Visualizzazione post con etichetta giardini e scampagnate. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta giardini e scampagnate. Mostra tutti i post

giovedì 2 agosto 2012

Dice che il principe era ossessionato dalle civette


Sarebbe certamente più logico raccontare la storia della Casina delle Civette andando di pari passo con quella dell'intero complesso di Villa Torlonia, l'eccentrica dimora del Marchese Giovanni Torlonia che alla fine del Settecento stabilì di meritarsi una fastosa residenza degna di un titolo nobiliare appena accaparrato, ma soprattutto delle proprie sconfinate e indecenti ricchezze accumulate in anni di speculazioni in combutta con gli occupanti Francesi. Tuttavia questo bizzarro edificio fantasy da sempre sembra vivere di vita propria, appartato dall'intero contesto residenziale esattamente come l'ambiguo erede della famiglia, Giovanni Torlonia Jr, che fino al giorno della sua morte avvenuta nel 1938 scelse proprio la Casina delle Civette come residenza privata ai margini del parco, per ritirarsi, così come recita l'iscrizione sulla porta di ingresso, in "Sapienza e Solitudine" (in parole povere "per cazzi suoi").


L'intero parco venne gradualmente trasformato in una specie di Disneyland per volere di Alessandro Torlonia a partire dal 1832, con la conseguente progettazione della Casina delle Civette che, originariamente realizzata come rifugio di montagna in lungimirante anticipo sulle attuali tendenze eco-chic, assunse in prima battuta l'evocativo nome di Capanna Svizzera. In pieno delirio da ecstasy erano sorte nel frattempo tutt'intorno finte rovine romane, obelischi rosa, villini medievali e persino una grotta moresca. Alla morte di Alessandro subentrò il nipote Giovanni, il quale tramite "magheggio" anagrafico riuscì ad ottenere il cognome della madre sposata ad un Borghese (nel senso della nobile famiglia dei Borghese) al fine di garantire continuità alla dinastia dei Torlonia: ed è così che facciamo la conoscenza di Giovanni Torlonia Jr. Il giovane principe decise dunque di spostare la sua residenza all'interno dell'ex Capanna Svizzera, che per suo gusto e volere subì una curiosa metamorfosi in villaggio medievale a seguito di tutta una serie di interventi architettonici che tra logge, loggette, torrette e porticati dai risvolti fiabeschi trasformarono in breve tempo il rifugio alpestre in castelletto. Non ancora soddisfatto, e coerentemente in linea con la sua fama di misantropo e amante dell'esoterismo, volle aggiungere un tocco personale all'intera costruzione, facendola dotare di elementi simbolici ricorrenti, oggetto delle sue personalissime ossessioni: prima fra tutte la civetta.


E mentre Giovanni sceglieva di vivere ai margini del parco in pieno isolamento liberty tra lumache, civette, trifogli e ancora civette, il corpo principale di Villa Torlonia venne affittato nel frattempo (1925) a Benito Mussolini alla simbolica cifra di 1 lira. All'apparenza semplici compagni di bonifica, in virtù del mastodontico intervento bonificatore operato dai Torlonia nella piana del Fucino in Abruzzo a partire da nonno Alessandro (opera che integrò la collezione di titoli familiari con "la fascia" di principe del Fucino), i due personaggi erano in realtà legati da tutta una serie di interessi che, in quanto rappresentanti del potere politico e finanziario del momento, furono alla base del loro "avvicinamento"; un avvicinamento talmente letterale da farceli infine ritrovare come improbabili vicini di casa. Cito dalla commemorazione dell'allora presidente del senato alla morte di Giovanni Torlonia Jr: "...(egli) rappresenta uno dei contributi più cospicui coi quali l'iniziativa di un privato abbia saputo assecondare l'azione generale del governo fascista per la redenzione del suolo d'Italia"! Alle spalle di cotanta redenzione agricola c'è tutta la storia di un famiglia di mercanti arricchiti, che tra speculazioni, matrimoni studiati a tavolino con le nobili famiglie romane e appropriazioni di titoli nobiliari e proprietà a fronte di prestiti non restituiti da parte di aristocratici in malora, divenne in breve tempo una vera potenza politica e finanziaria (la banca del Fucino è tuttora presieduta dai Torlonia).

E come sempre quando si parla di potere e finanza, non può ovviamente mancare l'elemento esoterico-massonico, in questo caso perfettamente e ripetutamente rappresentato nella quotidianità della dimora del principe. L'intervento più evidente e caratterizzante fu comunque la realizzazione di meravigliose vetrate liberty, dalla scuola del maestro Cesare Picchiarini, su disegni di quattro diversi artisti (Cambellotti, Bottazzi, Grassi e Paschetto), i cui lavori dotarono l'intero complesso di un patrimonio artistico senza precedenti fortunatamente sopravvissuto in parte fino ad oggi. Tra tutte si distingue la vetrata delle civette, su disegno di Duilio Cambellotti, ennesima rappresentazione dell'animale notturno, le cui fattezze vennero morbosamente riprodotte nelle fogge del mobilio della camera da letto. Non essendo rimasto quasi nulla dell'arredo orginario, possiamo oggi solamente immaginare le sembianze di una civetta ossessivamente ripetute su lampade, comodini e pomelli del letto, mentre rimane comunque al suo posto l'inquietante volo di pipistrelli a stucco sul soffitto del letto, come prova e a garanzia di una certa stravaganza del principe ai confini del "fuori de capoccia". Simbolo ambivalente sin dai tempi dell'antico Egitto, la civetta rappresenta da un lato la saggezza e l'illuminazione di chi possiede la capacità di scrutare attraverso le tenebre, ma è allo stesso tempo legata al tema opposto della morte e dell'oscurità: "sapienza e solitudine", appunto.


