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martedì 4 giugno 2013

Dice che il grande Borromini era un Proto-Massone...(proto che?)

Quanti segreti si nascondono nei palazzi romani! E con questo non mi riferisco alle migliaia di strutture abusive assolutamente  mai sfiorate da condono edilizio, ma ai ben più rari tesori artistici e architettonici, gelosamente custoditi dietro gli imponenti portoni delle più belle residenze storiche del centro.
Tra questi il non sempre accessibile Palazzo Falconieri, sede della prestigiosa accademia d'Ungheria, dove mistero e bellezza si fondono in un architettura in cui ogni cosa sembra tendere verso l'alto. A partire dai due falconi in topless, volatile omaggio femminile alle rampolle della famiglia, che posti ai lati della facciata rivolta su via Giulia, fanno da sentinelle a questa antica residenza, passata di mano in mano tra le migliori casate fino a divenire nel Seicento proprietà della ricca famiglia fiorentina dei Falconieri. Famiglia che deve la sua fortuna al monopolio sul commercio del sale, una risorsa preziosa che, così come lascia intuire la tristemente celebre espressione "'sto conto è troppo salato", è sinonimo da sempre di grande ricchezza. La scalata al successo diventa quindi metafora di un'ascesa al cielo: il falco predatore dell'aria come stemma della famiglia, i misteriosi soffitti dalle simbologie massoniche che catturano lo sguardo verso l'alto, e un'altana sospesa nel vuoto da cui dominare con lo sguardo l'intera città.

E' proprio in questo palazzo che scopriamo gli aspetti più intimi e personali del grande genio del barocco Francesco Borromini. Di lui conosciamo la pittoresca rivalità col Bernini, tramandata da un'aneddotica che sconfina nel gossip tra dispetti e gelosie da primedonne, ma che li vedeva divisi soprattutto nel carattere. Il Bernini mondano e perfettamente a suo agio nella corte pontificia, tra feste, intrighi e lecchinaggi, il secondo introverso e solitario. Poco amato dai suoi allievi e probabilmente vittima di un profondo conflitto interiore che lo vedeva scisso tra una fortissima religiosità e una pari attrazione verso l'esoterismo e la simbologia occulta, molto di moda nei circoli culturali dell'epoca. Scalpellino dall'infanzia, membro attivo della corporazione dei muratori (associazione a cui si ispirò la massoneria nel secolo successivo, sia nella struttura organizzativa che nell'immagine coordinata: il simbolo della squadra e del compasso come antico logo e il mito della divinità suprema come grande architetto dell'universo), il Borromini resta ancora oggi un rompicapo intorno al quale si danno le interpretazioni più disparate sulla simbologia nascosta nei suoi capolavori.

Ma è proprio a Palazzo Falconieri che tutto diventa ancora più evidente, in un lavoro commissionatogli alla fine della carriera e della sua vita in un ambiente più intimo e familiare, proprio dal suo amico Orazio Falconieri, con il quale condivideva gli stessi interessi nel campo della mistica esoterica. Al Borromini si deve infatti l'elaborata decorazione a stucchi dorati dei salotti del piano nobile. Salottini piccoli, appartati, intimi, poco adatti alle grandi feste e certamente più appropriati per conversazioni private, riunioni elitarie di pochi appassionati alle discussioni allora tanto in voga sui temi dell'alchimia e dell'occulto. Tre cerchi intersecati tra loro e un grande sole posto al centro dominano la scena nel soffitto della prima sala. Il tre come trinità? Come numero perfetto? Il classico trittico per tutti i gusti "corpo/anima/spirito"? Lasciate per un momento da parte i misteri alla Dan Brown e soffermatevi piuttosto sull'aspetto ludico dell'opera. E come in un quiz della settimana enigmistica di 4 secoli fa divertitevi a scovare tutti gli animali, insetti e uccelli che il genio si è dilettato a mimetizzare nella ricchissima decorazione a girali di piante. Pesci, anatre e gechi vengono fuori dagli intarsi a stucco come nei migliori trip di gioventù. L'ironia del barocco che diventa inganno e ricerca, torcicollo e vertigini.


