idromassaggio in casa. Come in tutti i luoghi di passaggio non mancavano ovviamente le prostitute della zona, pronte ad offrire un gradito servizio extra ai frequentatori del posto. Ed è così che in questo microcosmo intriso di talco, vapori e cipria, tra puttane e dattilografe, eleganti viaggiatori e coppie clandestine, piazzisti e residenti in cerca di relax è stato scritto un piccolo pezzo di quel racconto di un Italia fatta soprattutto di persone, con i loro sogni, i loro vizi e le loro attese. Chissà quante storie si sono intrecciate e sono nate oltre quel cancello, oggi  malamente custodito da due teste di leone in pensione che sembrano aver perso la fierezza di un tempo. Dietro di loro i magnifici ovali in bronzo ci raccontano una storia di esotica ricercatezza, dove liberty e richiami classici si fondono nell'idea di una cura del corpo che dalla Roma imperiale ad oggi (con lunghe, maleodoranti pause nell'età di mezzo e oltre) ritrova la sua collocazione nei bisogni e nelle aspirazioni della gente comune.


Accanto alla storia quotidiana c'è anche una storia di celluloide, fatta di registi e attori che immortalarono la Casa del Passeggero, affascinati da quelle forme e dalla peculiare quotidianità che rende magico ogni luogo di passaggio, punto di incontro di cittadini e viaggiatori. Nel film "il segno di Venere" del regista Dino Risi, i grandissimi Franca Valeri e Peppino de Filippo interpretano rispettivamente una dattilografa e un fotografo, impiegati medio borghesi in quello che veniva allora definito come centro multiservizi. In origine il film doveva essere incentrato sul personaggio della sola (ed evidentemente sottovalutata) Franca Valeri, ma per esigenze commerciali della casa di produzione Holliwoodiana venne richiesto di infarcire la pellicola con quanti più attoroni Italiani da blockbuster possibili come garanzia di successo. E fu così che si compì il miracolo che vide gli interni della Caspas come set di incontro dei più grandi mostri sacri del cinema italiano in un unica pellicola. E accanto a Franca Valeri, ecco incrociarsi sotto le volte affrescate della Casa del Passeggero personaggi e storie interpretati nientedimeno che da Sofia Loren, Alberto Sordi, Peppino de Filippo e Vittorio de Sica.

Anche il maestro Fellini ne rimase folgorato, e notoriamente fissato nel voler necessariamente riprodurre ogni ambiente esterno tra le mura di Cinecittà, al punto da ricostruire in studio l'intera via Veneto de "La dolce vita", fece realizzare una copia della facciata della Casa del Passeggero come set per il suo autobiografico "l'intervista" del 1987. E a questo punto potremmo azzardare la forzatura di una misteriosa leggenda o maledizione, secondo cui tali ricostruzioni tolsero l'anima ai loro originali facendoli precipitare entrambi in una decadenza che è oggi sotto gli occhi tutti (via Veneto volgare trappola per turisti, e la Casa del Passeggero discarica a cielo aperto). Ma non possiamo certo dare la colpa a Fellini e alle sue manie se oggi ci ritroviamo questo gioiello seppellito dalla monnezza.


Sarebbe facile fare del populismo e prendersela con una amministrazione troppo impegnata a gozzovigliare nascosta dietro eloquenti maschere da porco. Forse più che inveire dovremmo conoscerla, parlarne, fotografarla, scoprirla, raccontarla, e un giorno qualcuno con più possibilità di noi potrebbe infine prendersela a cuore e porre le basi per una sua rinascita. Possibilmente non come ennesima galleria d'arte radical-chic, ma come punto di incontro variegato quale era. Tra puttane, viaggiatori, commesse e perditempo, sintesi e specchio di un Italia amata e odiata e che oggi sembra solo un lontano ricordo.