Il percorso ci guida attraverso i due piani della villa alla scoperta di ciò che rimane a seguito dell'eccellente lavoro di restauro che salvò l'edificio da un progressivo degrado, iniziato con l'occupazione delle truppe anglo-americane, proseguito con l'incuria e i saccheggi e terminato con il disastroso incendio del 1991. Dovremo dunque lavorare di fantasia, stimolati da quei piccoli meravigliosi dettagli superstiti e dalle descrizioni di ogni singolo ambiente, capaci di riportarci alle eleganti atmosfere vissute dall'inquietante erede dei Torlonia. E attraversando il fumoir (viene voglia di accendersi una sigaretta al solo nominarlo) e il salottino delle 24 ore, rappresentate sulla bellissima volta dipinta come 24 discinte fanciulle, per poi raggiungere il più intimo piano superiore, conosceremo passo dopo passo tutte le ossessioni e le simbologie in cui il principe Torlonia amava ritirarsi. Set perfetto per un horror di classe e allo stesso tempo romantico scenario di una passeggiata metafisica, quando la luce dell'esterno si colora attraverso le preziose vetrate inondando l'ambiente di soffuse tonalità pastello. I pochi manufatti originali sono arricchiti da un esposizione di bozzetti e riproduzioni di vetrate liberty, un percorso di nicchia che perde valore di fronte alla potenza comunicativa di un luogo allo stesso tempo misterioso e affascinante, capace di restituirci nel vuoto dei suoi ambienti quella meravigliosa qualità che sempre meno utilizziamo: l'immaginazione per riempirlo. E alla fine non potremo fare a meno di vedere il principe riposare sotto quel lugubre volo di pipistrelli.

La Casina delle Civette si trova all'interno del Parco di Villa Torlonia, con ingresso in via Nomentana 70 ed è aperta tutti i giorni escluso il lunedì dalle 9:00 alle 19:00.
E con questo "Dice che a Roma" (ovvero me medesimo) se ne va in vacanza fino a settembre. Per non sentire la mia mancanza come sempre la butto là..compratevi il libro "Roma Fuoripista"! Sul solito sito troverete la possibilità di prenderlo on-line e la lista delle librerie dove acquistarlo: www.romafuoripista.com

BUONE VACANZE A TUTTI!


lunedì 2 luglio 2012

Dice che nel Tevere si nasconde un anaconda


Sperare di imbattersi in uno scorcio poetico lungo le corsie del diabolico anello d'asfalto che risponde al nome di Grande Raccordo Anulare, potrebbe risultare impresa folle e quanto meno disperata (chi invece sembrò esserne felicemente ispirato fu Corrado Guzzanti nei panni di un improbabile Venditti "...e allora vieni con me, amore, sur grande raccordo anulare, che circonda la capitale, e nelle soste faremo l'amore, e se nasce una bambina poi la chiameremo: "Rrrrrrooooomaa"). Eppure basterebbe approfondire cosa si nasconde al di sotto delle nostre quattro incazzatissime ruote per scoprire uno scenario del tutto inaspettato. Ci troviamo sul tratto di GRA all'altezza della via Ostiense che, all' insaputa di noi miseri condannati che ne percorriamo ogni giorno la superficie bovinamente incolonnati, scavalca il fiume Tevere guadagnandosi immeritatamente lo status di ultimo ponte sul fiume ai confini della città. Ed è proprio sotto gli archi di questo tratto di raccordo che faremo la conoscenza di un insolito ristorante, categoria piuttosto rara tra le pagine di un blog che predilige scorci e passeggiate, ma che trova la sua meritata collocazione nel momento in cui l'esperienza gastronomica, a mio parere quasi sempre soggettiva, si accompagna all'autenticità della scoperta del nostro territorio e di una tradizione sempre più rara. E questo tratto di fiume Tevere, con la sua preziosa riserva naturale che custodisce gli ultimi baluardi della tradizionale pesca fiumarola, non poteva certamente essere ignorato.


Il passaggio segreto che dall'inferno di lamiere vi trasporterà direttamente in questo angolo di poetica decadenza è un'uscita appena accennata sulla rampa di collegamento tra la via Ostiense e il raccordo in direzione Fiumicino, immediatamente dopo l'uscita per l'ACEA. E proprio quando inizierete a sospettare di essere stati condotti con l'inganno nel bel mezzo di una perfetta scenografia da leggenda metropolitana, dove in un campo Rom sulle rive del Tevere verranno perse per sempre le vostre tracce, ecco aprirsi ai vostri occhi uno scenario naturalistico di imprevista serenità, in cui l'implacabile flusso di macchine sopra le vostre teste si trasformerà immediatamente nel rumore di fondo di una vita precedente. Un breve sterrato ci guida fino alla riva del fiume, dove troveremo ormeggiata la colorata struttura in legno e lamiera dell'Anaconda. Una struttura a due facce: da un lato ristorante, dall'altro punto d'approdo, partenza e preparazione dei fratelli Alfredo e Cesare Bergamini, gli ultimi (o forse sarebbe meglio dire gli unici) esponenti della pesca fiumarola delle anguille. Pescatori di terza generazione e custodi dei segreti del biondo Tevere, fedele compagno di una vita, i fratelli si sono organizzati in una piccola cooperativa familiare che dagli "ameni" lidi di Castel Giubileo si è infine spostata sulle rive selvagge di Mezzocamino. La pesca fiumarola si articola in due fasi: il pomeriggio vengono calati i cosiddetti "martavelli", reti-trappole d'artigianato frutto di una tecnica sapientemente tramandata di padre in figlio, mentre la mattina è dedicata alla raccolta e al recupero di reti e pescato: le famose ciriole (anguille in romanesco) destinate infine al ripopolamento degli allevamenti di anguille nelle vasche di Comacchio. Specifico la destinazione d'uso per dissipare il dubbio di chi si stesse chiedendo con una smorfia di terrore se il ristorante includa nel menù i frutti della pesca del fiume Tevere (e la mente corre al mitologico pesce-ratto di Fantozziana memoria). E in ogni caso non azzardatevi a parlare di Tevere inquinato ai fratelli Bergamini!