Nella sala seguente ripiomberemo nuovamente nella simbologia più ancestrale con il grande uroboro, il serpente che si morde la coda a rappresentare un ciclo infinito dove la fine corrisponde al principio. Ai due estremi un occhio che spunta fra i raggi, un globo percorso da meridiani e paralleli e un lungo scettro che partendo dall'occhio (da Dio o dal grande architetto?) si appoggia (governa) sul mondo. Tanta carne al fuoco per una lettura dai contorni esoterici i cui temi confluiranno nella nascente massoneria, che vedrà la luce solo agli inizi del secolo successivo. E da bravi profani rimarrete affascinati dalle suggestioni di una simbologia che ci riporta al potere, al mistero, all'occulto, alla materia e al paganesimo in quell'eterno quesito che continua a tormentarci da sempre: "ma alla fine che cazzo vor dì?".

Se siete stanchi di guardare a testa in su allora è il momento di cambiare prospettiva e dall'alto volgere lo sguardo verso il basso: tre piani di scale ci portano fin sulla loggia, e ancora più su, in quell'altana sospesa su Roma. Ben più in alto dell'antistante palazzo Farnese, volutamente più in alto dei propri vicini, in un moto d'orgoglio della nuova borghesia contro la vecchia nobiltà. Trecentosessanta gradi di una Roma mozzafiato abbracciata da un terrazzino ristretto e aperto all'infinito, dove gli spazi si fondono nella continuità dello sguardo di enigmatiche erme bifronti che si rivolgono contemporaneamente all'esterno e all'interno. Mi piace immaginare un riservatissimo Borromini autocompiacersi nel vedere svettare proprio lì di fronte la sorprendente cupola a spirale di S.Ivo alla Sapienza, il suo più grande capolavoro, di cui dal basso si fatica a trovare l'ingresso, ma che caratterizza nel modo più inconfondibile e originale qualunque veduta dai tetti della città. Percorrendo la scaletta a chiocciola d'accesso, quasi vengono a mancare i punti di riferimento, e la sensazione di elevarsi nel vuoto del cielo romano metterà alla prova anche i più immuni alle vertigini.
Artista profondamente tormentato, di lì a poco Borromini avrebbe lasciato la sua città d'adozione e il mondo con una morte spettacolare ed eccessiva proprio come il suo barocco. L'ultimo inganno di un grande maestro che, anche nel gran finale, lanciandosi da solo su una spada puntata ad arte da lui stesso contro se stesso, ha giocato per l'ultima volta con un'inversione della prospettiva. Di lui ci restano le facciate più originali di Roma e un motto condiviso dalla propria corporazione muratoria: "esporre segretamente e dimostrare silenziosamente". E questa sua ultima opera, esposta segretamente nell'intimità di una dimora privata, sembra esserne la più coerente conferma.

Palazzo Falconieri ospita oggi l'accademia d'Ungheria ed è visitabile in occasione di mostre o eventi speciali. I gruppi possono prenotare una visita su appuntamento (tel 066889671). In ogni caso tenetevi pronti che a settembre sarà una delle prossime tappe dei nostri "walk&brunch" alla scoperta della "Roma Fuoripista"


sabato 23 marzo 2013

Dice che ai capelloni li chiamavano Nazareni


Il poco conosciuto Casino Massimo, palazzetto Seicentesco dal nome molto attuale, custodisce in un'anonima strada a due passi da S.Giovanni l'espressione più celebre di un'intera corrente artistica della prima metà dell'Ottocento. La villa nasce come residenza suburbana del Marchese Vincenzo Giustiniani, al tempo in cui l'Esquilino si presentava come zona verde popolata di orti, giardini e ville rinascimentali. E c'è da dire che scoprire l'origine quasi agreste di questa ex residenza di campagna, oggi minacciata dal cemento e incastonata tra i palazzoni in zona san Giovanni, è una lezione di urbanistica che colpisce come un cazzotto nello stomaco. Una volta che l'edificio venne acquistato dal marchese Massimo nel 1803, il nuovo proprietario azzardò un importante restyling commissionando la decorazione delle tre sale del pianterreno ad un insolito gruppo di artisti venuti dalla Germania, fortemente risoluti nel voler rivoluzionare l'espressione pittorica del tempo: i cosiddetti Nazareni. Un manipolo di simpatici tedeschi impregnati di valori religiosi e convinti assertori di un ritorno alla purezza artistica dei maestri del primo Rinascimento, in opposizione alla volgarità del nuovo stile neoclassico (e come dargli torto). Il gruppo si presentava con un originalissimo look consistente in un avvolgente mantello, barba e capelli rigorosamente lunghi. E così come al quindicenne capellone di oggi sarà capitato sentirsi dire dalla nonna "ma come te sei conciato? pari Gesù Cristo" (il tutto accompagnato dallo scuotimento rassegnato della testa), anche i nostri amici tedeschi subirono probabilmente la stessa sorte e vennero quindi marchiati come Nazareni per via del loro aspetto e della loro chioma, guadagnandosi di diritto un posto nella lista delle categorizzazioni di stile subito dopo gli "emo", i "metallari", i "punkabbestia" e i "pariolini".