E' facile incontrare i fratelli al loro ritorno nel tardo pomeriggio, quando la luce del sole raggiunge la sua perfezione cromatica e l'arrivo delle barchette all'approdo dell'Anaconda ci riporta ad un malinconico passato, con i gatti che accorrono in cerca di ricompense, mentre Aironi Cinerini e Martin Pescatori volteggiano impavidi tra scarichi abusivi e cementificazione selvaggia, che in questo tratto di fiume ci appare miracolosamente e illusoriamente lontana ( o forse è solo ben nascosta dalla vegetazione sulla riva). Stupisce infine la presenza delle Nutrie, che molti ricorderanno nei pomeriggi di infanzia al laghetto di Villa Pamphili, dal quale vennero misteriosamente deportate con conseguente disperazione dei centinaia di bambini abituati a cadere nell'acqua nel tentativo di nutrirle. Questa ambigua parente del castoro riappare a noi nell'età del disincanto in cui è facile scambiarla per una zoccola di fogna ingigantita dagli effetti dell'inquinamento, finchè la vista del suo simpatico musetto ci riporta gradualmente a sfumare dall'iniziale "mortacci sua che sorcio!", alla nostalgia e alla curiosità. La contemplazione di questo acquerello romano anticipa la cena nel ristorante delle simpatiche sorelle, che hanno da poco preso in gestione questo angolo di anacronistica bellezza. A loro va sicuramente il merito di aver valorizzato la storia di una tradizione, e tra aneddoti e vecchi articoli sparsi ovunque c'è sempre qualcosa da imparare. La cucina e il personale sono rigorosamente romaneschi, perchè in fondo non sta scritto da nessuna parte che in un ristorante sul fiume non si possa mangiare una carbonara o due salsicce (e meno male, direbbe lo stesso di prima, preoccupato di un'eventuale cucina di fiume...Tevere).

Alcune sere l'Anaconda sembra quasi trasformarsi in una balera di fiume, con la musica dal vivo che sulle note di un agghiacciante repertorio nazional popolare che spazia dalla Pausini a Cocciante, ci riporta all'atmosfera delle feste di piazza in occasione della sagra della porchetta. Ma il raccordo è sempre sulle nostre teste, a ricordarci l'inesorabilità dell'indomani mattina, quando stressati, svogliati e incazzati dovremo transitare nuovamente tra le sue corsie, e ripensando alle facce serene di Cesare e Alfredo viene spontaneo pensare per un momento che forse, per questa vita, non c'abbiamo capito proprio un cazzo.


giovedì 17 maggio 2012

Dice che "sotto" Roma..

Aldilà dei parchi e delle ville, è anche nel verde di sorprendenti "schegge" di campagna incontaminata che possiamo leggere la struggente bellezza di Roma: aggredite ai margini da antiestetici rigurgiti edilizi opera di palazzinari senza scrupoli, resistono nel tempo regalandoci l'illusione di un agro romano superstite, incastonato tra i confini della metropoli come prezioso monito per le generazioni future.


E' il miracolo della via Appia e in questo caso della via Latina, che per pochissime centinaia di metri spunta fuori tra le colate di cemento incorniciata da quei celeberrimi pini di Roma che, come canta il sor Venditti, "la vita non li spezza" (mentre Alemanno li piegherebbe volentieri). La sopravvivenza di queste zone mai edificate è fonte inesauribile di tesori inaspettati che in altri casi, e per ovvie necessità abitative, rimangono sepolti per sempre sotto dieci piani di terrazzatissimi "palazzi in cortina adiacenze metro e zona commerciale". Il sepolcro dei Pancrazi, sconosciuta meraviglia del parco delle tombe di Via Latina, rappresenta una piacevole eccezione, giunta fino a noi per una serie di fortuite coincidenze e il contributo di singolari personaggi. Tra questi emerge la figura di un simpatico Indiana Jones de' noantri, tale Lorenzo Fortunati, che proprio come il mitico avventuriero ideato da George Lucas, era un professore con il pallino dell'archeologia, il cui interesse per le scoperte oscillava tra la passione per la storia e la speranza di ricavare "un onesto lucro" dalla commercializzazione dei reperti (il ricavato veniva a quel tempo diviso tra il proprietario del terreno e lo scopritore): in poche parole un tombarolo laureato. E fu proprio il nostro Lorenzo che, all'inizio della seconda metà dell'Ottocento, si calò dal lucernario del sepolcro affiorante in superficie, dando il via a questa avventura e alla sua opera di scavo. Più che uno scavo uno sterramento selvaggio, che alla faccia delle attuali tecniche di indagine stratigrafica che permettono di ricostruire gli eventi cronologici fornendoci preziose informazioni sull'antropologizzazione dell'area (maddechè, direbbe il Fortunati) mirava esclusivamente al rinvenimento di opere d'arte e reperti di valore.


E proprio come in ogni episodio della celebre saga, anche in questo caso comparve sulla scena l'antagonista a mettere i bastoni fra le ruote, nello specifico la Chiesa (mossa alla Dan Brown) che con la scusa del ritrovamento di ulteriori resti di matrice cristiana attribuibili ad una basilica intitolata a S.Stefano, decise di esautorare il giovane professore arrogandosi il diritto di proseguire gli scavi per mezzo della commissione di archeologia sacra. Tra sacro e profano prevalse alla fine il laico istituzionale, e intervenne dunque il recentemente costituito Stato Italiano che, in un suo fulgido inizio pieno di buoni propositi, acquisì l'intera area procedendo al restauro dei monumenti (e aggiungendo tra l'altro arbitrariamente e con molta fantasia alcuni elementi architettonici ormai perduti, come ad esempio l'intero alzato della tomba dei Valeri). Il sigillo finale lo pose l'allora ministro Baccelli con la saggia decisione di adibire l'area a parco archeologico, preservandola in questo modo dalle future grinfie degli speculatori. Tra le tombe da cui il parco prende il nome, il sepolcro dei Pancrazi è senz'altro la più spettacolare. Si accede tramite quello che sembrerebbe un anonimo capanno per gli attrezzi: una costruzione in cemento destinata a preservare dai fenomeni atmosferici la zona ipogea, unico ambiente superstite dell'intera costruzione oggetto delle disordinate scoperte del Fortunati. Una volta scesi lungo la scala originaria ci ritroveremo al cospetto di due ambienti distinti in successione. Nel primo ci soffermeremo solamente per onorare l'origine etimologica del sito, in quanto sede di un sarcofago "matrimoniale" a due piazze (riservato ai coniugi Demetrius e Vivia Severa) riportante l'iscrizione che fa riferimento al collegio dei Pancrazi, ultimi proprietari del sepolcro e responsabili dell'attuale appellativo. Parliamo di collegio in quanto al tempo era consuetudine che le tombe venissero acquistate da una specie di cooperative, dette appunto collegi, i cui membri, cittadini della classe media che evidentemente non potevano permettersi una tomba personale, versavano una quota annuale per la manutenzione del "sepolcro sociale", garantendosi in questo modo una dignitosa collocazione al momento della dipartita.


Questo primo ambiente doveva probabilmente risultare aperto in origine (il pavimento in pendenza e la presenza di un pozzo di scolo ce lo confermano) come fosse una sorta di cortile di accesso al sepolcro vero e proprio, ed è in effetti solo attraversando la porta di collegamento tra i due vani che scopriremo il cuore della tomba e l'oggetto di tutta la nostra meraviglia. L'impressione è quella di entrare nel salotto di un appartamento reale, dove solo la presenza di un enorme sarcofago dalle linee orientaleggianti ci riporta alla realtà di una meravigliosa camera sepolcrale, sovrastata da una volta a crociera decorata con stucchi policromi e pitture dallo straordinario stato di conservazione. Il tema delle stupefacenti decorazioni ruota tutto intorno alla mitologia greco-romana, con la narrazione di celebri miti che si alternano alla raffigurazione di eroi classici secondo un'iconografica esaltazione del defunto, convergendo idealmente verso il tondo centrale della volta dove Giove-Zeus troneggia rappresentato con le fattezze del titolare.


Esattamente di fronte all'ingresso, si distingue tra i miti l'episodio del "giudizio di Paride", dove Paride è chiamato a scegliere la dea più bella tra le tre candidate al titolo Era, Atena e Afrodite, in una sorta di concorso di bellezza ante-litteram. La storia la conosciamo non fosse altro che per la puntata di Pollon intitolata "i fanghi di Afrodite", nella quale le tre dee entrano in accanita competizione come trashissime concorrenti di un reality show di Mediaset, contendendosi la celebre mela con su scritto "alla più bella" (e perdonate se le fonti non sono propriamente le più illustri). Il mito di Alcesti, sul lato opposto, venne invece probabilmente scelto allo scopo di esaltare il tema della fedeltà e della dedizione coniugale: la protagonista sceglie infatti di sacrificarsi per il proprio uomo, Admeto re di Tessaglia, il quale venne insignito dall'amico/protettore Apollo di un bonus "evita-morte" nel caso in cui qualcuno avesse deciso di prendere il suo posto nel momento fatidico. Dopo il comprensibile rifiuto di parenti e amici, i quali si espressero con molta probabilità nel corrispettivo in Greco antico del nostro efficacissimo "machittesencula", fu proprio la fedele sposa a morire per lui. Sul finale interviene comunque Ercole, che in barba all'egoismo di Admeto, regala a tutti il lieto fine riportando in vita l'ingenua fanciulla. Tra un mito e l'altro colpiscono infine le straordinarie pitture che, tra maschere, cesti di frutta e uccelli esotici, ci regalano sorprendenti rappresentazioni di paesaggi idillici, che quasi sembrano essere stati dipinti dalla mano di un pittore impressionista dell'Ottocento. Fa riflettere come l'arte si sia involuta nuovamente nei secoli successivi verso quella rappresentazione piatta e bidimensionale tipica del periodo alto-medievale, per ritornare infine a quella profondità e potenza espressiva solamente moltissimi secoli dopo.