Sotto la guida del loro leader Friedrich Overbeck, i Nazareni si unirono nella cosiddetta lega di San Luca e si trasferirono come una specie di comune hippy nel convento abbandonato di Sant'Isidoro, gentilmente concessogli dal direttore dell'accademia di Francia. Qui convissero in pieno spirito di peace and love confrontandosi, dibattendo e ritraendosi a vicenda (non chiedetemi se si facessero anche le canne perchè non lo so). Al centro della loro dottrina artistica c'era la predominanza dei temi religiosi, un ritorno alle origini della pittura Quattrocentesca, e una non meglio identificata ricerca della verità. Ai membri originari si unirono nel tempo alcuni nuovi adepti, ed è proprio a questi ultimi, insieme al capostipite Overbeck, che si deve la straordinaria decorazione del Casino Massimo su commissione dell'omonimo marchese. Tre stanze per la rappresentazione pittorica di tre grandi opere letterarie, avvolte da un cromatismo brillante fatto di pennellate uniformi come solo Beato Angelico e Filippo Lippi avrebbero saputo regalarci agli albori del Rinascimento Italiano: la Divina Commedia di Dante, la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso e l'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. E così, insieme agli appassionati d'arte, si sentiranno debitori nei confronti dei Nazareni persino quei giovani studenti fancazzisti che, non ricordando assolutamente nulla di queste opere cardine della letteratura Italiana, avranno modo di rinfrescarsi la memoria prima di un interrogazione, dando un occhiata alle pareti del Casino Massimo divenuto per l'occasione strategico Bignami. Non tutti i critici d'arte convergono sul valore estetico dell'opera, ma per chi non ama dare credito alla spocchia dei critici ed è abituato a giudicare l'arte con lo stomaco, l'impatto con queste stanze si rivelerà sicuramente notevole; sarà per la prospettiva delle porte allineate in sequenza che sembrano introdurci di volta in volta in una nuova scatola tridimensionale, sarà per un moto d'orgoglio patriottico (lo so, i pittori sono tedeschi, ma i temi sono parte del nostro patrimonio e DNA) o semplicemente perchè le scene ci appaiono luminose e pulite come per le pennellate di un Raffaello prima maniera.


In questo planetario della letteratura è bello alzare la testa perdendosi nei dettagli e ricostruire le storie che ci hanno accompagnato (o che abbiamo rifuggito) sui libri di scuola. E sicuramente non potrà che colpirci quella contrapposizione Dantesca tra inferno e paradiso, ormai perfettamente interiorizzata da ogni cittadino Italiano minimamente consapevole, con quell'apocalittica scena dell'inferno a fare da cornice ad una porta che non siamo certo tentati di voler attraversare. Il lavoro venne portato avanti, lasciato incompleto e infine concluso da diversi appartenenti alla setta pittorica: Peter Cornelius, Joseph Anton Koch, Johann Friedrich Overback, Philip Veitt, Julius Von Carolsfeld, si alternarono e sostituirono in un'opera globale che oggi ci appare quanto mai uniforme. In particolare il giovane Carolsfeld si occupò da solo della stanza di Ariosto, regalandoci momenti di puro lirismo come nella scena di Angelica e Medoro, con lei che incide sull'albero il nome dell'innamorato. Alla fine della visita ci sembrerà di essere usciti da un quadro. Ad aspettarci non ci sono più le campagne bucoliche dell'Esquilino che fu, ma il rumoroso traffico di S.Giovanni, e ripiombati nell'inferno di lamiere non potremo fare a meno di pensare che alla fine il vero "casino massimo" è tutto per strada appena fuori di lì..