Una volta usciti dal sepolcro guarderemo infine i resti del tracciato della via Latina con occhi diversi e come in una ricostruzione in 3D alla SuperQuark quasi riusciremo ad immaginarla come era un tempo, tra quello stesso azzurro del cielo e il verde di una campagna che miracolosamente è arrivata intatta fino a noi. Un privilegio di cui dobbiamo essere grati anche e soprattutto al nostro Indiana Jones, alias Lorenzo Fortunati.

Il parco delle tombe di via Latina è aperto tutti i giorni con accesso libero fra le 9:30 e le 18:00 mentre
l'ingresso al sepolcro è possibile solo tramite visita guidata e su prenotazione (o in occasione di aperture speciali). Per informazioni rivolgersi allo 06.39967700 (cooperativa Pierreci).

lunedì 5 marzo 2012

Dice che ai Castelli la salita va in discesa

Per il classico romano doc, la gita fuori porta per antonomasia si identifica indiscutibilmente con la scampagnata ai Castelli Romani, così denominati in virtù del loro passato di fortezze appartenenti alle antiche famiglie feudali della cosidetta "nobiltà" locale, aristocraticamente violenta, corrotta e guerrafondaia. L'aria frizzantina a due passi da Roma e le famigerate "fraschette" dispensatrici di porchetta e romanella, si combinano con gli echi di quella cronaca nera da giornaletto scandalistico, popolata di ville a luci rosse per scambisti medio-borghesi e maldestri satanisti dell'ultima ora (molto in voga negli anni Novanta), gettando una luce ambigua e vagamente sinistra su questa amena realtà ai confini della metropoli, dove i piaceri semplici e genuini si incontrano con il peccato (di gola, ma non solo) nell'immaginario collettivo del romano fanfarone. Se infine volessimo buttarla sul geologico, potrei raccontarvi di come l'intera area si sia formata in seguito al collasso dell'enorme cratere dell'antico vulcano laziale, fenomeno che in tempi estremamente remoti diede origine alla formazione di ulteriori bocche più piccole, identificabili oggi con i laghi di Nemi e di Albano ( e il suo inquietante primato di 170 metri di profondità! ). In questo guazzabuglio mitologico non poteva ovviamente mancare l'elemento misterioso che, con la sua perfetta combinazione di suggestioni paranormali, fenomeni elettromagnetici e inganni ottici, vi fornirà un eccellente argomento di conversazione per una piacevole sosta etilico-gastronomica nelle vicine fraschette di Ariccia.

Il mistero in questione riguarda il famigerato tratto di strada che, percorrendo la via dei laghi in direzione di Nemi, si distacca all'altezza del quadrivio per proseguire verso Ariccia. Per qualche oscura ragione tuttora in discussione, immediatamente dopo aver percorso una prima incontestabile discesa, ci ritroveremo a procedere lungo un tratto di salita che, in maniera del tutto sorprendente per una mente ancora sobria, si comporterà esattamente all'opposto di come dovrebbe, apparentemente contro ogni legge o principio della fisica e della forza gravitazionale. Lungo l'intero tratto qualsiasi oggetto di forma rotondeggiante, che sia un pallone o una lattina, così come il contenuto di una bottiglietta d'acqua, tenderà infatti a "scorrere" in salita, allo stesso modo in cui la vostra macchina abbandonata con la marcia in folle comincerà ad arrampicarsi lentamente verso la vetta in un rigurgito di rivalsa contro il caro benzina.Vi suggerisco di arrivare sul posto già muniti dei vostri strumenti di misurazione ed evitare così di finire come il sottoscritto a raccattare rifiuti urbani di forma vagamente cilindrica sul ciglio della strada al fine di portare a termine l'esperimento (e devo ammettere che purtroppo non mancano lattine e bottiglie abbandonate adatte al caso). A questo proposito approfitto nel ricordare ad alcuni tra i solerti "Isaac Newton" de noantri che al termine delle proprie scoperte scientifiche sarebbe il caso di riportare indietro 'ste cazzo di bottigliette vuote, per riporle successivamente in un più consono cestino dei rifiuti. Considerando inoltre che ci troviamo in un tratto di strada a scorrimento veloce,  l'invasione della corsia a fini sperimentali è caldamente sconsigliata per evitare di beccarsi, nel migliore dei casi, un vaffanculo antigravitazionale dagli automobilisti della zona.

Già a partire dagli anni Settanta si svilupparono tutta una serie di studi e ricerche su questa affascinante anomalia, e persino il celebre tuttologo nazional-popolare del tubo catodico, Nostro Signore di Quark alias Piero Angela, si scomodò a suo tempo per un servizio sulla controversa salita. Con il suo consueto, impeccabile aplomb, Il nostro Piero concluse che la storia degli effetti magnetici e di una possibile discontinuità nel campo gravitazionale, altro non fossero che una gigantesca cazzata, il tutto a favore di una più classica spiegazione che ci riportasse nei ranghi del banalissimo effetto ottico. In realtà la mancanza di riferimenti fisici che possano ragionevolmente ingannare l'occhio, il fatto che l'effetto sia percepibile in entrambe le direzioni e il sospetto che gli stessi strumenti di misurazione (come ad esempio la livella) utilizzati nel contestare le affermazioni sull'oggettività della salita, possano venire compromessi nel loro funzionamento dalle medesime anomalie oggetto dello studio, lasciano tuttora forti dubbi sulle minimizzazioni del dottor Angela.

Allo stesso modo le affascinanti teorie (per molti ufficiali) che ipotizzano anomalie magnetiche e gravitazionali, imputabili alla natura vulcanica di una zona interessata sin dai tempi più remoti da fenomeni di origine tellurica, verrebbero inficiate dal corretto funzionamento dei relativi strumenti di misurazione; primo fra tutti la cara vecchia bussola della giovane marmotta. Insomma una spiegazione che metta tutti d'accordo sembra ancora ben lontana dall'essere trovata.

Ad aggiungere ulteriore suggestione c'è l'incombente presenza dell'indecifrabile Monte Cavo, con la sua selva di antenne e ripetitori dagli effetti altrettanto dubbi. L'antico vulcano dove venne innalzato il tempio di Iuppiter Latialis (nella cui direzione ci conducono i resti dell'antica via sacra), è stato sede, in tempi più recenti, di una base militare dell'aereonautica. Si vocifera ( il classico dice che..) che la stessa fosse collegata a misteriose installazioni sotterranee, seguendo la falsariga di leggende metropolitane dai contenuti fantapolitico-militari, in cui anche le cronache di avvistamenti di UFO nella zona rientrerebbero perfettamente nel quadro. Ritornando ad argomenti di più facile discernimento e alla nostra salita, per quale motivo dovremmo necessariamente far rientrare la spiegazione entro i confini di ciò che già conosciamo? Sappiamo perfettamente come funzionano gli effetti ottici o i campi magnetici, ma se ci fosse una terza soluzione legata a forze o meccanismi che non siamo ancora in grado di comprendere? Non è forse più divertente lasciare in sospeso il mistero? Per quanto mi riguarda, la spiegazione dell'effetto ottico non mi convince ancora del tutto. Ad ogni modo, quale che sia l'origine di questa forza misteriosa, lasciate che vi spinga dolcemente e a costo zero in salita verso Ariccia, e sulle note di "ma che ce frega, ma che ce importa" approderete così nella vostra fraschetta preferita, dove ad attendervi troverete la porchetta più buona del mondo e fiumi di vino rosso. E almeno su quello, che "scenda bene" non avrete dubbi!

giovedì 14 aprile 2011

Dice che al cimitero è più romantico

Una volta che avrete esaurito tutte le cartucce di un tramonto sul lungotevere, uno scorcio panoramico dal Gianicolo e un panino con la salsiccia dallo zozzone, una delle esperienze più romantiche che ancora vi resta da offrire nella nostra città è senza dubbio una passeggiata nel suggestivo cimitero acattolico di Testaccio. E se la proposta suonerà troppo macabra, vi consiglio allora di presentarlo sotto l'altro nome, decisamente più convincente ed evocativo, di "cimitero degli artisti e dei poeti".

La storia di questo luogo è legata in realtà proprio al termine acattolico, in quanto in passato non era permesso dare sepoltura in chiesa o comunque in terra benedetta ai non cattolici (protestanti, ortodossi, suicidi o semplici artisti stranieri di passaggio in Italia). Per questo motivo i corpi dovevano essere seppelliti fuori dalle mura della città e le inumazioni avvenivano soprattutto di notte per evitare incidenti e spiacevoli intromissioni di fanatici religiosi o semplici ubriachi molesti di passaggio. Tra la fine del settecento e gli inizi dell'ottocento, questa parte della campagna Romana a ridosso della mura Aureliane e della piramide di Caio Cestio, venne mano a mano riconosciuta come zona di sepoltura e quindi recintata, in parte a spese delle autorità pontificie e in parte e soprattutto grazie all'intervento di ambasciate e rappresentanze diplomatiche straniere. Il cimitero ospita infatti per la maggioranza cittadini stranieri e cominciò ad accogliere dalla seconda metà del '700 le spoglie di artisti, scrittori o semplici studenti Nordeuropei, che al tempo del cosiddetto Neoclassicismo, affascinati dalle vestigia del nostro passato classico, si recavano numerosi in Italia  per quel famoso viaggio di scoperta che spesse volte, proprio tra tali e tanto agognate bellezze, trovava la sua fine con la morte.
Una delle storie più significative è senza dubbio quella dello scultore Statunitense William Wetmore Story, la cui tomba è ormai divenuta icona dello spirito romantico del luogo, nonchè meta di pellegrinaggio di adolescenti emo-gothic e giovani fotografi tormentati, a cavallo tra le sonorità oscure e malinconiche del gothic rock e i versi inquieti di poeti neoromantici anglosassoni.