Il Casino Massimo si trova in Via Matteo Boiardo 16 ed è visitabile il martedì e il giovedì dalle 9:00 alle 12:00 e dalle 16:00 alle 18:00 e la domenica dalle 10:00 alle 12:00.

giovedì 2 agosto 2012

Dice che il principe era ossessionato dalle civette


Sarebbe certamente più logico raccontare la storia della Casina delle Civette andando di pari passo con quella dell'intero complesso di Villa Torlonia, l'eccentrica dimora del Marchese Giovanni Torlonia che alla fine del Settecento stabilì di meritarsi una fastosa residenza degna di un titolo nobiliare appena accaparrato, ma soprattutto delle proprie sconfinate e indecenti ricchezze accumulate in anni di speculazioni in combutta con gli occupanti Francesi. Tuttavia questo bizzarro edificio fantasy da sempre sembra vivere di vita propria, appartato dall'intero contesto residenziale esattamente come l'ambiguo erede della famiglia, Giovanni Torlonia Jr, che fino al giorno della sua morte avvenuta nel 1938 scelse proprio la Casina delle Civette come residenza privata ai margini del parco, per ritirarsi, così come recita l'iscrizione sulla porta di ingresso, in "Sapienza e Solitudine" (in parole povere "per cazzi suoi").


L'intero parco venne gradualmente trasformato in una specie di Disneyland per volere di Alessandro Torlonia a partire dal 1832, con la conseguente progettazione della Casina delle Civette che, originariamente realizzata come rifugio di montagna in lungimirante anticipo sulle attuali tendenze eco-chic, assunse in prima battuta l'evocativo nome di Capanna Svizzera. In pieno delirio da ecstasy erano sorte nel frattempo tutt'intorno finte rovine romane, obelischi rosa, villini medievali e persino una grotta moresca. Alla morte di Alessandro subentrò il nipote Giovanni, il quale tramite "magheggio" anagrafico riuscì ad ottenere il cognome della madre sposata ad un Borghese (nel senso della nobile famiglia dei Borghese) al fine di garantire continuità alla dinastia dei Torlonia: ed è così che facciamo la conoscenza di Giovanni Torlonia Jr. Il giovane principe decise dunque di spostare la sua residenza all'interno dell'ex Capanna Svizzera, che per suo gusto e volere subì una curiosa metamorfosi in villaggio medievale a seguito di tutta una serie di interventi architettonici che tra logge, loggette, torrette e porticati dai risvolti fiabeschi trasformarono in breve tempo il rifugio alpestre in castelletto. Non ancora soddisfatto, e coerentemente in linea con la sua fama di misantropo e amante dell'esoterismo, volle aggiungere un tocco personale all'intera costruzione, facendola dotare di elementi simbolici ricorrenti, oggetto delle sue personalissime ossessioni: prima fra tutte la civetta.


E mentre Giovanni sceglieva di vivere ai margini del parco in pieno isolamento liberty tra lumache, civette, trifogli e ancora civette, il corpo principale di Villa Torlonia venne affittato nel frattempo (1925) a Benito Mussolini alla simbolica cifra di 1 lira. All'apparenza semplici compagni di bonifica, in virtù del mastodontico intervento bonificatore operato dai Torlonia nella piana del Fucino in Abruzzo a partire da nonno Alessandro (opera che integrò la collezione di titoli familiari con "la fascia" di principe del Fucino), i due personaggi erano in realtà legati da tutta una serie di interessi che, in quanto rappresentanti del potere politico e finanziario del momento, furono alla base del loro "avvicinamento"; un avvicinamento talmente letterale da farceli infine ritrovare come improbabili vicini di casa. Cito dalla commemorazione dell'allora presidente del senato alla morte di Giovanni Torlonia Jr: "...(egli) rappresenta uno dei contributi più cospicui coi quali l'iniziativa di un privato abbia saputo assecondare l'azione generale del governo fascista per la redenzione del suolo d'Italia"! Alle spalle di cotanta redenzione agricola c'è tutta la storia di un famiglia di mercanti arricchiti, che tra speculazioni, matrimoni studiati a tavolino con le nobili famiglie romane e appropriazioni di titoli nobiliari e proprietà a fronte di prestiti non restituiti da parte di aristocratici in malora, divenne in breve tempo una vera potenza politica e finanziaria (la banca del Fucino è tuttora presieduta dai Torlonia).