La scultura dell'angelo piangente sulla tomba è stata più volte  ripresa sulle copertine di album metal (dai finlandesi Nightwish ai più conosciuti Evanescence) e così come riportato in epigrafe, rappresenta l'ultimo lavoro di William Story prima della sua morte, scolpito come opera celebrativa per la sepoltura della defunta moglie. L' "Angelo del Dolore" (Angel of Grief) è una vera e propria evocazione della sofferenza per la perdita di una persona amata, e se il nome è già di per se sufficiente a far colare fiumi di eyeliner dagli occhi di giovani metallari romantici, ciò che realmente colpisce e commuove è l'immediata percezione di un "dinamico immobilismo" dello sconforto, grazie alla capacità dello scultore di  trasmettere a questo corpo fatto di pietra quel molle abbandono nel dolore, in cui sembra solo mancare il sussulto di un singhiozzo a scuoterne il corpo e le ali. L'artista morì poco dopo l'ultimazione dell'opera e venne sepolto in quella stessa tomba da lui plasmata ,insieme alle spoglie della compianta moglie. Ormai perfettamente in sintonia con lo spirito del luogo, sarete pronti a conoscere e immaginare le decine e decine di altre storie, circondati da artisti, pittori, scultori, poeti, filosofi e attori che a cavallo di due secoli, e provenienti da ogni parte del mondo, decisero un giorno di incrociare il proprio destino con Roma, che ancora oggi li  accoglie in questo piccolo giardino botanico tra cipressi e rose selvatiche, in un tempo sospeso tra l' ombra della piramide e il traffico della via Ostiense.

Non meno straziante è la storia del celebre poeta inglese Shelley, morto annegato al largo della costa Toscana a bordo di un vascello (e bisogna concedergli che in quanto a morte romantica, modalità e ambientazione sembrano essere state curate nei dettagli) e cremato sulla spiaggia di Viareggio. Le ceneri vennero seppellite nella cosiddetta zona vecchia del cimitero, mentre il cuore riposa oggi in Inghilterra al fianco della moglie Mary Shelley. Il suo amico Edward Trelawny strappò infatti alle fiamme il cuore del poeta durante la cerimonia di cremazione on the beach, il quale fu successivamente custodito dalla vedova Shelley fino alla morte e con lei seppellito in terra natia in quest'ultima espressione di macabro romanticismo e amore eterno. Se in tutto questo vi manca ancora l'elemento d'atmosfera, sappiate che Mary Shelley è la celebre autrice del romanzo "Frankenstain", uno dei più grandi miti letterari gotici di tutti i tempi. A completare tanto struggimento rimane l'epigrafe che riprende tre versi del canto di Ariel dall'azzeccatissima "tempesta" di Sheakspeare:  "Nothing of him that doth fade, but doth suffer a sea change, into something rich and strange"(Niente di lui si dissolve ma subisce una metamorfosi marina per divenire qualcosa di ricco e strano).

A questo punto l'itinerario vi obbliga a scoprire le tombe di altri importanti personalità, quali il poeta inglese John Keats, seppellito nella parte antica del cimitero (forse la zona più tranquilla e che più rispecchia la serena atmosfera del luogo)  e il nostro filosofo e politico Antonio Gramsci, uno dei pochi Italiani ad aver avuto l'onore di essere sepolto in questa enclave di stranieri.
Visite obbligate a parte  il consiglio che vi do è quello di non cercare, ma di lasciarvi attrarre e richiamare dalla forza, il fascino, l'involontaria bellezza o lo studiato eccesso di queste lapidi e sculture, che vi porteranno di volta in volta  a conoscere un pittore, una scrittrice, un filosofo o un artista in una personalissima ricerca che ha inizio in questo giardino e si concluderà magari sulle pagine di un libro al vostro ritorno. Potreste ad esempio scoprire un pittore Tedesco della metà dell'ottocento a partire dalla sua tomba magnificamente rock (Freidrich Geselchap), o fare la conoscenza di un'attrice Inglese dei primi del novecento incuriositi da quella strana statua classica di donna tranciata a metà (Belinda Lee).

Sono certo che ognuno porterà impresso il ricordo di un nome, di una statua o di un epigrafe, a seconda della propria sensibilità o stato d'animo del momento. In quanto a me, portate i miei saluti al piccolo Georges Volkoff: è quel bambino vestito di tutto punto che mentre stringe il suo quaderno tra le mani, volge lo sguardo verso qualcosa che non possiamo vedere, ma che sembra non spaventarlo affatto, con una serenità dipinta sul volto che diventa quasi contagiosa e che ci porteremo dentro fino a quando, usciti nuovamente all'esterno, torneremo a riprodurci in quei versi a noi decisamente più consoni e molto meno Shaekspeariani, rivolti all'ausiliare del traffico che ci ha appena lasciato la sua personalissima epigrafe sul parabrezza della macchina.

Il Cimitero acattolico si trova in via Caio Cestio 6 ed è aperto dalle 9:00 alle 17:00 (domenica e festivi 9:00 - 13:00). Per la visita siete invitati a lasciare un'offerta di due euro, destinata al mantenimento del posto. All'interno è presente anche un piccolo centro visite dove potrete approfondire la vostra sete di conoscenza sugli illustri ospiti di questo incantevole giardino.

lunedì 28 marzo 2011

Dice che la scampagnata la famo in città

Con l'arrivo della primavera e il risveglio degli appetiti (in realtà mai sopiti) siamo entrati ufficialmente nella stagione delle gite fuori porta. Ci sono solo alcune lievi controindicazioni: l'alzataccia domenicale per raggiungere a tempo debito il ristorante in questione e l'inevitabile incolonnamento di macchine al ritorno su una consolare a caso, con l'aggravante della pesantezza post digestiva e l'effetto subdolo del vinello di campagna a minare i nostri più elementari processi psicomotori. Eppure a volte ci dimentichiamo che Roma ha il privilegio di ospitare all'interno della sua stessa area metropolitana intere zone di campagna incontaminata, dove a un passo dallo skyline periferico dei nuovi quartieri satellite, è possibile illudersi di rivivere il mito perduto dell' Arcadia tra pecore, cavalli, merde di vacca e sapori genuini (infelice accostamento, mi rendo conto).

Questa parte dell'agro Romano che vi invito a conoscere è la riserva di Decima-Malafede, una sorprendente area naturale protetta, istituita nel 1996 ed interamente compresa nel comune di Roma. E finchè il nostro rispettabilissimo palazzinaro Roberto Carlino (proprio lui, quello che non vende sogni ma solide realtà), dall'alto della sua carica di presidente alla commissione ambiente della regione Lazio, non deciderà di metterci le mani per qualche rifinitissimo complesso immerso nel (fu) verde, vi consiglio una passeggiata alla scoperta di una parte della nostra città e del nostro passato agricolo capaci di conservarsi ancora immutati nel tempo (Il che vi sarà di aiuto anche per riprendervi dallo sgomento di sapere tale immobiliarista a capo della commissione ambiente della nostra regione,  che sarebbe un pò come mettere la Franzoni alla commissione famiglia o Manuela Arcuri alla cultura). Per raggiungere la riserva dovrete prendere la Pontina nella carreggiata più esterna in direzione di Pomezia, fino a che, un paio di kilometri dopo aver superato il raccordo (all'altezza di Spinaceto), svoltando a sinistra tra una serie di brutture architettoniche e capannoni commerciali vi ritroverete catapultati in pochi secondi in uno scenario completamente diverso e inaspettato, con un contrasto così forte e immediato da lasciare quasi un senso di nostalgia per quello che temiamo di poter ancora perdere del nostro sempre più precario patrimonio naturalistico.
Proseguendo su via di valle Perna, ormai in aperta campagna, e con l'aiuto di qualche cartello, arriverete fino al complesso "agricoltura nuova" e alla storica torre di Perna, dove se avrete saggiamente evitato quelle fatidiche giornate da esodo di massa tipo pasquetta, 25 aprile o "prima domenica di sole dell'anno", sarete persino in grado di parcheggiare la macchina fuori da un fosso ed accingervi ad esplorare la zona circostante.

Agricoltura nuova è un interessante esempio di cooperativa Agricola, nata da un occupazione abusiva di terreni infine ottenuti in concessione, e il cui scopo, oltre a quello di tutelare l'area dall'edificazione selvaggia, consiste nel portare avanti un progetto agricolo tanto semplice quanto prezioso come quello di produrre alimenti sani e genuini direttamente per il consumatore finale. Ed è così che oggi,  in questo piccolo villaggio-fattoria nato sotto l'ombra della torre di Perna, possiamo ritrovarci a fare acquisti in un piccolo supermercato di prodotti a Km zero, a deambulare barcollando dopo aver pranzato nelle grandi sale stile mensa sociale dell'ottimo ristorante, o a scegliere un cavallo per una passeggiata presso il maneggio del posto.
La Torre di Perna, nata come torre di avvistamento a protezione e controllo delle strade che portavano al vicino castello di Decima, divenne nel 1600 una sorta di castelletto-casale inserito nell'omonima tenuta di Perna, di proprietà di Pompeo Colonna, ed è oggi la sede della Casa del Parco.
Il consiglio è di arrivare in mattinata per godersi una passeggiata lungo il sentiero natura, che partendo dalla fattoria vi guiderà giù lungo la valle, accompagnati da una serie di cartelli esplicativi che vi illustreranno le caratteristiche della flora e della fauna del posto.

Il sentiero parte attraverso un allevamento di api in arnie, dove, soprattutto se avrete evitato di spalmarvi la crema di cera d'api per rimediare agli effetti distruttivi dei bagordi del sabato, vi renderete conto di come la natura possa rivelarsi del tutto rassicurante quando è possibile sperimentarla nel suo contesto; e se anche siete soliti scatenare scene di panico con morti e feriti per colpa di un'ape infame entrata dal finestrino della macchina, riuscirete ad attraversare beatamente il ronzio di migliaia di api intente nel loro lavoro, ormai distanti anni luce dal familiare, ma ben più inquietante sottofondo di motori dalla strada. Dopo essere scesi nella valle il percorso risale attraverso un bosco di querce fino a raggiungere una collinetta ben arata. Da lì lasciate spaziare lo sguardo tra la valle sottostante, la torre di Decima in lontananza, l'odiata statale pontina e il profilo dei casermoni di Spinaceto, che sono li a ricordarci che in fondo questa campagna sconfinata è stata solo un'illusione, e che proprio per questo vale la pena che venga preservata più a lungo possibile.
Il ritorno e la salita sono il preludio al tipico pranzo della domenica. L'antipasto è già in tavola e il menù è fisso e abbondante. Alla fine appesantiti da un paio di chili e alleggeriti di 25 euro vino compreso, non resta che buttarsi nell'erba, sollevati al pensiero che tanto la strada per tornare a Roma non è lunga, perchè anche se non sembra, a Roma ci siamo già.
Alla faccia di Roberto Carlino e di tutti i palazzinari.

Il sito dell'agriturismo è http://www.agricolturanuova.it/ , dove trovate anche le indicazioni per raggiungere il posto e i menù della domenica! Se andate senza prenotare siete senza speranza.