E come sempre quando si parla di potere e finanza, non può ovviamente mancare l'elemento esoterico-massonico, in questo caso perfettamente e ripetutamente rappresentato nella quotidianità della dimora del principe. L'intervento più evidente e caratterizzante fu comunque la realizzazione di meravigliose vetrate liberty, dalla scuola del maestro Cesare Picchiarini, su disegni di quattro diversi artisti (Cambellotti, Bottazzi, Grassi e Paschetto), i cui lavori dotarono l'intero complesso di un patrimonio artistico senza precedenti fortunatamente sopravvissuto in parte fino ad oggi. Tra tutte si distingue la vetrata delle civette, su disegno di Duilio Cambellotti, ennesima rappresentazione dell'animale notturno, le cui fattezze vennero morbosamente riprodotte nelle fogge del mobilio della camera da letto. Non essendo rimasto quasi nulla dell'arredo orginario, possiamo oggi solamente immaginare le sembianze di una civetta ossessivamente ripetute su lampade, comodini e pomelli del letto, mentre rimane comunque al suo posto l'inquietante volo di pipistrelli a stucco sul soffitto del letto, come prova e a garanzia di una certa stravaganza del principe ai confini del "fuori de capoccia". Simbolo ambivalente sin dai tempi dell'antico Egitto, la civetta rappresenta da un lato la saggezza e l'illuminazione di chi possiede la capacità di scrutare attraverso le tenebre, ma è allo stesso tempo legata al tema opposto della morte e dell'oscurità: "sapienza e solitudine", appunto.


Il percorso ci guida attraverso i due piani della villa alla scoperta di ciò che rimane a seguito dell'eccellente lavoro di restauro che salvò l'edificio da un progressivo degrado, iniziato con l'occupazione delle truppe anglo-americane, proseguito con l'incuria e i saccheggi e terminato con il disastroso incendio del 1991. Dovremo dunque lavorare di fantasia, stimolati da quei piccoli meravigliosi dettagli superstiti e dalle descrizioni di ogni singolo ambiente, capaci di riportarci alle eleganti atmosfere vissute dall'inquietante erede dei Torlonia. E attraversando il fumoir (viene voglia di accendersi una sigaretta al solo nominarlo) e il salottino delle 24 ore, rappresentate sulla bellissima volta dipinta come 24 discinte fanciulle, per poi raggiungere il più intimo piano superiore, conosceremo passo dopo passo tutte le ossessioni e le simbologie in cui il principe Torlonia amava ritirarsi. Set perfetto per un horror di classe e allo stesso tempo romantico scenario di una passeggiata metafisica, quando la luce dell'esterno si colora attraverso le preziose vetrate inondando l'ambiente di soffuse tonalità pastello. I pochi manufatti originali sono arricchiti da un esposizione di bozzetti e riproduzioni di vetrate liberty, un percorso di nicchia che perde valore di fronte alla potenza comunicativa di un luogo allo stesso tempo misterioso e affascinante, capace di restituirci nel vuoto dei suoi ambienti quella meravigliosa qualità che sempre meno utilizziamo: l'immaginazione per riempirlo. E alla fine non potremo fare a meno di vedere il principe riposare sotto quel lugubre volo di pipistrelli.

La Casina delle Civette si trova all'interno del Parco di Villa Torlonia, con ingresso in via Nomentana 70 ed è aperta tutti i giorni escluso il lunedì dalle 9:00 alle 19:00.
E con questo "Dice che a Roma" (ovvero me medesimo) se ne va in vacanza fino a settembre. Per non sentire la mia mancanza come sempre la butto là..compratevi il libro "Roma Fuoripista"! Sul solito sito troverete la possibilità di prenderlo on-line e la lista delle librerie dove acquistarlo: www.romafuoripista.com

BUONE VACANZE A TUTTI!